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Sulla Palestina e la guerra sono altri i circoli viziosi da rompere

di Sergio Cararo *

Una replica all’articolo di Guido Caldiron [riportato in fondo] su Liberazione del 6 giugno

   Intendo esprimere apertamente dissenso sull’articolo di Guido Caldiron pubblicato su Liberazione di Domenica 6 giugno. Le tesi espresse nell’articolo non sono nuove e rischiano di riprodurre dentro il movimento di solidarietà con la Palestina e il movimento No War lacerazioni e polemiche già vissute e - come era facilmente prevedibile – hanno trovato immediata sponda in Pigi Battista sul Corriere della Sera di oggi. Proverò a esprimere schematicamente e per punti i fattori di dissenso e i contributi per il confronto che viene invocato a fine articolo:

    1) Le piazze svuotate dei pacifisti per timore che il "linguaggio di guerra copra le manifestazioni" non è certo un problema relativo alle manifestazioni per la Palestina. Al contrario, l’ultima manifestazione nazionale del 17 gennaio 2009 contro l’Operazione Piombo Fuso a Gaza, ha visto una partecipazione enorme, ed anche le manifestazioni di questi giorni nelle varie città hanno visto una mobilitazione tempestiva e numerosa che richiedevano l’immediata liberazione degli attivisti della Freedom Flottilla sequestrati dalle truppe israeliane e la condanna per l’ennesima “operazione di sicurezza” israeliana. Il problema semmai è la diventata la scarsa disponibilità/fiducia del popolo No War a scendere in piazza avendo come rappresentazione politica chi vota poi in Parlamento per il proseguimento della guerra in Afghanistan. I partiti della sinistra hanno pagato un prezzo politico pesantissimo su questo. Anche recentemente due diverse manifestazioni sotto il Parlamento (il 19 marzo e due settimane fa) hanno visto una presenza ridottissima di attivisti e attiviste. La rottura avvenuta nel luglio 2006 (assemblea al centro congresso Frentani) e il 9 giugno 2007 (manifestazioni separate contro la visita di Bush) non dà ancora segni di volersi ricomporre nonostante la Federazione della Sinistra abbia riconosciuto l’errore e si sia riposizionata positivamente.
    2) Anche sulla Palestina il PRC pre-Chianciano si è giocato grandissima parte della connessione sentimentale con il suo popolo. L’equidistanza tra le ragioni dei palestinesi e quelle degli israeliani e la subalternità verso i diktat della lobby bipartisan filo-israeliana, non corrispondevano in alcun modo all’esigenza del “popolo della sinistra” di sostenere apertamente la resistenza palestinese e ciò negli anni scorsi ha provocato rotture profonde. Le tesi esposte nell’articolo di Caldiron tentano un ritorno al passato da cui è bene guardarsi (visti i risultati). Al contrario le indicazioni del segretario e del responsabile esteri del PRC a sostegno alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni verso Israele indicano un atteso passo in avanti.

    3) Gli immigrati ormai sono fra noi. Sono tanti e molti sono islamici. Il fatto che nella solidarietà con la Palestina abbiano trovato uno spazio di protagonismo politico che va oltre la propria condizione materiale (permesso di soggiorno, sanatorie etc.) dovrebbe rallegrare e non preoccupare le forze della sinistra. Il problema semmai è che per costruire un rapporto chiaro nei contenuti e leale nel confronto, la sinistra e i comunisti dovrebbero recuperare una identità politica forte da mettere a confronto con altre identità politiche forti, e definire così senza ambiguità i punti di convergenza e quelli di dissenso. La liberazione dalla logica dell’eurocentrismo appare però un passaggio obbligato per ogni ragionamento sulla costruzione di una visione internazionalista nel XXI° Secolo e in un mondo in cui le soggettività che agiscono nel campo degli oppressi sono assai diverse da quelle tradizionali a cui siamo abituati in Europa (dall’indigenismo in America Latina all’islam politico in Medio Oriente).
    La presenza di immigrati e di comunità islamiche nelle nostre manifestazioni sulla Palestina è un indicatore di questa realtà e non può che essere volto al positivo, esattamente come la partecipazione delle reti di ebrei antisionisti o delle comunità cristiane di base. Spetta alla sinistra – se ne vuole essere capace – svolgere quella funzione di sintesi, autorevolezza ed egemonia che consenta a ognuno di manifestare in un ambito che definisce bene i propri contenuti.

    4) Infine dobbiamo fare i conti con quella che un editore ebreo e di sinistra ha definito con acutezza la “genialità del male”. Una volta assunto quello nazista come l’orrore assoluto, è accettabile che tutto ciò che di orribile avviene nel mondo su una scala diversa sia sempre e comunque incomparabile? E’ ovvio che in molte manifestazioni e nella vita quotidiana la simbologia nazista o l’epiteto di fascista siano utilizzate per definire l’orrore o il disappunto per quello che di orribile si ha oggi davanti agli occhi. Scandalizzarsene diventa francamente incomprensibile.

    La paura delle parole è stato uno dei “demoni” che ha divorato dall’interno la sinistra italiana negli ultimi venti anni (abbiamo ancora davanti agli occhi il linciaggio politico nel 2007 – anche a sinistra - dello scomparso Sanguineti). Questa paura ha impedito la discussione, l’elaborazione, la ricostruzione di un intellettuale collettivo di cui si sente estremo bisogno. A giorni ad esempio uscirà un libro con gli atti di un recente convegno (“Dieci domande sul sionismo”) che rappresenta il primo tentativo di analisi collettiva marxista di un progetto coloniale che per essere compreso in tutti i suoi aspetti va decostruito senza paura di misurarsi con la realtà. Il dibattito che accompagnerà la sua presentazione in tutta Italia sarà un occasione di confronto utilissima.

   Se vogliamo cominciare a discuterne seriamente e lealmente, anche nella Federazione della Sinistra potrebbero esserci tutte le condizioni per farlo, tranne una però: quella di rifare un passo all’indietro (che ha portato la sinistra alla crisi attuale) come ci chiede l’articolo di Caldiron su Liberazione.

* Rete dei Comunisti e co-fondatore del Forum Palestina

 

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Circolo vizioso di integralismi

Il pacifismo può romperlo

Guido Caldiron

Quanto è accaduto nei giorni scorsi su una delle navi internazionali che cercavano di forzare il blocco imposto da Israele alla popolazione di Gaza è orrore allo stato puro, indegno di una democrazia, sebbene sottoposta a una deriva militarista e guidata da forze politiche di estrema destra. Non ci sono parole sufficienti per segnalare la gravità di quelle morti, né per ribadire come l'embargo a Gaza colpisca in realtà quel milione e mezzo di cittadini palestinesi che vivono tra mille stenti nella Striscia e non il movimento fondamentalista di Hamas, come si sostiene da parte israeliana per mantenerlo. Ma l'ulteriore e grave peggioramento della situazione in Medio Oriente non ci può impedire di riflettere su cosa stia avvenendo da tempo in Europa e in particolare nel nostro paese.

Chi abbia partecipato negli ultimi anni a una qualunque manifestazione a sostegno dei diritti dei palestinesi si sarà facilmente reso conto di come le "piazze della pace" siano cambiate lasciando troppo spesso spazio a tante, pericolose, voci di guerra. Che nelle mobilitazioni per la Palestina sia ormai più facile sentir pronunciare "Allahu Akbar" che non parole, magari dure, ma che parlano di "politica", è sotto gli occhi di tutti. Che figure che poco hanno a che fare con la storia della sinistra e delle forze democratiche - come chi sostiene il "diritto alla ricerca storica" dei negazionisti alla Faurisson o firma interventi sui siti antisemiti - possano essere considerate parte del "popolo della pace", è storia di questi giorni. Che la stella di David possa essere accumunata alla svastica per denunciare la deriva di Israele appartiene allo stesso repertorio, più volte esibito nelle nostre città.

Si tratta di fenomeni o figure isolate, di eccezioni che confermano la regola di una situazione altrimenti sotto controllo? Potrebbe darsi, se non si fosse contemporaneamente assistito ad un altro fenomeno, anch'esso evidente a tutti. Quelle piazze che si andavano riempiendo di slogan truculenti e di mortifere invocazioni religiose - come altro definire l'elogio del martirio, raccontato venerdì da "Liberazione"? -, si sono infatti progressivamente" vuotate dei pacifisti. Il popolo della pace non esiste più? O più semplicemente in tante e in tanti si sono stufati, spaventati, irritati di veder trasformare le loro battaglie in difesa dei diritti, per la libertà e contro la guerra - in Palestina, ma non soltanto lì - in una sorta di tragico scimmiottamento del conflitto, della sua lingua, dei suoi simboli?

Il punto dell'intera faccenda, crediamo, stia lì: vale a dire nell'aver progressivamente importato, insieme alla denuncia dei suoi esiti, in particolare sulle popolazioni civili, l'idea stessa della guerra. Mettendo in scena nelle nostre città, noi che siamo qui al caldo, ben protetti dai colpi e dalle conseguenze dirette di un conflitto armato, di un'occupazione militare o di un embargo, una nostra piccola guerra simbolica, tanto più feroce e brutale perché inutile, fatta solo per affermare noi stessi - quante battaglie politiche per l'"egemonia" nella cosiddetta estrema sinistra si sono combattute in questi anni sulla pelle della causa palestinese?

Il problema è che la guerra è la condizione che già caratterizza "le relazioni", se così si può dire, tra israeliani e palestinesi. Il compito di chi sostiene le ragioni degli uni o degli altri, non può perciò essere quello di fare da grancassa al vocabolario dell'odio, della violenza o della stessa guerra. Tanto per essere chiari non è solo sbagliato, è anche inutile. Non aiuta a costruire dialogo, confronto, a far mettere gli avversari intorno a un tavolo anche solo per potersi parlare. E questo è un problema che investe anche l'altro fronte di questa contrapposizione, vista la deriva "comunitarista" che attraversa ampi settori delle comunità ebraiche europee messe sempre più in crisi nella loro identità e nella loro articolazione dallo schiacciamento su Israele "senza se e senza ma", schiacciamento che ha prodotto anche l'abbraccio contro natura con le nuove destre, già antisemite e razziste e oggi proisraeliane come indica la parabola dell'Msi-An-Pdl.

Ciò a cui si assiste da ormai troppo tempo è invece la replica senza fine dell'immaginario della guerra e delle sue parole d'ordine. Solo per fare un esempio negli ultimi giorni, a Roma, giovani pro-Israele e giovani pro-Palestina si sono accusati reciprocamente di "antisemitismo" e di "fascismo" dimenticando come nella memoria comune della sinistra e della comunità ebraica più antica d'Europa dovrebbero esserci allo stesso modo il 25 aprile, la liberazione dal nazifascismo, e il 16 ottobre, la deportazione degli ebrei romani verso i campi della morte.

Certo la drammaticità della situazione mediorientale non aiuta. L'ascesa della destra radicale e delle forze religiose in Israele sta cambiando le carte in tavola, finendo per mettere a confronto molto spesso "due destre", come altro definire del resto Hamas e i suoi alleati nella regione? Ma è proprio l'incancrenirsi della realtà sul terreno che chiede a noi uno scarto ulteriore. Rimandare ancora una riflessione su quanto è avvenuto in questi anni, sulla crisi del pacifismo e sulla contemporanea deriva di parte del "movimento di solidarietà con la Palestina" non potrà certo aiutare a rendere più incisive e efficaci campagne e mobilitazioni.
Aprire un confronto su questi temi, può essere il primo passo.

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