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marx xxi

L’economia della guerra

di Ascanio Bernardeschi

Il presente è una rielaborazione per Marx 21 di due articoli distinti usciti rispettivamente il 21  e il 28 aprile

99753 img089Fine della Storia?

Sul Fatto Quotidiano di domenica 22 Aprile, Furio Colombo, che immagino permanentemente tormentato da due aste di bandiera conficcate nel cervello, quella americana e quella israeliana, si domanda come sia possibile “fare a meno dell’America” e, preoccupatissimo per le acrobazie politiche senza rete di Trump, teme che “il Paese [con la maiuscola] che fino a un momento fa era stato capofila dell’avanguardia” di praticamente tutto lo scibile e tutti i diritti si chiuda in sé stesso e non regali più a noi poveri sudditi il bene prezioso della sua democrazia, la cui esportazione nel mercato mondiale è sostenuta da un elevata capacità competitiva non proprio esattamente sul terreno economico.

Poi conclude: “forse Trump, con tutti coloro che lo stanno imitando, sta rappresentando la profezia di Fukuyama: la Storia [ancora con la maiuscola] si è fermata”. Sì, quella fine della storia di Fukuyama che andava bene e veniva acriticamente richiamata quando serviva a diagnosticare il venir meno dell’antagonismo di classe e dei movimenti antimperialisti dopo l’ ‘89, è ora temuta non perché il modo stia fermo, piuttosto perché, a differenza di quello che pare al Nostro, si sta muovendo troppo, anche se non nella direzione da lui auspicata. E difatti sta ponendo fine all’egemonia americana e affermando un nuovo multipolarismo.

Stiamo attraversando – e, contrariamente a quello che ci raccontano i giornalisti embedded, ci siamo ancora dentro – una delle crisi più catastrofiche del capitalismo. Dopo ogni crisi niente rimane come prima, e le formazioni economico-sociali subiscono dei cambiamenti, talvolta in positivo e talvolta in negativo.

Il cambiamento può essere perfino catastrofico, dipende anche dai rapporti di forza fra le classi. Lo sbocco negativo, purtroppo, ci sembra di intravederlo nel democraticissimo Occidente, dove xenofobia, neofascismo e guerre stanno minacciando il futuro.

Non tutto è perduto. Non siamo ancora allo sbocco finale, ma questo si sta avvicinando e non certo in direzione di una la prospettiva di miglioramento per le classi sfruttate. E non è nemmeno da escludere che dopo la flebile ripresa delle economie “mature”, sia in arrivo una nuova devastante bolla finanziaria, di cui alcuni osservatori intravedono qualche segnale.

Tutte le evidenze empiriche, anche quelle di fonte ufficiale ci dicono che dalle nostre parti, mentre il Pil stenta a raggiungere i livelli pre-crisi, le condizioni di vita dei lavoratori dal 2007 in poi sono peggiorate in termini di reddito, di tutele del welfare, di stabilità lavorativa e di potere contrattuale; che la mobilità sociale si è fermata, o meglio ha cominciato a funzionare a ritroso, facendo precipitare vicino alla soglia della povertà, o anche oltre, notevoli pezzi di proletariato e di ceto medio; infine che si è divaricata la forbice fra i ricchi e i meni abbienti, tanto che nel 2017 otto super ricchi disponevano del 50 per cento della ricchezza mondiale!

Da qui la rabbia popolare che ha castigato, anche sul piano elettorale in molti paesi, i fautori delle politiche ordoliberiste, ma spesso a vantaggio di formazioni populiste e xenofobe, utili valvole di sfogo delle sofferenze sociali.

La via alternativa alla barbarie l’avrebbero dovuta indicare i partiti delle classi lavoratrici. Ma nei paesi occidentali questi partiti o non ci sono o sono minoritari e al loro posto esiste una “sinistra” (le virgolette sono assolutamente d’obbligo) che, nel migliore dei casi, rivendica politiche keynesiane, permanendo nel minoritarismo, senza rendersi conto che a questo livello di sviluppo del capitalismo esse sono impraticabili in assenza di cambiamenti profondissimi di struttura e di rapporti di forza. La “sinistra” fino a poco fa maggioritaria, invece, da Blair in poi, ha sposato l’ideologia dominante e fatto il lavoro sporco dal capitale: macelleria sociale a suon di tagli del welfare, abbattimento dei diritti dei lavoratori, privatizzazioni e guerre. Ma anche questa, per fortuna, è al tramonto.

Lo scontro in atto fra i diversi settori del capitale vede prevalere in questa fase storica le posizioni più restauratrici e violente.

La stessa costruzione europea è stata una scelta di classe che ha devastato il “modello sociale europeo” per pervenire a politiche di macelleria sociale che hanno creato il terreno di coltura delle forze più reazionarie. La presenza attiva dei socialdemocratici nel processo costitutivo dell’Ue e nella successiva gestione non ha minimamente messo in questione il disegno neoliberista né ha ridotto il carattere autoritario e antidemocratico dell’integrazione europea.

La rappresentanza del settore egemone del capitale – chiamiamolo impropriamente ma per semplicità “di destra” – non è di esclusiva pertinenza delle destre vecchie e nuove, ma anche i “democratici” in Europa come negli Usa, fanno del loro meglio per curarne gli interessi economici, politici e militari. Hillary Clinton, per esempio, è stata emblematicamente tra i più feroci fautori delle politiche imperialiste americane e da questo punto di vista Trump non si colloca in discontinuità con la prospettiva dei democratici. Non c’è quindi da stupirsi se in questa rincorsa a rappresentare questi interessi stiano avendo la meglio le formazioni di destra, meglio attrezzate ideologicamente e pragmaticamente allo scopo.

La novità della fase sta invece nel fatto che l’unipolarismo Usa, affermatosi a seguito del crollo del campo “sovietico” non esiste più e che stiamo assistendo a uno scontro per l’egemonia con potenze economiche emergenti, quali la Cina e la Russia. In particolar modo la Cina è data dalla maggior parte degli osservatori come in via di superamento, in termini di capacità produttiva, del gigante Usa, se non addirittura già in testa.

Anche in questo caso sono le stesse statistiche ufficiali a dire che la Cina ha quasi raggiunto in pochi anni il Pil degli Usa se lo si calcola in termini di reddito nominale in dollari Usa; ma lo ha già superato se lo si calcola in termini di “potere di acquisto equivalente” (Ppp), una misura che risente meno delle fluttuazioni dei cambi. Già nel 2015, per esempio, gli Usa registrarono un Pil in dollari di 18.558 miliardi, mentre la Cina si è attestata a 11.383 miliardi. In termini di Ppp, invece la Cina si attestava a 20.853 miliardi, sopravanzando gli Usa di oltre 2mila miliardi (fonte Fondo Monetario Internazionale). Anche il sito statistico ufficiale dell’Unione Europea, Eurostat, afferma che il miglior metodo di calcolo sia il secondo e fornisce, per il 2016, il dato di un Pil di 15.609 miliardi di dollari PPP della Cina, contro i 13.533 degli Usa.

 

Il colpo di coda americano

La progressiva perdita di capacità egemonica degli Usa sta determinando un colpo di coda pericoloso, cui anche gli alleati Europei, pur dimostrandosi di tanto in tanto tiepidamente critici, non riescono a sottrarsi. Tale colpo di coda si manifesta in forme accomunate dalla parola “guerra”. Si tratti della guerra economica dei dazi, che rischia di generare gravi ripercussioni in tutte le economie, sia direttamente sia in conseguenza delle inevitabili contromisure dei paesi colpiti; si tratti delle guerre vere e proprie che stanno caratterizzando questo inizio di secolo, devastando principalmente l’area mediorientale, in cui non si è esitato ad armare il terrorismo contro gli stati non graditi, a sostenere il gendarme Israele e a bombardare ricorrentemente; si tratti della guerra mediatica volta a demonizzare gli antagonisti e i loro alleati (Russia, Corea del Nord, Siria, Cuba, Venezuela, Iran….); si tratti, infine, della guerra “diplomatica”, o meglio della strategia golpista praticata nel cortile di casa dell’America Latina, strategia che sostiene i peggiori dittatori e ostacola il percorso recentemente intrapreso da alcuni paesi verso l’indipendenza economica e una maggiore giustizia sociale: una nuova “operazione Condor”. I casi del golpe giudiziario in Brasile contro Lula e la Rousseff, del sostegno alla violentissima opposizione venezuelana e del blocco economico contro Cuba sono solo i più eclatanti.

Le ragioni economiche di tutto questo sono evidenti e meriterebbero ognuna una trattazione a parte.

Il teatro mediorientale ha per gli Usa una molteplice valenza. Un motivo è che esso è la più importante riserva energetica necessaria a sostenere il sistema energivoro americano, che non si intende emendare, e a tale scopo si ostacolano perfino i pur pallidi accordi internazionali in fatto di clima e ambiente. Ancora: questi conflitti permettono agli Usa di attestarsi militarmente in vicinanza dei veri nemici, anche se non dichiarati: Cina e Russia. Non va infine dimenticato che l’area mediorientale e quella dei paesi ex “satelliti” dell’URSS ha un’altra importanza strategica dal punto di vista economico, perché fa parte della cosiddetta “via della seta”, l’insieme di infrastrutture terrestri e marittime con cui la Cina intende potenziare i propri sbocchi di mercato verso l’Occidente, rafforzando la sua capacità competitiva nei confronti degli Usa.

La Siria, per esempio, oltre a essere troppo amica di Iran e Russia, ha compiuto il grave delitto di scegliere, fra due possibili gasdotti che la potevano attraversare, quello più gradito alla Russia, cioè dall’Iran verso l’Europa via Iraq e Siria, mentre gli Usa sostenevano una infrastruttura alternativa dal Qatar verso l’Europa via Turchia e Siria. I risvolti dell’una e dell’altra scelta sono facilmente intuibili e riguardano le possibilità di sbocco commerciale del gas dell’una o dell’altra nazione, che oltretutto “pescano” nello stesso bacino, e quindi può arricchire chi per primo riesce ad esportarlo e a estrarlo.

A prescindere dal fatto che il recente bombardamento della Siria si è ridotto a un avvertimento telegrafato, rimane la gravità che le intenzioni americane erano di accendere un conflitto in un’area in cui è presente militarmente la Russia. La somiglianza fra l’attacco alla Siria e i precedenti (Iran, Jugoslavia, Afghanistan, Libia….), anche nei toni della propaganda, non devono ingannare. Nei precedenti la Russia e la Cina erano già gli obiettivi, ma li si colpiva indirettamente, tentando di mettere intorno a loro regimi di comodo e di appropriarsi di risorse energetiche preziose. Dopo il fallimento di questa strategia in Siria, dove il terrorismo allevato dalle potenze occidentali sta perdendo, anche grazie all’intervento russo, c’è la necessità di combattere meno indirettamente la Russia. e pertanto c’è il rischio di un coinvolgimento diretto di questa potenza nucleare, che si cerca di demonizzare, come sta avvenendo, per esempio, col russiagate. Così come è stato gravissimo il bombardamento della Siria di alcuni giorni prima da parte di Israele, contro cui nessuno ha mosso un dito.

Molto più evidenti sono le ragioni dell’impegno degli Stati Uniti nell’America Latina. Questo è sempre stato considerato il proprio cortile di casa ed è un bel guaio se alcune nazioni progettano invece una loro diversa collocazione sia sullo scacchiere internazionale che sul piano delle politiche sociali, oltretutto stabilendo rapporti politici e commerciali con Cuba, Russia e Cina. L’inclusione del Brasile nei Brics, con le conseguenti aperture economiche verso il “nemico”, per esempio, costituiva un vulnus inaccettabile.

Ma c’è un’altra ragione di questa strategia aggressiva. Il tentativo di bloccare i regimi che tentano di rilanciare l’indipendenza economica e il riscatto dei popoli mediorientali, come per esempio si è fatto in Libia, ha a che vedere anche col contrasto agli strumenti finanziari indipendenti dal dollaro per lo sviluppo delle economie africane, che Gheddafi intendeva costruire.

Venuto meno primato industriale statunitense è per gli Stati Uniti vitale che Wall Street primeggi ancora in campo finanziario, nonostante il gigantesco debito Usa verso l’estero, e il dollaro primeggi come mezzo di pagamento internazionale.

 

Il dollar standard

Agli inizi del ‘900 venne stabilito dalle autorità americane che un dollaro rappresentasse il valore di circa 1,67 grammi di oro. L’equivalenza e la convertibilità con l’oro, denominata gold stadard, è stata praticata per oltre un settantennio con una interruzione in corrispondenza con la prima guerra mondiale e una serie di accorgimenti, limitazioni e fluttuazioni durante la grande depressione degli anni ‘30, quando invece la maggior parte degli stati europei dovettero abbandonare il gold standard. Al termine di quel burrascoso periodo la parità – valida però solo negli scambi internazionali – fu portata a 35 dollari l’oncia, pari a 0,81 grammi per dollaro.

Dopo la seconda guerra mondiale, gli accordi di Bretton Woods definirono il valore di ogni moneta nazionale in termini di dollari Usa e solo in questo modo indiretto le varie valute acquistarono un rapporto con l’oro. Fu così che il dollaro conquistò il ruolo di moneta utilizzata e accettata praticamente da tutti negli scambi internazionali.

Tuttavia, dal 1968 la parità di 35 dollari iniziò a valere solo per gli scambi fra le banche e non per i privati, mentre sul parallelo libero mercato dell’oro la quotazione del metallo prezioso divenne ben superiore, fino a raddoppiare, raggiungendo 70 dollari l’oncia (circa 0,4 grammi per dollaro). Nel frattempo fu ammessa la fluttuazione dei cambi.

Nei primi anni ‘70, a seguito dell’aumento del costo delle materie prime e delle spese per la guerra del Vietnam, si sviluppo un processo inflattivo, tanto che, nel 1971, il presidente Nixon ordinò unilateralmente la cancellazione della convertibilità del dollaro in oro. Fu la definitiva morte del sistema di Bretton Woods, ma non la morte del ruolo economico degli Stati Uniti e della sua moneta. Anzi, la potenza economica e militare Usa ha fatto sì, fino ai giorni nostri, che il dollaro, nonostante rappresentasse poco più che una cambiale, fosse ancora la moneta utilizzata quasi esclusivamente nei pagamenti internazionali.

Ciò ha permesso agli Stati Uniti, che gradualmente perdevano di peso come produttori mondiali, di mantenere un tenore di vita superiore alle proprie capacità produttive, stampando dollari e con questi acquistando prodotti sul mercato mondiale, il petrolio in primo luogo, e ha permesso di finanziare le proprie guerre e il proprio sia pur minimale welfare con l’emissione e il collocamento nel mercato mondiale di titoli del debito pubblico in dollari. Soltanto Cina e Giappone, per esempio, sono creditori verso gli Usa per un ammontare quasi 3.500 milioni di dollari.

Peraltro questo monte di debiti ha permesso per anni che gli Stati Uniti assorbissero la sovrapproduzione mondiale, rinviando lo scoppio della crisi, scoppio che è avvenuto nella forma di bolla finanziaria legata ai mutui subprime, cioè all’indebitamento dei lavoratori americani aventi un reddito insufficiente a mantenere il loro tenore di vita, ma un patrimonio immobiliare, il cui valore veniva gonfiato dal “mercato”, idoneo a garantire tale debito.

Si spiega quindi la punizione, a suon di bombe, missili, colpi di stato o pesanti ingerenze negli affari interni, subita in diverse occasioni da alcuni stati che hanno tentato di uscire dal dollar standard per inaugurare nuove forme di relazioni commerciali con l’estero e nuovi strumenti creditizi. Della Libia abbiamo già detto. Il golpe in Brasile, invece è funzionale anche a inceppare i meccanismi finanziari all’interno dei Brics, anch’essi tendenti a utilizzare valute diverse dal dollaro negli interscambi. Non è stata la loro presunta incapacità di rispettare i diritti umani o la loro presunta detenzione di armi di distruzione di massa o i loro presunti crimini di guerra, ma la necessità della superpotenza americana e con lei dell’Occidente nel suo insieme di tutelare i propri interessi.

 

Il debito pubblico

Tuttavia la situazione della finanza pubblica Usa è diventata molto preoccupante. Il debito si è ingigantito e si sostiene – ma fino a quando? – solo grazie al ruolo del dollaro come moneta di scambio internazionale.

Recentemente i tagli alle tasse, le spese militari e qualche sprazzo di politica keynesiana hanno portato questo debito a livelli stratosferici (21 mila miliardi di dollari, circa il 124 per cento del Pil).

Un gruppo di ex presidenti del consiglio di consulenza economica della Casa Bianca, tra cui la ex direttrice della Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti), Janet Louise Yellen, scrivono per esempio nel Washington Post dell’8 aprile, riportando l’opinione di alcuni economisti, che “Il deficit del bilancio federale si avvia verso il superamento di 1 trilione di dollari l'anno prossimo e peggiorerà nel tempo. Alla fine, il debito e il disavanzo crescenti causeranno un aumento dei tassi di interesse e la quota di gettito fiscale necessaria per soddisfare il debito crescente peserà progressivamente sulla capacità del governo di provvedere ai propri cittadini e di rispondere alle recessioni e alle emergenze”. Pur divergendo da altre considerazioni di politica economica con gli economisti citati, gli articolisti concordano con questa valutazione, aggiungendo però che la causa di ciò risiede “nei grossi tagli alle tasse e nelle guerre non finanziate”, più che nel costo della riforma sanitaria di Obama, che invece è l’imputato principale dei professori loro contraddittori. La riduzione del gettito fiscale farà “scendere le le entrate al di sotto del 17% del Pil, il livello più basso degli ultimi 50 anni, se si escludono le conseguenze delle due recessioni precedenti”. Quindi non solo sta salendo il debito, ma crescono anche, in maniera assai sostenuta, gli interessi su tale debito, rischiando di diventare insostenibili.

La Cina, fra i maggiori detentori dei titoli del debito americano, di fronte all’aumento dei tassi sul tale debito, e pertanto della sua perdita di valore (il valore effettivo attuale di una data somma a scadenza è inversamente proporzionale al tasso di interesse), sta operando per ridurre questo suo credito sia riducendo gli acquisti di titoli sia vendendo quelli già in suo possesso. Il che favorisce ulteriori inasprimenti dei tassi e riduzione del livello di fiducia verso i titoli del Tesoro Usa nei mercati.

È di pochissimi mesi fa la notizia che l’agenzia di rating cinese Dialong Global ha declassato il debito Usa a BBB+, una valutazione non certo esaltante e che probabilmente ha avuto un suo peso nella decisione di Trump di dichiarare la guerra dei dazi alla Cina.

Le contromisure di Trump rappresentano quindi un disperato tentativo di preservare condizioni e regole che fin qui avevano permesso agli Usa di adottare la flat tax e di sostenere crescenti spese militari, quindi bilanci costantemente in deficit, facendone pagare al resto del mondo i costi, diversamente da altri paesi aventi livelli paragonabili di indebitamento pubblico, di costo degli interessi su tale debito e soprattutto aventi forti conti in rosso verso l’estero, come per esempio l’Italia, che, se vogliono rispettare le “regole del gioco”, devono ricorrere a tagli di spesa pubblica.

 

Verso una nuova storia anche sul piano militare

Ma nell’attuale situazione multipolare appare difficile che il “mondo” ubbidisca a queste regole. Qua e là si può provocare la disgregazione di qualche realtà statuale recalcitrante ma non attrezzata ad affrontare anche militarmente il colosso americano. Però i maggiori competitori ormai si sono organizzati anche a questa eventualità e il flop delle politiche statunitensi in Medio Oriente, come l’avvenuto raggiungimento del livello di potenza nucleare della Corea del Nord il probabile analogo processo in atto in Iran, la determinazione della Russia a non permettere un ulteriore avvicinamento della Nato ai propri confini, come per esempio con la guerra in Ucraina, dovrebbero costituire un avviso chiaro, che al momento però non pare essere ascoltato.

 

Che fare?

In questo quadro preoccupante brilla per ignavia il nostro governo uscente. Gentiloni, mentre acriticamente e in maniera immotivata prende per buone le accuse ad Assad riguardo il presunto uso delle armi chimiche, dichiara che gli attacchi non sono partiti dalle basi Nato e Usa del nostro territorio nazionale, basi che comunque hanno inevitabilmente fatto da supporto logistico.

Mentre la destra si è divisa fra contrari all’intervento in Siria (Lega) e attendisti (Forza Italia), mentre il M5stelle ancora una volta ha fornito ampie assicurazioni riguardo al suo recentemente acquisito atlantismo e il PD balbetta il suo sostegno a Gentiloni, quale deve essere il ruolo dei comunisti e della sinistra di classe?

Indispensabile è – ovviamente – un No pieno e totale al coinvolgimento dell’Italia in simili avventure, anche indirettamente, tramite le basi collocate nel proprio territorio. Ma questa pur necessaria posizione non basta. Visti il ruolo che sta acquisendo la Nato, l’insussistenza di una politica estera dell’Unione Europea, sostituita dall’asse Trump-Macron-May, le tremende ripercussioni economiche, sociali e politiche della guerra, i relativi costi che vengono sempre fatti prevalere su quelli dei servizi pubblici, i danni provocati agli interessi italiani (vedi l’estromissione dell’ENI in alcune realtà), occorre rivendicare la piena riconquista della nostra indipendenza dalle strategie economiche e militari degli Usa e dei suoi alleati, battendoci per l’uscita dalla Nato e la chiusura delle basi militari straniere nel nostro paese. Sarebbe inoltre utile sperimentare forme di coordinamento su scala mondiale fra le varie formazioni anticapitalistiche. Anche la rottura dei trattati europei che stanno annichilendo ogni possibilità di intervenire nell’economia e di contrastare la crisi economica deve essere all’ordine del giorno. Oltretutto non dobbiamo essere impreparati all’eventualità, non improbabile, che comunque l’Unione europea si sfaldi. E urge costruire un movimento europeo che si opponga alle politiche di austerità. Solo così – non abbandonando il campo alla propaganda della Lega – sarà possibile riannodare i rapporti con le classi sfruttate e ricostruire l’autonomia politica dei comunisti.

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