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All’ordine del giorno: partito operaio

di Enzo Acerenza

ocinf 350x350La domanda che poniamo è in questi semplici termini. Siamo ancora operai che si riuniscono come venditori di forza lavoro e tentiamo di venderla al nostro padrone alle migliori condizioni o siamo operai che hanno imparato, per propria esperienza pratica, che il nostro orizzonte non può fermarsi a questa contrattazione: nella migliore delle ipotesi ci garantisce una misera vita normale e nelle peggiori ci colloca fra i milioni di uomini che non sanno come tirare avanti.

Se siamo ancora nella prima condizione basta trovare un sindacato capace di contrattare al meglio la vendita delle nostre braccia e se non c’è occorre costruirlo. Abbiamo delle organizzazioni sindacali completamente allineate alle necessità economiche del padrone, è lui che fa il prezzo, e lui che imposta le condizioni di utilizzo della merce che vendiamo. Quando parliamo di sindacati ci riferiamo ai confederali, questi hanno costruito la loro forza contrattuale sulla disponibilità a sottoscrivere qualunque patto servisse al padrone per garantirsi i profitti e, come qualsiasi commerciante, hanno sostenuto che se non c’è il compratore (il padrone) nessuno compra la merce che, inutilizzata, può andare solo in rovina. Dove cade tutto questo baraccone? Cade nel momento in cui pur avendo un compratore, pur dando completa disponibilità di utilizzo delle nostre braccia, pur accettando un prezzo basso, un salario da fame, il nostro bravo compratore non conosce limite, ci consuma fino all’osso, dove non può intensificare il rendimento orario prolunga la giornata lavorativa, riportando la sua lunghezza ai livelli di cento anni fa. Il consumo della forza lavoro spinto alle estreme conseguenze produce il fenomeno del suo consumo mortale. I morti sul lavoro non sono disgrazie, sono un prodotto specifico della massima spinta al rendimento che il padrone impone nelle sue fabbriche.

Dopo aver formalizzato con un contratto lo scambio fra salario e la nostra forza di lavoro siamo solo all’inizio. Il padrone ha comprato la possibilità di disporre delle braccia di un operaio che ora è tutto a sua disposizione ed è qui che il bravo sindacalista collaborazionista si gira dall’altra parte, “meno male che il lavoro c’è” dice fra sé e sé, se poi è faticoso, rischioso, è un sacrificio necessario da fare, e poi non lo deve fare lui. La cosa, per questi sindacalisti, diventa più complicata se lo stesso padrone, a cui hanno venduto la pelle degli operai, ad un certo punto dichiara di non averne più bisogno, nemmeno al prezzo stracciato di prima. Licenziamenti di massa, chiusura di fabbriche che andavano per i padroni a gonfie vele. La lotta contro la chiusura delle fabbriche poteva sollevare nella crisi un movimento collettivo, di tutti gli operai contro la produzione per il profitto che distrugge forza lavoro e mezzi di produzione. Ma i sindacalisti collaborazionisti hanno preferito e preferiscono isolare ogni caso di chiusura, di licenziamenti collettivi, rivolgersi allo Stato per gli ammortizzatori sociali, promettere fantomatiche reidustrializzazioni mai realizzate. In realtà il loro compito è quello di gestire la caduta degli operai nella miseria della disoccupazione, rendendola “sopportabile”, diluita nel tempo. Se siamo ancora nell’ambito dei venditori di braccia abbiamo il dovere di chiedere il conto a chi ci ha costretto a venderci al ribasso, a chi ci ha convinto che sacrificando una parte dei nostri compagni di lavoro ci salvavamo, che fare le pecore ci avrebbe favorito agli occhi del padrone. Tanti fra noi ci hanno creduto, ed ancora ci credono, ma fino ad un certo punto. Quando sono migliaia gli operai licenziati, quando i licenziamenti investono anche migliaia di impiegati, i più solerti sostenitori degli interessi del management, quando i posti di lavoro si riempiono di dipendenti pagati a giornata con un buono, la situazione può cambiare. Affiora in superficie, solo in alcuni punti e momenti, una condizione, che viene definita anche dai benpensanti come lavoro in schiavitù. Cercano in tutti i modi di limitare la denuncia ad alcuni particolari ambiti lavorativi, di nuova generazione. Nessuno ha interesse a collegare quelle che sembrano nuove forme di schiavitù a quelle già ampiamente operanti nelle fabbriche, sulle linee di montaggio, nelle fonderie, nei cantieri edili, nella moderna raccolta di pomodori, nella logistica. Se non si può negare che la schiavitù del lavoro sta facendo di nuovo notizia, è meglio relegarla in aspetti marginali della produzione da correggere immediatamente. Ebbene se qualcosa ha prodotto sugli operai attivi la digitalizzazione della produzione è un controllo più sistematico dei movimenti, del consumo dei muscoli, del cervello, un più elevato livello di schiavitù. Lo stesso sviluppo tecnologico, che è una potente forza di produzione sociale, per dispiegare tutte le sue potenzialità va liberato dal suo involucro di mezzo per far soldi. E’ lo sviluppo tecnologico, ironia della sorte, che spinge a rimuovere l’ostacolo che lo rende distorto, unilaterale, a far fuori, cioè, il padrone. Far fuori il padrone nel senso di spezzare un rapporto sociale in cui, oggi, qualunque tipo di produzione si può svolgere alla sola condizione di produrre ricchezza per altri ma non per chi ne è agente diretto.

Come si può vedere ogni volta che affrontiamo il rapporto degli operai con il loro padrone, finiamo sempre per approdare ad un problema molto più generale e cioè alla collocazione collettiva degli operai come classe. Nel maledetto rapporto che costringe degli uomini, se vogliono sopravvivere, a vendersi a giornata ad altri c’è la possibilità di una grande rivoluzione sociale. Non è un caso che un qualunque risveglio degli operai si misura sulla capacità di lottare contro il padrone, di difendere il salario, di porre dei limiti all’orario di lavoro, ma mentre quando cominciammo, più di un secolo fa, ci sembrò, o qualcuno ci raccontò, che i miglioramenti conquistati sarebbero stati eterni, oggi possiamo ben dire che si sono mostrati transitori, legati ai cicli economici, sempre riassorbibili. Per questa ragione, come operai di questa epoca non ci legheremo all’eterna difesa dei diritti violati, sempre sulla difensiva. Sappiamo che non abbiamo scelta, dobbiamo lottare per difendere il salario, contro i licenziamenti, altrimenti siamo condannati alla morte economica, ma ormai abbiamo anche imparato che se nelle lotte non mettiamo all’ordine del giorno l’eliminazione del padrone, del suo sistema, ce lo ritroveremo di fronte, più forte ed agguerrito nei momenti a lui più favorevoli della situazione economica.

Non si può pensare che un sindacato ci possa risolvere il problema della nostra liberazione, anche se sembra un’affermazione fuori luogo. Oggi che sindacalmente siamo messi male, i sindacati venduti ci hanno addirittura impedito una resistenza, per cui è ben comprensibile che si tenti su questo fronte di riprendere l’iniziativa, e siccome va riconosciuto che è stato possibile ingabbiare la protesta operaia grazie anche alle nostre divisioni interne, al ruolo di quegli operai che, in cambio di un piccolo privilegio, fanno da contorno e di sostegno, in fabbrica ai veri e propri sindacalisti agenti del padrone, e siccome questa è la realtà, la coalizione operaia va ricostruita nei luoghi di lavoro, qui va ingaggiata la lotta vera contro il collaborazionismo sindacale, qui la solidarietà fra gli operai deve diventare effettiva. E’ molto più facile parlare di lotte immaginarie, di masse immaginarie piuttosto di misurarsi oggi con un movimento degli operai che va ricostituito da zero.

Abbiamo molto da imparare dal movimento 5 stelle e dalla Lega, più dai primi perché la Lega è più vecchia della scena politica, ed è già stata al governo con i grandi borghesi del Nord. Imparare che le classi, se vogliono contare socialmente, devono costituirsi in partito, dar vita a propri movimenti politici, darsi programmi e mezzi di lotta per realizzarli. Oggi con questi partiti sono ampi settori della piccola borghesia che sono andati al governo, lo hanno fatto prima raccogliendo il consenso fra la piccola borghesia in difficoltà e poi scendendo a patti con il grande capitalismo finanziario ed industriale. Con la loro propaganda, le critiche al sistema politico, le misure sociali che hanno promesso di adottare, hanno accalappiato oltre alla piccola borghesia rovinata dalla crisi anche operai illusi che qualcosa potesse cambiare. Nel giro di pochi giorni i partiti della piccola borghesia sono stati rimessi in riga, ripuliti del loro velleitarismo economico, gli si è lasciato solo la difesa della italianità, della piccola proprietà contro gli stranieri, contro gli zingari, contro gli irregolari. I pochi operai sono tornati orfani, alla piccola borghesia rovinata dalla crisi hanno ripresentato, come sempre un nuovo nemico, lo straniero, il migrante, il nero. Avevano puntato su una modernizzazione dello Stato, sul ridimensionamento dei grandi privilegi, contro la mafia dei partiti e si sono ritrovati con Salvini a minacciare i poveri più poveri di loro. La piccola borghesia meridionale, disoccupata e immiserita, dopo aver accolto a braccia aperte in tutti i porti del Sud gli emigranti, ha dovuto sopportare il loro capo politico Di Maio difendere la scelta di chiudere i porti decisa da Salvini. Una qualche rottura fra la piccola borghesia del Nord e quella del Sud si produrrà sicuramente, basta aspettare e dipende anche dagli operai, dalla loro capacità di presentarsi come l’unica vera alternativa alla società dei ricchi e della corruzione dei loro servitori.

Torniamo alla domanda iniziale, tutto il nostro sforzo per la ripresa di un movimento degli operai deve puntare ad un nuovo livello di difesa sindacale, di un nuovo sindacalismo o deve puntare più in alto, alla comparsa sulla scena politica di un nuovo soggetto, l’operaio schiavo. Non se ne vedevano più, i partiti della sinistra ci avevano convinti che non ne esistessero più. L’aristocrazia operaia che rappresentavano era finita fuori dalle fabbriche e i tanti tecnici sembravano dovessero sostituire definitivamente gli operai ovunque. A questi partiti, sono rimasti come base di massa, oltre ai manager industriali e i banchieri, una piccola e media borghesia che fa da corte a questi nuovi e moderni capitani d’industria. Poi si scopre che Marchionne ha ridotto gli operai Fiat a robot fra robot, si scopre che nella logistica gli operai lavorano con la catena al collo, informatizzata. Si scopre che il padrone usa il colore della pelle per dare al suo schiavo la razione ridotta e se si ribella, niente di meglio che la condanna a morte. Si scopre per ultimo che il fattorino sulla modernissima bicicletta se si spezza le ossa si deve arrangiare, non è un dipendente. La corte di cassazione con la sentenza Mignano toglie allo schiavo anche la possibilità di criticare pubblicamente il suo padrone. L’operaio schiavo riemerge dalla montagna di false rappresentazioni sociali e si scopre senza una degna difesa sindacale e tanto meno senza un movimento politico che gli sia proprio. Occorre correre ai ripari, i borghesi più intelligenti vorrebbero correggere le storture, garantire a tutti un minimo di diritti, niente paga di “razza”, ma come sempre le loro buone intenzioni si scontrano con la realtà del lavoro gestito dal capitale. Libertà di licenziare, lo dice la legge, libera contrattazione fra le parti, lo dice la legge. Nessun padrone può essere costretto a tenere aperta una fabbrica, c’è la libera iniziativa. La crisi e la concorrenza fra capitali che ha prodotto e produce hanno fatto fuori tante illusioni e false rappresentazioni, il padrone si mostra nella sua forma più pura, per lui parla il suo interesse economico, di contro anche l’operaio ha perso tante false illusioni, ora sempre di più è una schiavo che scopre di essere tale. Si diceva una volta la crisi ha lavorato con metodo ed è vero.

A questo punto è necessario che ovunque l’operaio schiavo si ritrovi, ovunque decida di lottare, si interroghi sulla possibilità di dar vita ad un movimento politico proprio. Certo è che non si tratta di un movimento riformatore, di un movimento che vuol cambiare un elenco interminabile di cose senza mettere in discussione le basi stesse della schiavitù. Hanno tentato in tanti e sono finiti per fare il possibile dato una certa struttura sociale e cioè fare niente, oppure peggio hanno svenduto le loro grandi riforme per un buon posto nella mangiatoia statale. Un movimento politico degli operai, che si scoprono schiavi moderni, può sorgere solo con un programma: l’abolizione della schiavitù nell’ultima forma che ha assunto, quella industriale. Un movimento politico che si organizza in partito e muove i primi passi da gigante: vuole sradicare alla radice ciò che rende sempre più insopportabile la vita nella società di oggi, ogni attività umana è sottoposta ad un solo obiettivo, trarne un profitto, guadagnare, arricchirsi e siccome il profitto alla fine si realizza solo sfruttando il lavoro degli operai, gli operai non vogliono essere schiavi di nessuno e abolendo il loro sfruttamento eliminano lo sfruttamento in generale, in qualsiasi forma si ripresenti. Almeno questo partito sarà onesto, se questa categoria si può usare, le sue rivendicazioni si realizzeranno appieno solo rivoluzionando la società dalla base. I partiti della piccola borghesia hanno promesso la fine della corruzione politica e statale senza abolire il sistema degli appalti e dei finanziamenti dei ricchi ai partiti, hanno promesso un reddito di cittadinanza sufficiente per vivere senza mettere le mani nelle casseforti degli industriali. Questi hanno fatto dei loro programmi un’accozzaglia di fanfaronate irrealizzabili, per prendere voti. Il partito operaio per realizzare l’abolizione della schiavitù non ha bisogno di maggioranze parlamentari, ma del fatto concreto che una classe di schiavi si metta in movimento, che gli operai si mettano in movimento. Troveranno nel loro movimento le misure da adottare e come adottarle. La cosa essenziale oggi è che la costituzione di un partito operaio si metta all’ordine del giorno.

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