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mentinfuga

Lessico della democrazia

Votare: dovere, rito effimero, diritto per contare?

di Giovanni Dursi

votoIl diritto di voto è garantito dall’articolo 48 della Costituzione della Repubblica italiana, che afferma:

«Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

Come si può leggere, nella Costituzione il voto è considerato un “dovere civico”. Si dibatte da tempo sul senso di queste parole, anche perché è un “dovere” che non prevede sanzioni in caso di violazione. Il voto sembra essere l’unica espressione simbolica delle prassi democratiche. In realtà, nell’ordinamento italiano esistono 4 strumenti di democrazia diretta:

Petizione (50 della Costituzione)

Legge di iniziativa popolare a voto parlamentare (71 della Costituzione)

Referendum abrogativo (75 della Costituzione, il quale è anche il motivo per cui in Italia non ci sarà mai un referendum come quello che ha portato al Brexit)

Referendum confermativo (138 dell Costituzione)

Questa è la situazione in Italia. Tuttavia, sappiamo che l’attuale momento non è eccellente: la “democrazia reale” italiana non è in buono stato di salute ed il voto – dono pregiato della “democrazia”, assieme a tutta una serie di libertà individuali (i diritti costituzionali) – nel corso di oltre settant’anni dalla liberazione dal Fascismo, è stato svuotato di valore, non incide più nelle decisioni e deliberazioni parlamentari e governative.

Una sostanziale continuità storico-sociale [1] trova la fondamentale manifestazione nell’occupazione del potere politico-amministrativo, dal primo Governo De Gasperi della neonata Repubblica, giungendo agli anni ‘90 del Novecento e ai primi decenni del terzo millennio con le ibridazioni delle principali subculture politiche [2], prima da parte di quello che è stato definito il “Partito – Regime”, la Democrazia Cristiana e nelle dinastie nepotistiche di Sindaci che, in loco, ha insediato per decenni; poi, per un successivo ventennio, da parte del dominante “Partito – Azienda” con contestuale avvelenamento delle coscienze (la manipolazione psichica di massa operata dalle televisioni “commerciali” [3]). Un definitivo knock out della libertà autentica. Tutto ciò, certo, scontatamente, sulla base di legittimazione popolare, considerato il maggior numero di “voti” che elezione dopo elezione premiava gli uomini dello scudo crociato e di FININVEST/MEDIASET.

Di fatto nei territori, è bene ricordarlo, l’espressione “voto” è stata decodificata dai diversi interlocutori con consapevolezza etimologica: il “voto” sulla scheda elettorale, attribuito nella cabina, angusto spazio che ripara da occhi indiscreti l’esercizio della propria onestà o della pavidità, custodita fino allo spoglio nel segreto dell’urna, è inteso nel senso letterale del termine latino vòtum, voto, preghiera, desiderio, una sorta di offerta ad una divinità di un oggetto, un animale o addirittura un uomo (nell’antichità), per esprimere gratitudine per un bene ricevuto o per impegnare la divinità medesima a concedere qualcosa.

Il sottinteso auspicio ha innervato per decenni e innerva tutt’ora la dichiarazione della propria volontà nei procedimenti elettivi che hanno riguardato tutte le generazioni di cittadini elettori italiani. Il corpo elettorale, soggiogato dalla mentalità di prostrazione al potere ha accettato il “voto di scambio” come essenza della “politica” in mano ai “partiti”. Così facendo si è dato vita ad un fenomeno, dilagante tra le contrade e nelle metropoli [4], che ha tracimato anche nella cosiddetta “seconda Repubblica”, consistente tuttora nell’ottenere voti (qui il termine rientra nella prosaica semantica del “mercato politico-elettorale”) in cambio di favori o vantaggi individuali e/o familiari e/o nelle “affinità elettive” con il “dispensatore” di turno, più o meno leciti.

Non è assimilabile solo ad una iper-tangentopoli o qualcosa di simile a quanto accade in alcuni territori del Sud del Paese, altrimenti negli Uffici giudiziari territoriali avrebbero molto di più da fare, come, di recente per i nefasti accadimenti del terremoto, è avvenuto a L’Aquila; trattasi piuttosto, di una subalternità popolare al valvassino in auge che usa la “raccolta” di voti per tentare scalate ulteriori nelle Istituzioni della rappresentanza o altrove o per allargare la clientela del proprio studio professionale o della propria azienda, del proprio “commercio”, dopo uno o più “giri di giostra” in Parlamento o in Regione. Questo anomalo fenomeno d’una sorta di “mercato laico / laido delle indulgenze”, costituisce una strategia per stabilizzare il potere locale e nazionale da parte di un coagulo di interessi che vanno tutelati perpetuando il dominio sulla macchina istituzionale ed amministrativa e le sue articolazioni funzionali sul territorio ed impedendo in questa guisa alle comunità locali un definitivo slancio civile. L’élite economico-politica e culturale, mutatis mutandi, ha, fino ai nostri giorni, replicato la gerarchia di comando tipica dell’organizzazione medievale delle vite – un assolutismo che prevede privilegi ed esclusione sociale – mai tramontata. Una conferma è data, ad esempio, dal “personale politico” che “nelle parole” si è posto come competitore, peraltro sempre sconfitto; gli “uomini” che hanno inteso rappresentare un’alternativa, di fatto, sono stati espressione della stessa “cultura” paternalista, clientelare e concessiva, a volte anche autoritaria in grado di “parlare” di diritti, ma mai di fuoriuscire dalla dimensione retorica top down di chi pretende un mandato dal popolo lavoratore, ma che per estrazione e formazione, non appartiene al mondo del lavoro in senso stretto (dal latino “fatica”, opera di mano e poi anche d’ingegno, cose fatte o da farsi operando), bensì a quello delle “libere professioni” che è predisposto a “fare cartellopolitico-affaristico.

Tale fenomenologia prevede la persuasione della masse popolari della propria incapacità alla “parola” inibendone una “produzione autonoma”. Non è affatto scontato, del resto, che le cose possano cambiare con qualche candidato insegnante, medico o commerciante; è proprio il meccanismo di selezione e reclutamento dei rappresentanti – in una comunità bloccata al medioevo – che non funziona. In tal modo, non avendone esaustiva consapevolezza, si perpetuano riti e comportamenti non emancipatori della più grande risorsa che l’Italia ha, latente, comunque non utilizzata, silenziosa, a volte passiva e connivente, a volte brutalizzata e soffocata, ma, nei suoi strati più reconditi, capace di resistenza e di rivolta quantomeno morale: la società civile.

Il voto – un diritto acquisito da tempo – è diventato tutt’altro che una libera espressione durante un’elezione. Da dovere utile si è trasformato in irresponsabile connivenza.

È evidente che la “democrazia” dovrà percorrere un lungo cammino – ben oltre il 4 Marzo 2018 – prima di ritrovare un significato coinvolgente, soprattutto i diciotto-venticinquenni.

Camminare a lungo, ma anche depurarsi. Innanzitutto, fare i conti con il liberalismo politico, nelle sue varie declinazioni, che postula la necessità di salvaguardare opzioni di libertà all’interno di sistemi istituzionali complessi. Il principio che giustifica questa opzione è l’universalismo della libertà, che pretende di essere neutrale rispetto ai valori e agli scopi che gli individui perseguono; la legittimazione del liberalismo è il consenso popolare, senza però che la gerarchia sociale sia messa in discussione.

Per gli italiani il liberalismo filosofico coincide con la figura di Benedetto Croce. Il suo liberalismo si fonda su uno spiritualismo metafisico mutuato da Hegel, che tuttavia, nella opposizione dei distinti, va incontro a problemi relativi tanto al rapporto tra filosofia e politica, che fa parte con l’economia dell’ambito pratico, quanto a quello tra filosofia e storia. In entrambi gli aspetti il pensiero di Croce presenta rilevanti ambiguità (il rapporto con il fascismo, la difficoltà di sciogliere i nodi tra etica e politica) che hanno portato a ridimensionare la sua importanza nell’ambito della filosofia politica italiana. Croce fa parte, con Hayek, gli storicisti e prima ancora Hume e Bentham, dei cosiddetti liberali realisti. Come Croce, Friedrich von Hayek non considera importanti gli snodi etico-politici, ma si affida alla persuasività dei fatti. Un ordine politico si mantiene grazie alla sua capacità di resistere alle difficoltà della storia, senza aver la possibilità di valutarlo sul piano etico-politico. L’altra faccia del mondo liberale è costituita da Kant, Rawls, Dworkin, che non mettono mai in dubbio l’impianto liberale delle loro filosofie. Il liberalismo di John Rawls sposa un’idea di pluralismo della libertà (la lista dei beni primari) e la innesta su una concezione costruttivista della società basata sulla riproposizione del contratto sociale. Il liberalismo rawlsiano è poi “egualitario”, dato che non accetta diseguaglianze sociali che non siano motivate e non vadano a vantaggio di tutti; la ragione pubblica obbliga poi i cittadini alla cooperazione e alla giustificazione dei propri principi morali. Il consenso per intersezione rappresenta il punto massimo della riconciliazione sociale.

In secondo luogo, fondamentale è fare i conti con la democrazia. Il sistema democratico è, almeno formalmente, il più diffuso nel mondo e risolve i conflitti d’interesse attraverso l’uso di procedure condivise e attraverso l’obbligatorietà delle norme, ma non è esente da problemi. Una delle questioni più “antiche“, già evidenziata dal marxismo ottocentesco, è il rapporto tra democrazia e capitalismo. Marx sosteneva che il consenso dei cittadini, in alcune decisioni chiave, non era del tutto libero a causa dei condizionamenti economici; questa tesi è il punto di caduta di ogni realistica proposta di compatibilità: la democrazia (comunque sia definita), nella sua struttura concettuale e nelle sue realizzazioni storiche, è radicalmente refrattaria alla logica del capitale; la presenza delle lobby e l’influenza dei poteri economici multinazionali condizionano la vita democratica perpetuandone lo svuotamento di significato. Un altro punto critico è l’incidenza delle scelte pubbliche. Il teorema dell’impossibilità di Arrow ha dimostrato che la democrazia passa attraverso cicli di impossibilità decisionale, la cui unica alternativa sarebbe la dittatura (un argomento a favore, alla fine, della teoria delle élite). Vi sono poi teorie procedurali della democrazia; tra i molti autori Dahl sostiene il concetto di poliarchia, in cui la sovranità popolare e il controllo esercitato dai cittadini assicurano la tutela degli interessi di gruppi in competizione tra di loro. Si può terminare con l’esame della democrazia procedurale di Bobbio, che mette in evidenza anche le promesse non mantenute della democrazia, che sono alla base della crisi di questi ultimi anni [5].

Un’altra storia va scritta, una storia coinvolgente e sincera, con codice inedito avulso dall’apologia del sistema, che percorra sentieri ignorati per il bene comune delle classi subalterne.


Note
[1] Istruttivo, a questo proposito, il recente libro di Federico Fubini, “La maestra e la camorrista”, Mondadori, 2018, secondo il quale l’Italia di oggi è un paese pietrificato, dove la mobilità sociale è bloccata e i discendenti di chi in passato ha costruito grandi fortune sono sempre ancora al vertice, mentre i pronipoti delle classi popolari di un tempo sono sempre fermi sui gradini più bassi.
[2] Cattolica e del movimento operaio, il riferimento è agli studi di A. Ardigò; d’interesse anche Mario Caciagli “Subculture politiche territoriali o geografia elettorale?”, SOCIETÀMUTAMENTOPOLITICA, ISSN 2038-3150, Vol. 2, n. 3, pp. 95-104, 2011 www.fupress.com/smp – © Firenze University press. Sembra suffragare la tesi dell’ibridazione il recente intervento “Il Pd erede del partito azienda”, di Alfio Mastropaolo, su il manifesto del 18.01.2018.
[3] Macroscopica la contraddizione rappresentata dal “conflitto di interessi” – a tutt’oggi in auge – che nega le regole auree (rif. agli studi pioneristici di S. Siebert, T. Peterson, V. Schramm , “Four theories of the press”, University of Illinois Press,
Urbana, 1956) alla base di corretti comportamenti politici: la pluralità degli emittenti (essenzialmente di proprietà privata); l’indipendenza dal potere politico; l’assenza di restrizioni alla raccolta e alla pubblicazione di informazioni, come dell’obbligo a pubblicare; la funzione di “cane da guardia” della democrazia che può condurre anche ad attaccare gli esponenti del governo e del potere politico; il controllo reciproco dei media attraverso un processo auto-correttivo della verità nel libero mercato delle idee, che consente anche la pubblicazione di “errori”.
[4] Si pensi agli anni ’80 del Novecento ed all’esperienza socialista di “governo”; con Craxi il partito, da istituzione che tradizionalmente incanala l’adesione dei cittadini alla vita politica, abbandonando l’intento di formazione intellettuale e morale delle masse, riduce il suo bagaglio ideologico puntando ad estendere al massimo il suo consenso, con ogni mezzo anche illegittimo, raccogliendolo presso diverse tipologie di elettori stakeholder. Importante tra gli altri studi, a questo proposito, “Cleptocrazia. Il «meccanismo unico» della corruzione tra economia e politica”, di Giulio Sapelli, Guerini e associati, 1994 – 2016, secondo il quale la corruzione, endemica e universale, è funzionale al mantenimento del sistema.
[5] Per gli ultimi due paragrafi, si è debitori nei riguardi di Sebastiano Maffettone autore di “Filosofia politica” (Luiss University Press, 2014, ) ed alla eccellente esaustiva recensione di Antonella Ferraris in ReF – Recensioni filosofiche, 30.12.2015.
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