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neronot

Padri, figlie e fratelli (d’Italia)

Note sull’autobiografia di Giorgia Meloni

di Franco «Bifo» Berardi

meloni copertina 4Questo libro mi ha rovinato l’estate. Forse l’estate si era già rovinata da sé, tra caldo intollerabile per settimane, l’angoscia dell’aeroporto di Kabul, lo stillicidio di dati sul COVID19 che non passa, e la scoperta che le due dosi di AstraZeneca che avrebbero dovuto darmi una certa tranquillità non rassicurano affatto, e infatti l’Occidente ricco si sta procurando la terza, la quarta e la quinta dose mentre nel Sud del mondo i vaccinati sono l’1 o il 2 per cento. Ma questo libro ha dato il colpo di grazia alla mia estate perché leggendolo mi rendevo conto che nel futuro prossimo del paese c’è, sicuro come le piogge d’autunno (ma ci saranno ancora le piogge il prossimo autunno?), un ritorno del fascismo.

Fascismo in verità non è la parola giusta. Si usa questa parola per definire una tradizione che discende dall’umiliazione per la vittoria mutilata e dalla truculenza di Benito Mussolini, dalle squadre che andavano a picchiare i braccianti in sciopero, dall’assassinio di Matteotti e di migliaia di sindacalisti e intellettuali tra il 1919 e il 1945. Poi continua attraverso la repubblica sociale, il Movimento sociale di Almirante, l’Alleanza nazionale di Gianfranco Fini eccetera. Il fascismo novecentesco fu un fenomeno barocco, meridionale, padronale e giovanile: violenza, spettacolo, vittimismo e baldanzosa aggressività di colonialisti alla conquista delle terre africane. Siamo ancora lì oppure qualcosa è mutato in modo radicale?

Cerchiamo di capirlo leggendo questo libro che si chiama Io sono Giorgia.

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ilpungolorosso

Contro l’islamofobia, arma di guerra – I. L’industria dell’islamofobia

di Il Pungolo Rosso

tinisiaLa macchina dell’islamofobia ha riacceso i motori.

Dopo la bruciante sconfitta patita in Afghanistan dagli Stati Uniti e dalla Nato, era scontato. E il ventesimo anniversario dell’11 settembre è l’occasione d’oro per una ripartenza alla grande, chiamata a nutrire i propositi di rivincita.

A reti unificate tv, giornali e social presentano i talebani e gli attentatori suicidi dell’11 settembre come il prototipo di tutti gli “islamici”. E attraverso questa mossa propagandistica le popolazioni dei paesi a tradizione islamica vengono additate nella loro totalità come i nostri irriducibili nemici – a meno che non prendano apertamente posizione a favore dei “nostri valori” (di borsa), e pieghino la schiena davanti alla pretesa occidentale di dominare e spogliare il mondo “islamico” per diritto divino. Il “diritto” acquisito con il colonialismo storico.

L’islamofobia è un’arma di guerra: verso l’esterno, e all’interno delle “nostre” società. E per tale va denunciata e combattuta.

Un’arma per legittimare la guerra infinita che la gang degli stati imperialisti occidentali, l’Italia intruppata in essi, ha scatenato (da secoli) contro il mondo arabo e islamico per finalità che nulla hanno a che vedere con la civiltà, la democrazia, la libertà delle donne, e che non finirà certo con l’ingloriosa cacciata dall’Afghanistan. In questa guerra i poteri coloniali sono sempre riusciti – accade ora più che mai – a trovare collaborazione nelle classi proprietarie e negli strati privilegiati dei paesi arabi e islamici per torchiare a sangue, con il loro aiuto, i malcapitati contadini, minatori, braccianti, operai, diseredati, senza il minimo riguardo per la loro esistenza, tanto più se donne. E, in caso di loro ribellioni, sollevazioni o tentativi rivoluzionari, per usare il pugno di ferro per schiacciarli, o l’accerchiamento per soffocarli.

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ilrovescio

Tesi sul Covid-1984

di Il Rovescio

366107Pubblichiamo queste Tesi, uscite sul numero 13 (luglio 2021) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Ci sembrano un’utile cornice teorica, uno sfondo meno immediato in cui collocare i posizionamenti rispetto all’Emergenza, ai vaccini dell’ingegneria genetica, alla tecno-scienza, al “complottismo”, al lasciapassare sanitario e al mondo della costrizione digitale. Se c’è qualcosa che l’attuale guerra ai cervelli (e ai corpi) sta determinando, è senz’altro la condizione in cui ciascuno si trova di dover pensare da sé senza schemi ereditati e rassicuranti. Che padroni e tecnocrati, per restare all’Italia, abbiano schierato il “migliore” – il Banchiere, il Contabile, il Tecnico di sua Maestà il Capitale, la cui mimica e i cui toni privi di ogni passione somigliano alla Macchina che è chiamato a far funzionare; che i loro valletti più chiacchieroni auspichino fin da ora il ritorno di Bava Beccaris a mitragliare le piazze dei renitenti al verbo scientista, dipinte (troppa grazia) come sovversive, testimonia sia del carattere di ultimatum dei provvedimenti in corso, sia di una certa coscienza storica e prospettica dal lato del dominio. Raramente nella storia, invece, si è assistito a uno scarto paragonabile a quello attuale tra la qualità della posta in gioco e la qualità di chi è disposto a battersi dal lato dell’umano. Il piano inclinato sui ci troviamo è dato dall’intreccio tra il processo di atomizzazione sociale seguìto alla sconfitta dei precedenti cicli di lotta e l’impatto senza precedenti della dismisura tecno-industriale (il cui obiettivo è «rinchiudere l’umanità nella sua prigione tecnologica e gettare via la chiave»). Non c’è alcun “soggetto storico” a cui fare affidamento per risalire la china. Solo degli scossoni sociali possono setacciare, in mezzo alla sabbia che si accumula e confonde gli sguardi, le «perle rilucenti di sale».

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cumpanis

Cina: la Nep è finita?

di Leonardo Masella

foto terzo pezzo sez. Ue Asia Eurasia MasellaDi recente è apparsa sui nostri giornali la notizia che la Cina sta rinazionalizzando le aziende che erano state privatizzate con le riforme di Deng. E’ stata l’occasione per i liberisti di casa nostra per esprimere la loro preoccupazione e per alcuni comunisti (sempre di casa nostra) per esultare per la “fine della Nep”. Hanno ragione i liberisti a preoccuparsi, hanno torto i compagni ad esultare.

Hanno ragione i liberisti a preoccuparsi, insieme a tutti coloro che hanno sempre sostenuto che le riforme economiche denghiste avrebbero portato la Cina al capitalismo. Questa notizia mi conferma infatti nell’idea che in Cina lo Stato e quindi il partito comunista non hanno mai perso il controllo dell’economia, cosa che avvenne peraltro anche per la Nep di Lenin, diversamente dalle grandi privatizzazioni russe di Eltsin. E ciò è avvenuto anche quando con le riforme economiche denghiste il governo cinese lasciò creare alcuni colossi privati.

D’altra parte sbagliano ad esultare certi comunisti un po’ dogmatici che hanno sempre mal sopportato le riforme denghiste e hanno sempre sperato in un ritorno indietro verso uno statalismo pressochè integrale come c’era prima della fine dell’Urss, anzi causa principale della stagnazione economica e della insoddisfazione popolare che è stata la ragione principale del crollo economico-politico dell’Urss.

In Cina, dalle notizie che per il momento apprendiamo dalla stampa occidentale, non stanno per niente superando la Nep o l’economia di mercato (che è sempre stata controllata e diretta dallo Stato), ma stanno contrastando e superando lo strapotere che stavano assumendo alcuni colossi privati.

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lacausadellecose

La dura lezione dell’Afghanistan

di Michele Castaldo

136346Faccio una premessa: scrivo per chi è disposto a capire, ben sapendo che la stragrande maggioranza non vuol capire come chi vuole credere in dio. E non mi preoccupo più di tanto perché i fatti si stanno incaricando di imporre certe verità impensabili fino al giorno prima. Ciò detto, sono costretto a fare una seconda premessa, riportando quello che diceva Winston Churchill, cioè che la guerra è innanzitutto una guerra di bugie, se proprio bisogna dire una verità è necessario immergerla in una selva di bugie. Col risultato di sfocarla a tal punto da renderla innocua e perciò incredibile.

Se oltre a certe immagini, come quelle di migliaia di persone che fuggono verso l’aeroporto di Kabul, assaltano l’aereo per sfuggire alla furia dei talebani, volano parole grosse come « Catastrofe », « Disfatta », « La fine peggiore », « I lupi sono entrati nelle città », « Si salvi chi può », « Una macchia sulla storia dell’Occidente », oppure « abbiamo sbagliato tutto », « Fuga da Kabul », e così via, vuol dire che

la batosta è seria, e come tale è avvertita anche, ma forse soprattutto, perché gli effetti non sono quelli immediati, ma quelli successivi, ovvero quel che si metterà in moto con la cacciata ingloriosa degli occidentali dopo venti anni di vergognosa e criminale aggressione.

Gli imperialisti sono sorpresi per l’azione repentina dei talebani che in pochi giorni sono arrivati a Kabul. Ma la rivoluzione sorprende sempre, financo i rivoluzionari, figurarsi chi si augurava una uscita meno ingloriosa e un patteggiamento con i probabili nuovi governanti di quel paese.

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linterferenza

“ECITY. Antropologia della Tecnica”. Una introduzione a “NOCITY” di Antonio Martone

di Gerardo Lisco

freeskipper.Ecity Nocity“NOCITY. Paura e democrazia nell’età globale” edito da Castelvecchi, il nuovo lavoro di Antonio Martone, docente di filosofia politica presso l’Università di Salerno, merita di essere introdotto dalla lettura del suo precedente saggio e cioè “ECITY. Antropologia della tecnica”.

I due volumi sono inscindibili ed è per questa ragione che la mia riflessione prende le mosse dal primo volume. “ECITY. Antropologia della Tecnica” è una riflessione filosofico – antropologica sul mondo connesso nel quale l’individuo, privo di identità e di senso di appartenenza, sempre più ridotto a nodo della rete di comunicazione, vive un’esistenza fluida e perciò di apparente libertà. L’ ECITY non è altro che la descrizione del nuovo totalitarismo dominato dall’economia neoliberale, ossia il liberalismo fondato sul diritto proprietario, in combinato disposto con il post moderno che, avendo abbattuto i confini tra le ideologie e privato di senso i termini destra e sinistra, ha creato il vuoto occupato appunto da questa non – ideologia, segnando la morte stessa della Storia.

Il saggio di Martone, analizza in prospettiva storica la genesi dello Stato moderno partendo dal Leviatano di Hobbes per soffermarsi sull’analisi, anticipatrice della crisi della Democrazia, condotta da Tocqueville in “ La Democrazia in America”[1]. Come scrive Martone nel suo saggio analizzando <<le radici del moderno>> se lo Stato moderno, sul piano teorico, nasce con Hobbes[2] e sull’idea del contratto sociale, ossia sulla cessione di parte della sovranità individuale a favore del potere assoluto dello Stato; sul piano politico ne sanciscono la nascita i Trattati di Pace di Osnabruk e Munster alla fine della Guerra dei Trent’anni.

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ilrovescio

Sulla mobilitazione contro il lasciapassare. Primi appunti

di Il Rovescio

ef784È piuttosto evidente che la questione di cosa dire e fare contro il “green pass”, di come rapportarsi con la gente che sta scendendo in strada contro questa misura di discriminazione, di controllo e di ricatto, non è separabile da cosa si pensa – e da cosa si è fatto a proposito – dell’Emergenza Covid-19 in generale. Le vere e proprie perle di allineamento servile e di imbecillità che si stanno regalando a sinistra e all’estrema sinistra non arrivano inaspettate. Così come solo coloro che non si sono accorti che un mondo gli è passato a fianco si chiedono improvvisamente chi è, da dove esce e che cosa vuole tutta questa gente. Si strilla alle “piazze reazionarie” senza nemmeno un minimo di imbarazzo nel trovarsi nello stesso coro di banchieri, industriali, generali della Nato, giornalisti di regime, ministri degli Interni, scienziati di Sua Maestà… Il pericolo del “fascismo” (tranquilli: la democrazia basta e avanza), non lo si vede nell’azione dello Stato e di una classe dominante che colpisce compatta, ma nelle presenze di estrema destra ad alcune manifestazioni contro il lasciapassare. Come se i passi avanti della potenza coercitiva dello Stato in nome della “salute collettiva” fossero “neutri” rispetto al conflitto di classe nel suo insieme; come se il silenzio-assenso sulla discriminazione sociale e lavorativa di chi non vuole vaccinarsi non oliasse la stessa macchina che attacca i lavoratori che resistono ai licenziamenti, i rivoluzionari, e tutte le lotte.

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lantidiplomatico

Sulla lettera aperta di Cacciari e Agamben

di Andrea Zhok

720x410c50La lettera aperta congiunta di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul Green Pass (vedi testo nei commenti) ha ricevuto, come prevedibile, un’accoglienza esplosiva. Uno dopo l’altro si sono attivate sulla stampa una serie di firme, più o meno note, per spiegare:

che “le discriminazioni sono ben altre” (Di Cesare, Repubblica),

che “la vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?” (D’Alessandro, Huffingtonpost),

che “il green pass è come la patente o il porto d’armi, che nessuno contesta” (Flores D’Arcais, MicroMega),

che “Cacciari e Agamben non hanno le competenze, lascino fare a chi le ha” (Gramellini, Corriere), ecc. ecc.

Ora, personalmente non credo di essere stato una volta in vita mia d’accordo con Agamben, e dunque ero restio finanche a leggere la lettera, però a fronte di tale qualificata batteria di fucilieri non ho potuto esimermi.

Ciò che ho trovato, e che nel mio piccolo voglio brevemente commentare, è un testo con molti difetti, ma certamente non liquidabile con gli argomenti che ho visto in giro.

Il testo, comparso sul sito dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, presenta un’argomentazione molto breve, con un difetto strutturale: essa parte come un argomento “di principio” e “di valore simbolico” circa la minaccia alla vita democratica, prosegue con considerazioni di ordine pragmatico sullo stato della sicurezza dei vaccini e sulla mancanza di una prospettiva (“Dovremo dunque stare col pass fino a quando?), e chiude di nuovo su note di principio.

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manifesto

«Che Fare?»

Roberto Ciccarelli intervista Mario Tronti

Il colloquio. Intervista sul comunismo possibile al filosofo e uomo politico in occasione dei suoi novant’anni. Sette tesi, più una senza numero, per le nostre e le future generazioni: «Basta demonizzare il Novecento, recuperare la memoria delle lotte, organizzare i conflitti». Autoritratto di una vita ispirata al principio: «Pensare estremo, agire accorto»

ulisse nelladeLa rivoluzione è in esilio ma cerca il chiarore del giorno nella sua notte insonne. Mercoledì scorso 21 luglio Mario Tronti ha compiuto novant’anni e coltiva la tensione politica che ha attraversato la vita di uno dei più grandi filosofi politici contemporanei. Un lavoro instancabile. In autunno pubblicherà altri due libri.

* * * *

Rossana Rossanda ha scritto «La ragazza del secolo scorso». Nella sua autobiografia Pietro Ingrao ha scritto «Volevo la luna». Cosa pensa Mario Tronti a 90 anni?

A tutto fuorché a scrivere un libro autobiografico. Sono allergico a questa forma letteraria. Ne ho lette molte di autobiografie e alcune mi hanno anche appassionato, come quelle che tu citi. Ma, tra l’altro, Rossana e Pietro erano personalità pubbliche molto note e riconosciute, erano state protagoniste di eventi, avevano molto da ricordare e da raccontare. Io sono una personalità pubblica ignota, non avrei da trasmettere alcun ricordo che interessi, tutt’al più qualche titolo di rivista o di giornale, e un solo libro giovanile di successo, che ha avuto, per fare un paragone azzardato, lo stesso destino del Salinger de Il giovane Holden: poi sei quello e nient’altro.

 

Operai e Capitale

Sì. Raccomando sempre: non scrivere un libro di successo da giovani, perché si rimane per sempre imprigionati in una sola casella.

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paginauno

Contro il politically correct

di Giovanna Cracco

La morale, il linguaggio, il pensiero associativo e la pratica denotativa; fintamente emancipativo e mai antisistemico, perché il politicamente corretto ci immobilizza socialmente divenendo regressivo

michael dziedzic B1RsVgAoODU unsplashPolitical correctness. Tanto se n’è scritto negli ultimi anni, in termini positivi e negativi. Nato nell’ambiente liberal statunitense dei cultural studies alla fine degli anni ‘80, si è poi diffuso in tutto il mondo occidentale. Tuttora mantiene nella sfera culturale e politica di sinistra una posizione di sostegno – anche se voci critiche iniziano a emergere – mentre a destra è spesso contestato. Per quanto le dinamiche della sua evoluzione già si trovassero nell’iniziale impostazione del pensiero, è difficile immaginare che alla nascita fosse possibile prevedere le caratteristiche conformistiche e repressive che ha raggiunto oggi. Jonathan Friedman inizia a scriverne, in termini di appunti per un ipotetico libro, nel 1997; continua a ragionarci nei primi anni Duemila, e lascia gli scritti nel cassetto; riprende più volte il manoscritto, aggiornandolo, e infine lo pubblica nel 2017. In Italia esce nel 2018, per i tipi di Meltemi, con il titolo “Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime”. Il testo è interessante perché Friedman è un antropologo, e la sua riflessione si interroga sulla natura strutturale del politicamente corretto come forma di comunicazione e sul contesto che ne consente l’emersione fino a farlo divenire una pratica dominante. “Criticato e discusso in una serie di pubblicazioni, [il politicamente corretto] ancora non è stato analizzato dal punto di vista antropologico” scrive Friedman nell’introduzione; per concludere:

“Questo non è un libro sui pro e i contro di una forma specifica di politicamente corretto […] è piuttosto una critica generale di tutte le forme di politicamente corretto come mezzo di soppressione del dibattito”.

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contropiano2

Cuba: considerazioni critiche, costruttive, fuori dagli stereotipi

di Angelo Baracca

L’attacco contro Cuba ha sollevato, oltre che la resistenza di quel popolo e la solidarietà internazionalista, anche riflessioni di ogni genere. Amichevoli o ostili, critci solidali o distruttivi. E considerazioni spesso astratte sul “socialismo”, su cui torneremo ben volentieri. Qui, intanto, ospitiamo volentieri la riflessione di Angelo Baracca, scienziato e compagno da sempre

cuba critiche costruttiveCuba sta affrontando i momenti forse più drammatici dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ma con poche eccezioni i commenti che si leggono ricadono sotto un paio di stereotipi, pro o contro l’attuale governo: così non si va da nessuna parte, e tanto meno si aiutano il popolo e il governo cubani a superare in avanti l’impasse.

L’esperienza della Rivoluzione cubana è per noi un punto fermo dal quale non si può prescindere, ma a poco servono a mio parere le difese “d’ufficio”: è certo pregiudiziale denunciare con sempre più forza l’inumano bloqueo e le interferenze sempre più pesanti dell’imperialismo yankee, ma se vogliamo dare un contributo che non sia sterile, dobbiamo riflettere anche sul fronte delle insufficienze, magari degli errori, del governo cubano.

Non mi illudo certo di dare un contributo decisivo, ma di contribuire ad una riflessione al di là degli schemi contrapposti. Anche nel movimento – in particolare fra i giovani che spesso non hanno neanche assistito alla caduta del Muro di Berlino – molte cose non sono neanche conosciute.

Cerco di sviluppare un ragionamento di prospettiva generale e di respiro ampio.

 

Alle origini dell’imperialismo yankee

C’è un detto molto comune nei paesi dei Caraibi: “Povero (ad esempio Messico), così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!”

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jacobin

L’Economist e il mito del libero mercato

Grace Blakeley intervista Alexander Zevin

La storia del giornale liberista per eccellenza racconta il modo in cui il pensiero liberale si adatta ai diversi contesti. Ed evidenzia la sua eterna tensione con la democrazia

economist jacobin italia 1536x560Marx una volta definì l’Economist «la tribuna dell’aristocrazia della finanza». In qualità di rivista dominante del liberalismo d’élite, ha svolto un ruolo importante nel plasmare e promuovere l’ideologia liberale, attraverso i suoi cambiamenti e continuità, dalla sua fondazione nel 1843 ad oggi.

Alexander Zevin, assistente professore di storia alla City University di New York e redattore della New Left Review, ha recentemente pubblicato un nuovo libro, Liberalism at Large: The World According to the Economist, che approfondisce la storia del liberalismo attraverso la lente di osservazione dell’Economist.

In una puntata del podcast di Tribune, A World To Win, Grace Blakeley di Tribune ha discusso con Zevin della storia dell’ideologia liberale, se è in crisi e come evolverà dopo aver plasmato l’ordine mondiale.

* * * *

Che cos’è il liberalismo?

Il mio libro scarta alcune idee su cosa sia il liberalismo per arrivare a una definizione migliore. Mi riferisco alle analisi secondo cui il liberalismo inizia nel diciassettesimo secolo con John Locke e le sue idee e teorie politiche o con Adam Smith nel diciottesimo secolo con La ricchezza delle nazioni e cose del genere. Io sostengo che il liberalismo emerge davvero e deve essere compreso nel suo contesto storico nel periodo sulla scia delle guerre napoleoniche: questo è il momento in Europa, Spagna e poi in Francia, in cui le persone si descrivono per la prima volta come liberali.

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andreazhok

I bigotti del bene

di Andrea Zhok

image93gt43ridOggi pezzo assai interessante, e sconcertante, sulla prima pagina del Corriere.

L'autore è Emanuele Trevi, che salvo omonimie, risulta essere uno scrittore e critico letterario.

L'articolo prende di petto il rifiuto vaccinale.

Premesso, a scanso di equivoci, che your most humble servant è vaccinato e non è un 'No-Vax', il modo in cui il Trevi sostiene le sue tesi "anti-No-Vax", gli argomenti che vengono sollevati, meritano davvero qualche riflessione, soprattutto se pensiamo che la collocazione dell'editoriale lo rende automaticamente espressione ufficiale della "borghesia illuminata" italiana.

Scrive Trevi (il maiuscoletto è di mio inserimento, come sottolineatura):

<<Questa è la verità: sono tra noi. Non amano Donald Trump, non affermano che la Terra è piatta, non sono aggressivi o rimbecilliti. Sono attori, musicisti, commercianti, gente che viene alle presentazioni dei libri, gente che incontri a cena. Con il no vax classico, condividono solo un sordo rancore per il sapere scientifico. Non saprebbero mai e poi mai definire una cellula o una proteina, ma prendono decisioni gravi come quella di non vaccinarsi in base a consigli dell’insegnante di yoga, o perché un amico di un amico lavora in un certo posto ed è sicuro che.

IGNORANO INSOMMA CHE L’ESSENZA DELLA DEMOCRAZIA È FIDARSI DI CHI SA, certamente controllando che il sapere non diventi un’usurpazione, ma consapevoli che il sapere è una lenta conquista che costa lacrime sangue, non una ricerca su google.

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lacausadellecose

I politici parolai nelle difficoltà dell’attuale fase

di Michele Castaldo

In calce una nota di Alessio Galluppi per noinonabbiamopatria*

forbidden city 645566 1920Che succede nel Movimento 5 Stelle? Anticipiamo la nostra tesi, così risparmiamo al lettore pigro di scorrere l’articolo per intero e capire il nostro pensiero: succede un caos, abbondantemente previsto, quale riflesso di una parte del ceto medio che la crisi delle categorie capitalistiche italiane aveva espresso come protesta nei confronti di un ceto politico che aveva tradito le sue aspettative. Si trattava di un movimento composito, ovvero di un flusso di più interessi che si è ritrovato unito nella protesta e che di fronte alla necessità di fare proposte, ovvero di misurarsi con le leggi dell’economia, diventa strabico mentre si decompone.

Grillo, Conte, Crimi, Di Maio, Fico, e via elencando. Personaggi di pochissimo spessore come i ceti sociali che li hanno eletti, ovvero gente che chiede di cambiare il mondo attraverso un clic della tastiera.

Evitiamo di elencare in questa sede gli sproloqui e le sceneggiate di Grillo, moderno guru che si era illuso di avere il mondo ai suoi piedi piuttosto che stare, invece, alle falde di una duna sabbiosa che lo sta rendendo volatile, trasferendolo via scirocco verso il sol Levante dell’Estremo Oriente e la nuova Via della Seta cinese di questa fase.

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lafionda

Nulla sarà come prima. Cronaca di una «rivoluzione passiva» annunciata

di Salvatore Bianco

banksy capitalism stockmarket wallstreet streetart 1Premessa

Forse «sovranità globale di mercato» (C.Galli) è la formula che meglio coglie il tratto specifico della cosiddetta “globalizzazione”, targata mainstream, chiamata a fare i conti col Covid (secondo alcune interpretazioni addirittura istigandolo) e che farebbe presagire un futuro in pratica già scritto, come nel più inquietante dei racconti di Gabriel García Márquez[1]. Quel presunto ordine globale, infatti, corrisponderebbe all’ingrosso, secondo la classificazione antica (Platone, Aristotele), alla forma di governo degenerata detta oligarchia, governo dei più ricchi, solo proiettata nel nostro presente su scala planetaria.

Più nello specifico, essa è incarnata da una ristretta élite economico-finanziaria apolide (capitalisti e banchieri), raccontata da quello stesso potere mediatico che largamente controlla, come un improbabile circolo di filantropi e benefattori a vario titolo dell’umanità. E questo, ad un occhio critico appena avvertito, segnala una prima doppiezza ipocrita, evidentemente necessaria, tra ciò che si è, parte dell’aristocrazia del denaro, e il come si appare, un membro permanente dell’esercito di salvezza mondiale. Nel più tipico dei travestimenti del lupo camuffato da agnello (Matteo:7,15-20).

Il raddoppiamento soggettivo, su richiamato, diventa poi un compiuto metodo di governo indiretto, là dove questa oligarchia cosmopolita si avvale di poderose istituzioni internazionali opportunamente convertite al credo neoliberista, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale su tutte (in grado di riorientare le politiche degli Stati, tranne forse quelli di stazza continentale).