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Non di solo gossip…

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inciucioC’è veramente ai piani alti del potere chi vedrebbe bene una messa da parte del Berluska, e perché e con quali obiettivi? La domanda diventa legittima, a patto di porsela senza dozzinali ipotesi complottiste, visto il rovesciarsi relativamente rapido dell’operazione “veline” da arma di distrazione di massa (rispetto ai possibili effetti della crisi globale, principalmente) in un mezzo boomerang per B. via vicende “familiari” e “personali”. Le virgolette sono d’obbligo contro chi ritiene che si tratti di gossip, presunta privacy da salvaguardare, ecc. Niente di più fuori della realtà. Non solo perché si tratta dell’ennesima aggressione, tutta politica, giocata sui corpi delle donne che d’un balzo ci porta indietro per certi versi a prima del Sessantotto. Ma anche perché il passaggio che abbiamo davanti rivela, e costruisce insieme, l’intreccio strettissimo tra una certa autorappresentazione del potere -ben oltre la rappresentanza formale e sociale irreversibilmente svuotate, con tratti di quasi impazzimento- e profonde linee di disgregazione radicate nella società (solo?) italiana.

Proviamo a formulare per analogia un’ipotesi accompagnata da una serie di distinguo importanti. Qualcuno dall’alto sta pensando -che è meno che preparare- a un cambio della guardia ai vertici dell’esecutivo che potrebbe per certi versi ricordare quanto si diede tra il ’92 e il ’93 con la dissoluzione della prima repubblica. Ovviamente in un contesto del tutto mutato. Allora si trattava di rispondere ad una crisi economica e monetaria (svalutazione della lira, indebitamento pubblico alle stelle) già precipitata mentre oggi i tornanti più duri paiono plausibilmente dover ancora arrivare. Allora si trattava di far fuori un’intera classe politica e un certo tipo di patto sociale divenuti eccessivamente onerosi per il capitale, oggi si tratterebbe “solo” di liberarsi di un personaggio, o poco più, che rischia di divenire scomodo e sempre meno presentabile.

Ancora, con tangentopoli i poteri forti puntarono con una certa efficacia ad una larga legittimazione sociale del “cambio” da parte di soggetti collettivi indeboliti ma in piedi e trasversali (movimento sindacale, una certa sinistra, una parte di ceti medi produttivi) in una prospettiva di “moralizzazione” dello stato e ripulitura degli sprechi: oggi questi soggetti sono completamente frantumati e atomizzati, e nessuno crede più a una rinnovata politica dalle “mani pulite”. Dove a questo punto l’analogia? Nella necessità, in astratto, di un ricambio dall’alto dei vertici dello stato per preparasi meglio alla crisi che avanza (quindici anni fa si diceva: “il nuovo…”) ed evitare guai più seri, soprattutto sociali. Il recente avvertimento del governatore di Bankitalia Draghi sulla profondità della crisi, che sta davanti e non dietro di noi, va esattamente in questa direzione. L’analogia inoltre tiene, seppur in minor misura, nel senso che gran parte di quel che resta del “popolo della sinistra” darebbe un sostegno dal basso a un’operazione che vedrebbe l’“antiberlusconismo” tanto declamato quanto vuoto degli ultimi quindici anni prendere il posto di “mani pulite”.

Ma se l’altra volta l’operazione, in una sua parte almeno, è riuscita, oggi questo è tutto da vedere. Intanto, perché chiedere a B. di farsi da parte? Accantoniamo un attimo le idiosincrasie della classe finanziaria e imprenditoriale verso il cavaliere e la nota tendenza trasformista della classe dirigente nostrana. Il problema gira intorno al timore che il governo risulti incapace di affrontare i risvolti della crisi se questa dovesse battere duro, insieme alla constatazione di una certa deriva autoreferenziale della leadership berlusconiana che oltre tutto va facendo promesse a destra e manca che si sa benissimo non potranno essere mantenute: dalla ricostruzione in Abruzzo alla soluzione del problema rifiuti, ai trasferimenti di risorse al Sud, ecc. In più, già oggi, preoccupano l’afasia manifestata nella vicenda Fiat (dove la figura più ridicola l’ha fatta in verità Tremonti: il critico del mercatismo che invoca la correttezza del libero mercato!), l’impresentabilità internazionale e le incertezze nelle alleanze, la possibile perdita di controllo sull’unità nazionale e sulla deriva razzista (che rischiano di sfuggire di mano a favore della Lega, il partito che ha finora più “realizzato” proprio su questo terreno con federalismo e decreti sicurezza e non a caso è il più convinto sostenitore del governo).

In effetti, il nullismo dell’opposizione parlamentare non deve ingannare sulla difficoltà nell’azione di governo in questi primi passaggi della crisi mentre il deficit pubblico aumenta a dismisura senza che siano state prese misure serie sul crescente disagio sociale. Soprattutto, non deve ingannare sulla sostanziale fragilità del consenso sociale, pur diffuso, intorno a B.: non è un consenso attivo ma passivo (in particolare i “vecchi” ceti medi ostinatamente evasori: ma dove prendere le risorse necessarie se si è già raschiato il fondo del salario operaio e dei precari?), rancoroso nelle molteplici manifestazioni che sappiamo (e in questo trasversale) ma non organizzato e tanto meno, per ora, spontaneamente autorganizzato (vedi le difficoltà leghiste testimoniate dalle ronde… per legge) e in grado di contrapporsi alle mobilitazioni sociali laddove queste si sono date (vedi Onda). E’ poi venuta meno l’adesione convinta e speranzosa delle professioni autonome “di seconda generazione” che sta lasciando il posto alla presa d’atto del lato oscuro del rischio assunto individualmente (ma non per questo intercettabili dalla vecchia sinistra) e forse anche, embrionalmente, della forma-impresa prima tanto decantata.

E’ questo, in breve, il risultato di anni di sistematica distruzione, nel quadro della globalizzazione neoliberista appoggiata a destra come a sinistra (istituzionale), di ogni senso dell’impegno comune e di un progetto collettivo. Dove la destra ha avuto il vantaggio incolmabile di puntare sulla valorizzazione delle individualità a patto che queste deponessero ogni velleità di costruzione di un bene comune, ogni caratterizzazione “sociale”. Ora, però, anche quella parte politica dovrà pagare il dazio mostrandosi costitutivamente incapace -a differenza di quel che seppero fare i fascismi e in altra forma il new deal degli anni Trenta- di organizzare e convogliare queste dinamiche verso un esito -capitalistico e “modernizzatore”- reazionario ma collettivo. (Qui il discorso sarebbe complesso sulla natura di quel passaggio storico e sulle differenza dall’oggi e andrebbe visto a scala globale). Cosa resta al potere laddove viene meno ogni collante sociale? La pretesa assoluta sui corpi (in primis femminili) dei “soggetti” cui viene però incontro, questa la novità “di fase”, la aperta disponibilità di questi stessi soggetti in cerca di successo a vendersi senza “pudore” (magari con i genitori come broker…) e in questo legittimati (e magari invidiati) socialmente. Faccia perversa della individualità sociale potenzialmente ricca (così come la finanziarizzazione lo è rispetto alla socializzazione del lavoro e della vita)! Dietro l’autoreferenzialità del potere per il potere frutto della crisi definitiva delle vecchie forme di mediazione sociale organizzata fanno capolino, allora, profondi processi di sussunzione della vita sociale nelle logiche capitalistiche. E’ solo gossip, si ostina a dire qualcuno: sarà…

I nodi prima o poi vengono al pettine. La ruling class italiota, o quel che ne resta, subodora le tensioni sociali a venire e punterebbe a una riverniciatura del potere in grado di diffondere e legittimare un rinnovato discorso di “aspettative diminuite” per la gente comune e di inevitabili tagli agli “assistenzialismi”. Sul chi potrebbe farsi avanti o prestarsi si possono solo fare supposizioni: Draghi di Bankitalia (e benemerito della Goldmann Sachs) e il “partito del Corsera” ritornato blandamente alla carica, Montezemolo della cordata Fiat, un Napolitano preoccupato della coesione nazionale, magari un Fini “di transizione” (ma verso cosa?). Sul programma, si tratterebbe di approfondire la linea del neocorporativismo delineato al momento dal duo Sacconi (vedi il suo Libro bianco) & Brunetta e dal presunto nuovo asse Confindustria-Bonanni (ovvero: “partecipazione” dei lavoratori alle perdite della finanza e delle imprese) riprendendo pezzi del messaggio tremontiano “dalla paura alla speranza” (anche se l’ideatore esce in maniera non proprio esaltante da questo anno di governo) moderando un poco le “esagerazioni” leghiste. Ma le cose non sono così semplici. Berluska non è tipo da mollare facilmente la presa potendo giocare sul ricatto “senza di me il diluvio”. E come si posizionerebbe l’asse Tremonti-Lega? Non si vede inoltre una spinta reale dal basso che potrebbe -come fu con tangentopoli, ancorché illusoriamente- supportare l’operazione dall’alto. Forse la debolezza peculiare del capitalismo italiano sta proprio nell’impossibilità di disfarsi di Berlusconi al quale al massimo si può chiedere di darsi una registrata. E al tempo stesso, se in questo c’è una evidente “anomalia italiana”, si tratta pur sempre del caso estremo di quella politica “liquida” che l’attuale stadio del capitalismo è in grado di proporre.

E’ allora più probabile una deriva le cui oscillazioni farebbero da termometro della crisi globale nelle sue manifestazioni sociali e politiche (di nuovo l’Italia come laboratorio?). Molto dipenderà, appunto, dalla dinamica della crisi globale: dovesse questa approfondirsi e di fronte a reazioni sociali, l’attuale compagine governativa (e l’opposizione) dimostrerebbe tutta la sua debolezza. Cresciuta com’è sulla storiella che l’“uomo del popolo” possa risolvere i problemi a vantaggio di tutti. Così non potrà essere e allora sì che il clown farà davvero ridere (soprattutto se confrontato con i vecchi partiti, DC e PCI, che in modo diverso e in una differente fase storica seppero opporsi ad un sommovimento sociale, e quale, che in Italia durò dieci anni).

Per i soggetti sociali potenzialmente o già schierati intorno al messaggio “noi la crisi non la paghiamo” la prospettiva non è affatto facile e lineare. Se anche dovesse concretizzarsi l’improbabile scenario che abbiamo provato a ipotizzare, la cosa peggiore sarebbe pensare di cauzionare “dal basso” un eventuale nuovo corso “antiberlusconiano”. Meglio, molto meglio proseguire e rilanciare le iniziative sociali che sono già intrinsecamente politiche -in un senso non istituzionale- a misura che nel mentre delineano una linea di resistenza nella crisi globale provano a costruire nuovi legami sociali, nuove forme di vita. Un po’ quello che probabilmente saranno costretti a fare -meglio: hanno già iniziato a fare- le donne e gli uomini in Abruzzo di fronte alla bolla speculativa delle promesse berlusconiane. Non sarebbe male se il movimento che prepara l’anti-G8 di luglio si mettesse “a disposizione”, e prima di tutto in ascolto e in comunicazione, rispetto a queste spinte spontanee al di là della loro contraddittorietà attuale. Non è detto che l’anti-G8 non parta proprio da lì.

Infoaut, 4 giugno ‘09

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