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dialetticaefilosofia

Democrazia cercasi

di Carla Maria Fabiani

Stefano G. Azzarà, Dalla caduta del muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur editore, Reggio Emilia 2014

DEMOCRAZIA CERCASI cover 11 14x21 1 singVogliamo presentare il testo di Azzarà sintetizzandolo con alcune parole chiave, che certo non esauriscono l'analisi assai accurata e al tempo stesso spietata che l'Autore restituisce in merito alla crisi culturale e politica che investe l'Italia ormai da tempo, almeno dagli anni Novanta, ancora oggi decisamente in corso. Una crisi che paradossalmente sprovincializza il nostro paese - per ragioni legate innanzitutto alle relazioni economiche e geopolitiche globalizzate che lo investono - rendendo l'Italia quasi un paradigma, soprattutto nelle sue manifestazioni patologiche. Il testo di Azzarà andrebbe letto nelle aule scolastiche (oltre che universitarie, s'intende) nell'ora di educazione civica, oggi derubricata a mezz'oretta di cittadinanza e costituzione strappata alle ore - assai ridotte anch'esse - di storia. Perché è un quadro completo di riferimenti culturali e politici della storia italiana più recente. Ma è anche un attacco frontale senza mezzi termini alle responsabilità oggettive che hanno coinvolto la sinistra, di opposizione e di governo, comunque la si voglia considerare, nell'aggravamento di una sconfitta che risulta adesso molto complicato recuperare. Impossibile da recuperare? Qui la prospettiva è radicalmente realistica, se non pessimistica.

Meritevole di segnalazione poi è la bibliografia: una mappa di interpretazioni, letture filosofiche e non solo, della più recente storia culturale italiana e internazionale. Per chi volesse approfondire il tema del postmoderno ad esempio, qui c'è pressoché tutto, spesso anche commentato in nota a piè di pagina nel testo. Una sorta di guida allo studio. Ma veniamo al contenuto tematico. In sintesi.

 

1) Antipolitica. È il processo che abbiamo oggi sotto gli occhi di delegittimazione della democrazia, che in Italia è sostanzialmente sfociato nell'attuale exploit del Movimento 5 stelle. Ma non può essere fatto risalire solo a Berlusconi o relegato al populismo pentastellato. In realtà è un atteggiamento antico, tipico del sovversivismo delle classi dirigenti del capitalismo nostrano a provocare poi una sorta di emulazione dal basso . È almeno da una trentina di anni a questa parte che la democrazia moderna appare in via di esaurimento. Essa è il risultato di un processo storico antagonistico, che raggiunge un certo equilibrio quando i diversi interessi di gruppi sociali contrapposti riescono a mediarsi; essa deperisce invece quando i rapporti di forza sociali fra le classi sono eccessivamente squilibrati. La democrazia è dunque un fatto storico, legato al mondo del lavoro moderno, espressione di quel mondo e delle sue conquiste. Ebbene, oggi quel mondo appare sconfitto a seguito di una riscossa proprietaria a livello globale, che in Italia si è effettivamente realizzata almeno partire dagli anni Novanta. Da tutto questo processo scaturisce poi l'attuale renzismo, in quanto freno politico al neobonapartismo di stampo proprietario, ma realizzazione piena ed esplicita della politica postdemocratica, cioè di mera gestione del potere economico vigente, il potere delle classi proprietarie.

2) Democrazia integrale e paradosso democratico. Il sistema politico democratico pienamente moderno - sorto in Occidente dopo la seconda Guerra mondiale - non può essere ridotto solo ai suoi pur essenziali aspetti politici e formali. Viceversa, è da intendersi nel complesso gioco di fattori economico-sociali che permettono la partecipazione attiva e autonoma di tutti i gruppi sociali e di tutte le classi alla vita di un paese. Alla base di tale sistema democratico vi è una costellazione di compromessi fra le parti, raggiunti tramite conflitto sociale e in particolare con la lotta di classe . Il conflitto risulta dunque costitutivo dell'assetto democratico. In Italia la democrazia integrale esce dalla guerra di Liberazione. Una democrazia dunque che sorge per formalizzare e limitare il conflitto, senza il quale però essa stessa si esaurisce e declina. Potremmo allora dire, parafrasando un' espressione hegeliana, che la democrazia oggi in Italia (e in Occidente dove pure è sorta) non corrisponde più al suo concetto. Che fare? Ma soprattutto chi sarebbe in grado di fare?

3) Centrosinistra/sinistra/lotta di classe dei ricchi. La deriva renziana del Pd risale in verità a una sconfitta oggettiva di lunga data: la sconfitta della classe lavoratrice, che in Italia comincia a farsi sentire in modo netto e significativo nell'anno del referendum sulla scala mobile promosso dal PCI nel 1985, quando Berlinguer è già morto e in disaccordo con la Cgil di Lama. Il conseguente ripristino dell'ordine borghese si configura poi negli anni Novanta: con gli accordi sul costo del lavoro e sulla concertazione ('92-'93), con la riforma delle pensioni di Dini, con l'adesione ai vincoli di Maastricht, col pacchetto Treu, con gli interventi militari a fianco degli USA (Jugoslavia), e poi con l'accelerazione berlusconiana. Quali le responsabilità della sinistra? Semplice e quanto mai chiaro. Sulla stessa direttrice che potremmo definire di "guerra al lavoro" si collocano i governi di centrosinistra. Essi non hanno mai rappresentato un'inversione di tendenza. D'altra parte, con Renzi il velo d'ipocrisia viene meno: la sinistra finalmente esercita un governatorato che persegue apertamente gli obiettivi storici della destra (Jobs act, Buona scuola e via dicendo). La lotta di classe non scompare mai. Ora però la forza propulsiva è affidata alla classe proprietaria. Le classi subalterne soccombono. Anche per responsabilità di quel soggetto politico che in Italia - trasformatosi e trasfiguratosi per ragioni anche oggettive - si chiamava PCI.

DULCIS IN FUNDO 4) Postmodernismo/Ermeneutica/Realismo La genesi del postmodernismo va fatta risalire quantomeno a Nietzsche, ma storicamente come fatto culturale ampio si consolida dalla fine degli anni Sessanta in poi come addio al moderno e rinunzia al discorso storico, ovvero come tendenza estetica che si allarga poi alla filosofia e alle scienze umane. Si potrebbe parlare di riscossa dell'individualismo, di critica al moderno in risposta alla catastrofe del Novecento. Ancora: come critica radicale al progetto di emancipazione umana universale promossa - anche contraddittoriamente - dall'età e dalla cultura moderna. Una critica al concetto di uomo, alla democrazia, al suffragio universale, alla storia, alla realtà... "La storia la realtà non è che una collezione di accadimenti e nessuno può stabilire che uno sia più importante o decisivo dell'altro. [...]. La paradossale vicenda della pubblicazione [...] di un grossolano falso storiografico presentato programmaticamente ai lettori come i Diari di Mussolini (veri o presunti) (sic!) - e il dibattito surreale che è proseguito [...] è un esempio particolarmente raccapricciante di questo approccio postmoderno alla storia." (pp. 157-158). Più in generale, abbiamo un atteggiamento antiprogressista che affonda le sue radici in autori di grande spessore e rilievo teoretico, quali per esempio lo stesso Walter Benjamin. In Deleuze abbiamo in proposito un atteggiamento decisamente antidialettico, laddove dialettica viene interpretata come il motore della storia. Senza poi citare nomi imprescindibili quali Lyotard e poi Foucault, che contesta "l'economicismo nella teoria del potere", ovvero la visione marxiana del potere, considerandola come una critica falsa e addirittura complice della prassi capitalistico-borghese. A fronte di tutto questo percorso teorico, non certo semplice da ricostruire - ma qui Azzarà ci riesce bene - l'autore si domanda se tutto sommato il postmodernismo, pur muovendo dalle migliori intenzioni, nel tentativo di salvare la libertà individuale, non finisca per ottenere l'esito esattamente opposto. È la dialettica del rovesciamento di Adorno-Horkheimer a cui non sembra sfuggire nemmeno il postmodernismo. Il problema però è che la coppia francofortese non intendeva certo oltrepassare l'illuminismo, cosa che al contrario sembra voler fare il postmodernismo, incappando quest'ultimo nella insostenibilità di una negazione astratta del moderno. Come se il moderno fosse un monolite. Al contrario, seguendo qui opportunamente Habermas, la crisi della libertà individuale nel corso del Novecento non è dovuta affatto alla carica universalistica della modernità, ma semmai alla sua distorsione. Una distorsione di cui il postmodernismo è parte in causa. D'altra parte, il postmodernismo non nasce nel cielo delle idee, ma sorge a partire da una metamorfosi dei rapporti di produzione. Esso è il pendant ideologico che ha accompagnato il ciclo neoliberale iniziato a metà degli anni Settanta con la "utopia antipolitica" costituendo la "dominante culturale" o il riflesso della quarta rivoluzione industriale (F. Jameson). La mossa a cui soggiace o di cui è complice il postmodernismo è quella legata anche ai suoi aspetti radicalmente ermeneutici con i quali viene distrutto il concetto di verità e altresì dissolta la realtà, in modo tale che se quest'ultima non può essere conosciuta nei suoi fondamenti, tanto meno potrà essere modificata. "Siamo difronte come si vede a un rovesciamento completo e consapevole della tesi di Marx su Feuerbach e a una rivendicazione orgogliosa dell'atteggiamento ludico-contemplativo-regressivo." (p. 210). Aveva perciò già visto bene Guy Debord.

In tutto ciò si inserisce il dibattito assai polemico intercorso negli ultimissimi anni in Italia fra nuovorealisti (ex-ermeneutici) ed ermeneutici duri e puri, insomma fra il nuovo realismo di Ferraris e il 'nuovo' - anche lui - Vattimo. Ammette Azzarà che non è facile prendere posizione su una questione che non va ridotta a polemica giornalistica, ma rischia "di avere a che fare con la vicenda della padella e della brace", se non si riesce a guardarla dal di fuori, ovvero con occhio decisamente politico e non solo filosofico. Se secondo l'autore non possono esserci dubbi - alla luce della rassegna ricostruttiva che egli ci offre in questo testo - sul carattere regressivo del postmodernismo in tutte le sue varianti e declinazioni, tuttavia non si può essere così sicuri, come ritiene invece Ferraris, che si sia esaurita l'onda lunga e con essa gli stessi presupposti su cui quella stagione culturale poggia. Inoltre, afferma Azzarà, la critica dell'ermeneutica non garantisce di per sé nessun mutamento progressivo. Può garantire il ripristino di condizioni epistemologiche minime su cui condurre una lotta, che però si gioca su di un altro piano di realtà. Una lotta "contro quel neoliberalismo che la sinistra ha finito per introiettare e che abbiamo visto essere il vero presupposto del postmodernismo." Non è possibile dunque comprendere questa corrente ed eventualmente combatterla, senza ricondurla alle istanze politiche e sociali che la innervano. "Il problema del nesso realtà-verità-interpretazione-emancipazione rimane [nonostante Ferraris] del tutto aperto." Un' apertura, quest'ultima, che si prospetta assai dialettica. Concludo accennando solamente a una nota di merito e a una di critica al testo di Azzarà, dal mio punto di vista ostinatamente hegeliano. Da una parte è veramente salutare che l'andamento di tutta l'argomentazione e ricostruzione storico-filosofica di Azzarà non faccia riferimento alcuno - e lo ringrazio davvero per la lucidità - alla retorica dell'europeismo/antieuropeismo. A mio avviso infatti, e così mi sembra di capire anche per l'Autore, l'Europa è un nodo geopolitico da collocare in un contesto assai più ampio e complesso: lo scacchiere internazionale del mondo, per utilizzare un'espressione che ricorre significativamente e con accenti diversi in Kant, a seguire in Hegel e certo in Marx. Dai quali classici del pensiero politico moderno, avremmo da imparare o reimparare un certo modo di interpretare i fenomeni storico-politici attuali. Almeno un certo modo di esprimerci su quei fatti. Più che moderni costoro appaiono nostri contemporanei. E mi sembra che Azzarà ci suggerisca proprio questa linea interpretativa. D'altra parte, ciò che resta fuori dalla sua prospettiva è quella sorta di illusione necessaria (declinata come si vuole: utopia, speranza, dover essere, ecc.) che anche un grigio realista come Hegel non spregiava, quando la questione riguardava il da farsi, la prassi, l'azione, che certo è sempre oracolare (il futuro riposa sulle ginocchia di Giove, l'astuzia della ragione, l'oscuro tessere dello spirito). Insomma, seppure illusione, essa è necessaria. Non sarà certo casuale che Hegel affidi proprio all'uomo d'azione il compimento dello spirito assoluto, una condizione di pieno riconoscimento sul piano della cultura e l'avvento di una realtà pienamente moderna sul piano geopolitico. Beninteso una condizione che non chiude la storia, cioè la possibilità del conflitto, come malamente si è voluto interpretare fino a non molto tempo fa. Il problema non da poco semmai è quello di capire, individuare e lumeggiare quale soggetto quali soggetti qui ed ora possano rappresentare questa ineliminabile funzione operativa del corso storico moderno. A meno che non si ritenga che al momento non vi sia nessun soggetto disponibile a prefigurare il domani. Ma ricadremmo nel nichilismo.

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