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Cos’è, per noi, la sovranità?

di Francesco Valerio della Croce*

Note di contributo alla discussione congressuale del PCI sul tema della sovranità

sovranitàQueste righe vengono scritte all’indomani della terribile notizia della morte del compagno Domenico Losurdo. Ed è, quindi, impossibile non prendere le mosse da alcuni spunti importanti della sua elaborazione nel nostro approccio ad un tema che tiene sempre più banco nel dibattito politico nazionale ed internazionale: quello relativo alla sovranità e alle problematiche che essa attraversa (questione nazionale, sovranità costituzionale, sovranità democratica, ecc.).

Assai brevemente, è opportuno ricordare parole fondamentali del prof. Losurdo pronunciate alla prima assembla di lancio dell’Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista, a fine dicembre del 2014:

Per primo il comunismo italiano ha saputo capire la questione nazionale. Per primo Antonio Gramsci ha saputo capire che l’universalismo, l’internazionalismo, deve essere al tempo stesso collegato alla questione nazionale. Gramsci ha detto che Lenin è stato un grande internazionalista, anche perché era profondamente radicato sul terreno nazionale russo. E se appunto noi non riusciamo a capire questo collegamento tra internazionalismo e questione nazionale, certo non capiamo il socialismo dalla caratteristiche cinesi ma rinnegheremmo anche la storia e il patrimonio del movimento comunista e del Partito Comunista Italiano.

Con queste parole, il prof. Losurdo ci ha ricordato il legame indissolubile tra questione nazionale ed internazionalismo, un elemento costante della teorizzazione e della prassi del movimento comunista internazionale, con un peculiare avamposto nella piena consapevolezza di tale inscindibile nesso da parte della storia del comunismo italiano, a partire dai contributi di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti a riguardo.

Il tema, tuttavia, è stato indagato a fondo da Domenico Losurdo anche in un’altra opera straordinaria, La lotta di classe, in cui egli scriveva testuali parole:

A provocare la lotta di classe è solo lo sfruttamento che ha luogo nell’ambito di un singolo paese? E’ dello stesso anno del Manifesto del Partito comunista una perentoria messa in guardia di Marx: coloro che <<non riescono a capire in che modo un paese può arricchirsi a spese degli altri>> tanto meno sono in grado di capire <<in che modo all’interno di un singolo paese una classe può arricchirsi a spese di un’altra>>. Ben lungi dall’essere di scarsa rilevanza dal punto di vista della lotta di classe, lo sfruttamento e l’oppressione che si sviluppano a livello internazionale sono una precondizione, almeno sul piano metodologico, per la comprensione del conflitto sociale e della lotta di classe a livello nazionale.

Assieme alla <<liberazione>> ovvero all’ <<emancipazione economica del proletariato>>, Marx ed Engels rivendicano, come sappiamo, la <<liberazione>> ovvero l’ <<emancipazione>> delle <<nazioni oppresse>>. E’ lotta di classe quella mirante alla liberazione/emancipazione delle classi sfruttate ma non quella che si propone di conseguire la liberazione/emancipazione delle nazioni sfruttate (e oppresse)? E’ lotta di classe quella di cui è protagonista una classe che ha conseguito l’emancipazione politica ma non quella economica e sociale, mentre non sarebbe lotta di classe la lotta condotta da una nazione che è al di qua della stessa emancipazione politica?[1]

Parimenti significativi, saranno i passi seguenti che danno conto della dialettica tra la rappresentazione di Marx della “questione sociale”, presentabile in determinati contesti e fasi storiche come “questione nazionale”, e quella di Lenin, che attraversa un percorso evolutivo che porta il capo dei bolscevichi russi a, in un primo momento, distinguere nettamente tra “questione nazionale” e “questione operaia”, fino a giungere ad un approccio affine a quello di Karl Marx.

E’ ovvia considerazione che questi passi e questa elaborazione di Losurdo non affrontino direttamente la questione relativa alla sovranità, per come essa si presenta nel dibattito pubblico in Italia, ma è altrettanto certo che essi dimostrino, prima ancora che l’attualità, l’immanenza nel pensiero comunista della questione relativa ai nessi “nazionale-internazionale”, “questione sociale-questione nazionale”. Questo esordio vuol essere un modesto tributo alla memoria di un Compagno e Maestro per tutti noi.

 

La santa crociata antisovranista

Negli ultimi giorni, il sistema di “informazione” (definizione neutra sempre meno adatta a qualificare quello che, in realtà, è insieme di veline al servizio dei propri editori, a loro volta, al servizio delle classi dirigenti economiche del nostro Paese) sta raggiungendo l’apoteosi della caccia alle streghe “sovraniste”.

Sul Corriere della Sera, del 22 giugno scorso, possiamo leggere un apocalittico Panebianco scrivere:

I sovranisti scherzano con il fuoco. Ammesso che, prima o poi, si possa ricostituire qui in Europa un mondo di Stati pienamente sovrani, è certo che in quel mondo la guerra tornerebbe a essere la regola. Altro che pace perpetua.

Peccato che a Panebianco sfugga il fatto che la guerra domina lo scenario mondiale, con la diretta e attiva partecipazione della UE e dei suoi Stati membri. Ma senza rivolgere lo sguardo al globo tutto, basterebbe fermarsi proprio all’Europa per avere le immagini della guerra e, precisamente, all’Ucraina, la quale vive nel pieno di una guerra dilaniante tra Est/Ovest, con al governo di quel Paese una compagine che non disdegna di richiamarsi al nazismo e a quella storia tragica novecentesca evocata dallo stesso giornalista del Corsera. E, se Panebianco non vede la guerra, tanto meno potrà vedere le armi dunque, men che meno quelle NATO schierate in tutti i principali scenari. E’ un peccato: se Panebianco, infatti, potesse vedere si renderebbe conto che lo scenario apocalittico da lui evoca è già realtà, ma non è il prodotto del ritorno alla sovranità dei Paesi e dei popoli in Europa.

Passiamo a Repubblica, la quale ci ha deliziato nei giorni scorsi con una vera e propria chicca: un censimento “rossobruno”. Tra gli schedati “comunisti un poco fascisti”, è finito anche il nostro compagno Steri. Come si fa con le notizie poco serie, l’abbiamo presa con ironia e abbiamo capito che probabilmente si è trattato di un errore di un ingenuo giornalista (o, più appropriatamente, compilatore; come è giusto definire chi si occupa di schedature), probabilmente tratto in inganno dal nome del nostro rosso Bruno Steri.

Ma, a volte, dietro la banalità si possono celare ragionamenti più fini: ed invero, il fatto che un esponente socialista come Stefano Fassina sia finito nel calderone dei “comunisti amici dei fascisti” la dice lunga sul tentativo di combattere, talvolta (raramente) con le argomentazioni politiche, talaltra (più frequentemente) con anatemi e diffamazioni, chiunque si opponga alla cessione della sovranità nazionale (già ampiamente ceduta) in favore di questo processo di integrazione europea.

In più, questi tipi di accusa verso le forze di classe non sono nuovi. Sia sufficiente, a proposito, citare quanto scritto nel secolo scorso da Palmiro Togliatti:

Assai spesso i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e di disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia. Il comunismo non ha nulla di comune col cosmopolitismo.

Lottando sotto la bandiera della solidarietà internazionale dei lavoratori, i comunisti di ogni singolo paese, nella loro qualità di avanguardia delle masse lavoratrici, stanno saldamente sul terreno nazionale. Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario poiché l’uno e l’altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle libertà dell’indipendenza dei singoli popoli.

E’ ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare la loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri.[2]

In ultimo, alla guida politica di questa santa crociata contro il “sovranismo” pare porsi l’ex ministro Calenda, fautore della proposta di una “costituente antisovranista”; il che non sorprende visto quanto gli abbiamo visto fare da ministro, pronto a svendere l’ILVA di Taranto a capitali stranieri senza alcuna garanzia occupazionale per i lavoratori dell’acciaieria.

 

Il valore della sovranità per i comunisti: chiarirci anzitutto sul suo significato

Chi scrive, non ha mai aderito sic et simpliciter all’idea che la sovranità possa essere univocamente definita (monetaria, legislativa, costituzionale, popolare), qualificando questo termine come complesso e assai ricco politicamente. A parere dello scrivente, una tra le più belle definizioni di sovranità, è quella che è stata data da Antonio Gramsci, nel 1919 su l’Ordine Nuovo, allorché scrisse:

La sovranità deve essere una funzione della produzione.[3]

Come si può dissentire da Gramsci, nel momento in cui il nostro Paese – privato di circa un terzo della propria produzione industriale e manifatturiera dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht – non riesce a ridiscutere nemmeno margini significativi di “flessibilità” per gli investimenti o, addirittura, per spese urgenti in conseguenza dei cataclismi naturali che si abbattono sovente sull’Italia, rimanendo preda delle regole liberali e rigoriste? La citazione, poi, dell’esempio della Grecia potrebbe chiudere immediatamente ogni discussone e fugare ogni dubbio sulle conseguenze, in termini di perdita di sovranità politica, ricadute sugli Stati più colpiti dalla distruzione di ricchezza e di apparato produttivo nazionale.

Quanto detto è avvalorato dalla banale quanto necessaria sottolineatura circa la natura dello Stato in Italia, almeno prima dell’accelerazione del processo di integrazione europea: uno Stato programmatore dell’economia, con una presenza proprietaria assai significativa nel sistema produttivo e creditizio del Paese. Uno Stato edificato democratico, permeato dalle istanze della società ed, in particolare, della lotta della classe lavoratrice: i tassi di crescita dei salari superiori a quelli dei profitti, costantemente tali fino agli anni ’80, stanno lì a dimostrarlo. Uno Stato che muta potentemente le sue articolazioni con l’avvento della restaurazione mondiale liberista proprio nel corso degli anni ’80 e che viene, poi, prepotentemente asciugato e imbrigliato nelle nuove regole imposte dal processo di integrazione europea.

Il fatto che queste regole non siano il frutto del caso, ma rispondano alla logica precisa di riscrittura dei rapporti di forza tra le classi dominanti del continente, alla creazione di un polo centrale economicamente forte, produttivo e volto alle esportazioni verso una vasta parte di continente (cosiddetti PIIGS) destinatari di credito, capitali e produzioni originate nel polo economico più forte (Germania), non è un esempio evidente di quell’oppressione delle nazioni di cui si è accennato all’inizio, citando Losurdo? Non è forse la più lampante esplicazione del concetto per cui la grande questione sociale dello sfruttamento del lavoro nella UE – perseguito attraverso la svalutazione del lavoro come unica leva concorrenziale nelle rigidità dei trattai europei – si manifesta anche nell’oppressione di alcuni Stati da parte di altri?

Già queste poche considerazioni, a parere di chi scrive, possono essere utili a dimostrare due cose: 1) la piena presenza all’ordine del giorno della questione della sovranità; 2) la ricchezza di significato che questo concetto contiene.

 

La sovranità come precondizione (da sola insufficiente) per il perseguimento degli obiettivi strategici dei comunisti

Mai come oggi, alla luce della crisi sistemica (irrisolta) del capitalismo e del ritorno dell’imperialismo economico e militare col suo volto più selvaggio, per i comunisti si pone il problema della definizione di grandi obiettivi di natura strategica: l’irrisolta crisi economica, porta con sé il problema di un ritorno ad un ruolo attivo, programmatore e diretto nella gestione degli snodi fondamentali del sistema economico (credito e  settori industriali strategici) da parte dello Stato; l’esatto opposto del ruolo di mero socializzatore delle perdite che in larga misura è stato assunto dagli Stati coinvolti dalla crisi capitalistica in Occidente dopo il 2008.

Alla crisi capitalistica irrisolta, ha fatto seguito il fattore di controtendenza preferito (perchè più efficace) da parte del capitalismo: la guerra, il saccheggio predatorio, l’imperialismo in senso classico. Come nel Novecento, l’opposizione alla guerra (che parte delle classi dominanti USA vorrebbero portare alle estreme conseguenze contro la Russia, prima, e contro la Cina, dopo) diviene un tratto distintivo dei comunisti. La denuncia del neocolonialismo, delle nuove pratiche imperiali alimentate per mezzo delle rivoluzioni colorate, l’opposizione alla deflagrazione militare diventano imperativi strategici – probabilmente principali e prioritari – di questi anni.

Affermare la sovranità del Paese e dello Stato in questo contesto significa dotarsi della precondizione minima (ma non sufficiente) per perseguire questi due obiettivi strategici. Se sul secondo non si corrono rischi di incomprensione e ben si comprende la necessità di affermare la denuncia dei trattati (quello di adesione alla NATO in primis) per affermare la pienezza del contenuto dell’art. 11 della Costituzione, è necessario soffermarsi di più sul secondo obiettivo da perseguire attraverso il recupero di una piena sovranità statuale.

Il progressivo dileguarsi della presenza dello Stato in economia, l’abbandono delle redini pubbliche nella programmazione generale dell’economia del Paese, ha coinciso in larga parte con l’avvio del processo economico di integrazione europea (che parte, almeno, dal 1981 con il cosiddetto “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro). La costruzione di un’area caratterizzata da: (a) libertà nei movimenti di capitale, (b) libertà nei movimenti della forza lavoro, (c) rigidità del cambio, (d) settorializzazione dell’economia dell’area valutaria comune, non è il frutto di una combinazione casuale, ma è la costruzione di una sovrastruttura economica e politica liberista e imperialista (all’esterno ed all’interno). Si è già dato conto dell’identità individuata da Gramsci tra produzione e sovranità, e quindi agevolmente si comprende come questa costruzione sia stata edificata al fine di garantire la prosperità delle classi dirigenti di pochi Paesi (forse uno solo) a danno degli altri Stati dell’Unione.

Il recupero e l’affermazione della sovranità dello Stato è sicuramente la bandiera politica distintiva della lotta contro un progetto politico liberista e imperialista, qual è l’Unione Europea. Ma c’è di più. La lotta per “più Stato”, per i comunisti, si limita effettivamente ad essere solo una rivendicazione in negativo (rispetto al “più mercato” propugnato dalle classi dirigenti UE)? Guardando alla storia e all’elaborazione dei comunisti, viene da rispondere con un fermo NO.

Nel suo ultimo libro, Economia della rivoluzione, Vladimiro Giacchè offre a riguardo spunti importantissimi provenienti direttamente dall’elaborazione di Lenin. Provenienti, ancora più precisamente, dalla storia della costruzione concreta e reale del socialismo e le parole del capo dei bolscevichi sono in tal senso illuminanti sulla forma statale più pervasiva di controllo dell’economia capitalistica, il capitalismo di Stato. Questa forma sociale ed economica, è noto, rappresenta per Lenin lo stadio immediatamente precedente all’edificazione dello Stato socialista. Rappresentò concretamente una necessità per lo sviluppo delle forze produttive, innervò la Nuova Politica Economica, rappresentò la base per il conseguimento dei successi in campo economico e produttivo dopo la dura fase del cosiddetto “comunismo di guerra”.

Poichè non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come l’anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive.

Lenin non temette la possibilità di un “ritorno indietro” rispetto alla conquista del potere politico rappresentato dalla Rivoluzione d’Ottobre, poichè il potere politico era saldamente delle mani dei bolscevichi.

Ecco che, in senso lato, possiamo dire che dove il partito della classe lavoratrice, il partito comunista, e le forze anticapitaliste sono forti e capaci di incidere nei frangenti più importanti della storia, laddove esiste la capacità soggettiva di esercitare una funzione storica, dal capitalismo di Stato è possibile costruire le condizione per il passaggio ad una società di tipo nuovo. Al socialismo. Lo aveva chiaro anche Marx, già quando individuava la neutralità dello Stato in condizioni di parità tra le classi in lotta, lo aveva chiaro Engels quando affermò:

la proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sè il mezzo formale, la chiave di soluzione. Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive, le quali si sottraggono ad ogni direzione che non sia la sua.[4]

La lezione di ieri che ci permette di guardare con interesse non solo agli Stati socialisti di oggi, alla Repubblica Popolare Cinese in particolare, ma anche a quegli Stati emergenti  (ma completamente emersi sulla scena internazionale oramai) che conosciamo con l’acronimo BRICS – i quali contengono insieme un presenza dello Stato in economia rilevantissima e l’esistenza di forze comuniste e popolari in grado di esercitare una funzione ed un’ influenza politica di massa – si dimostra ancor più di straordinaria attualità, quando si nota che alcune delle esperienze politiche occidentali a sinistra – anche non comuniste – più avanzate hanno posto al centro il ritorno ad un ruolo pesante dello Stato in economia con nazionalizzazioni, credito pubblico, ecc., rompendo anche con una tradizione ed un passato di segno nettamente diverso (l’esempio del Labour inglese potrebbe essere il più eloquente, da questo punto di vista).

E’ palese, dunque, quanto la questione della sovranità risulti premessa necessaria – ma da sola non sufficiente – per il perseguimento di obiettivi aventi natura strategica per i comunisti: lotta per la pace (attraverso l’affermazione di un multipolarismo garantito dall’esistenza di Paesi autonomi dall’imperialismo USA, alcuni dei quali socialisti, caratterizzati da un’incidenza significativa dello Stato in economia e da un’influenza di massa delle organizzazioni di classe) e rafforzamento della presenza regolatrice dello Stato in economia, in primo luogo, come quadro favorevole per la lotta per il socialismo ed il comunismo.

 

Sulla contrapposizione tra sovranità nazionale e popolare

Spesso, nel dibattito sulla sovranità si ritrovano argomenti e posizioni che pongano in contraddizione la rivendicazione della sovranità nazionale e quella popolare. La ragione di una tale distinta considerazione di questi due piani risiede nella contestazione della entità “nazione” od anche di quella “Stato” (anche perchè esse, a causa dell’abbandono di determinate categoria da parte della sinistra ed anche dei comunisti, rischiano di divenire monopolio del discorso pubblico della destra o di populismo vari). Le parole citate sopra dovrebbero aiutare a sgomberare il campo da interpretazioni più hegeliane che marxiste di questi termini (salvo non considerare Marx, Engels e Lenin rossobruni ante litteram).

Ma una siffatta contrapposizione dovrebbe venire meno alla sola lettura della nostra Costituzione: la Carta, legge fondamentale dello Stato, così recita all’art. 1:

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Essa contiene la compresenza tanto dell’efficacia del potere dello Stato, innervato dal dettato della Costituzione che dispiega i suoi effetti entro i confini dello Stato nazionale, quanto l’esplicito fondamento popolare della sovranità. Il connubio tra queste dimensioni giustifica la definizione di “regime nuovo”, utilizzata da Palmiro Togliatti per definire il prodotto dell’incontro e del compromesso tra le forze popolari e antifasciste all’indomani della caduta del fascismo. Sono da respingere semplificazioni – che Lenin definirebbe “scolastiche” – di taluni sedicenti marxisti che rimuovono l’analisi delle forme di espressione del potere, anche nelle forme borghesi, bollandole – da mnemonici scolaretti – come mere “sovrastrutture”. Chi lo facesse, non solo si troverebbe in contrasto con le lezioni dei propri maestri, ma si troverebbero, più o meno consapevolmente, al capezzale di uno dei capi dei liberali italiani, Benedetto Croce, che etichettò lo Stato nuovo sorto dopo il secondo conflitto mondiale come un mero heri dicebamus rispetto all’assetto dell’Italia liberale precedente all’avvento del fascismo.

E del resto, la lotta per la difesa degli interessi nazionali, dopo il tradimento operato dal fascismo, da chi fu fatta propria nel secondo dopoguerra se non dal Partito Comunista Italiano guidato dal Migliore? In un rapporto ai quadri del PCI dal titolo eloquente (“La nostra politica nazionale”) dell’11 aprile del 1944, Togliatti testualmente afferma:

Noi siamo il partito della classe operaia e non rinneghiamo, non rinnegheremo mai, questa nostra qualità. Ma, la classe operaia non è stata mai estranea agli interessi della nazione. Guardate al passato, ricordatevi come agli inizi del Risorgimento nazionale, quando esistevano soltanto piccoli gruppi di operai distaccati gli uni dagli altri e ancora privi di una profonda coscienza di classe e di una ricca esperienza politica, questi gruppi dettero i combattenti più eroici per le lotte di masse, che si svolsero nelle città e nelle campagne, per liberare il paese dal predominio straniero.

Operai e artigiani furono il nerbo dei combattenti delle Cinque giornate di Milano. Furono gli operai, insieme coi migliori rappresentanti dell’intellettualità, l’anima della resistenza degli ultimi baluardi della libertà italiana nell’anno successivo. Operai e artigiani troviamo nelle legioni di  Garibaldi; li troviamo dappertutto dove ci si batte e si muore per la libertà e per l’indipendenza del paese. (…)La bandiera degli interessi nazionali, che il fascismo ha trascinato nel fango e tradito, noi la raccogliamo e la facciamo nostra; liquidando per sempre la ideologia da criminali del fascismo e i suoi piani funesti di brigantaggio imperialista, tagliando tutte le radici della tirannide mussoliniana noi daremo alla vita della nazione un contenuto nuovo, che corrisponda ai bisogni, agli interessi, alle aspirazioni delle masse del popolo.

Quando noi difendiamo gli interessi della nazione, quando ci mettiamo alla testa del combattimento per la liberazione d’Italia dall’invasione tedesca, noi siamo nella linea delle vere e grandi tradizioni del movimento proletario.

Siamo nella linea della dottrina e delle tradizioni di Marx e di Engels, i quali mai rinnegarono gli interessi della loro nazione, sempre li difesero, tanto contro l’aggressore e invasore straniero, quanto contro i gruppi reazionari che li calpestavano.

Siamo nella linea del grande Lenin, il quale affermava di sentire in sé l’orgoglio del russo, rivendicava al proprio partito di continuare tutte le tradizioni del pensiero liberale e democratico russo e fu il fondatore di quello Stato sovietico, che ha dato ai popoli della Russia una nuova, più elevata coscienza nazionale.

Noi siamo nella linea del compagno Dimitrov, il quale a Lipsia, davanti ai giudici fascisti, rivendicò con una fierezza che destò l’ammirazione di tutto il mondo la propria qualità di figlio del popolo bulgaro; rivendicò a sé le tradizioni e si presentò come il continuatore di tutte le lotte del popolo bulgaro contro i suoi oppressori.

Noi siamo nella linea del pensiero e dell’azione di Stalin, di quest’uomo il quale ha saputo sulla base delle conquiste della grande Rivoluzione socialista di Ottobre, sulla base delle realizzazioni di più di venti anni di edificazione socialista, realizzare l’unità di tutto il popolo, di tutte le nazioni che sono nel territorio dell’Unione Sovietica nella lotta sacra contro l’invasore, e per schiacciare definitivamente l’hitlerismo e il fascismo. Noi siamo sulla via che ci hanno tracciato questi nostri grandi maestri.

Con queste parole, citate in estratto per esigenze di brevità da un rapporto che meriterebbe integrale riproduzione e rilettura, Togliatti: (1) pone il PCI nel solco della vicenda nazionale del Paese, ponendo radici nella storia e sul terreno nazionale (si vedano ancora le parole di Losurdo in apertura di questo testo); (2) attribuisce paternità al marxismo della questione della difesa degli interessi nazionali, nel solco della lezione di Marx ed Engels e del concreto operare del movimento comunista e degli Stati socialisti del suo tempo, in nome di una vocazione generale delle rivendicazioni della classe operaia; (3) infine, pone la classe operaia in Italia nella sua funzione dirigente generale del Paese, nel solco della più pura lezione di Lenin.

Insomma, nel PCI del secondo dopoguerra guidato da Togliatti, la centralità e la problematicità della questione nazionale, dell’indipendenza e sovranità del Paese sono assolutamente presenti e costanti, tanto nella elaborazione teorica, quanto nelle scelte politiche contingenti, che schierarono il PCI – ad esempio – contro la partecipazione dell’Italia alla NATO e ai primi trattati internazionali prototipi di integrazione europea.

Il valore della Costituzione e dell’operare dei comunisti nell’ambito nazionale determinato sono chiaramente presenti nell’analisi e nelle scelte dei comunisti che costruirono le fondamenta dello Stato democratico.

Da più parti, specie in un contesto storico in cui diviene sempre più aspro il conflitto tra il vincolo interno costituzionale e vincoli esterni imposti dai trattati europei, si evoca la parola d’ordine della sovranità costituzionale. Essa potrebbe essere un parola d’ordine opportuna, capace di superare la contrapposizione tra sovranità nazionale e popolare, e capace di portare su questo livello rivendicativo e di consapevolezza politica settori democratici rilevanti. Settori che, in particolare, hanno dimostrato la loro vitalità in occasione del referendum costituzionale del dicembre 2016.

La sovranità o patriottismo costituzionale, se intesi quali sinonimi della supremazia della Costituzione nazionale sulle regole UE, nel quadro di uno Stato permeabile alle istanze della classe lavoratrice, che trova il suo fondamento però in una Carta costituzionale assolutamente avanzata nella definizione del ruolo preponderante dello Stato nella regolamentazione della vita sociale ed economica del Paese (art. 3) e nel pieno riconoscimento di molteplici forme di proprietà (pubblica, privata e cooperativa) e limitazioni in capo a quella privata (artt. 41 e seguenti), possono divenire le parole d’ordine unitarie per una lotta per la sovranità del Paese, contro questo processo di integrazione europea, su basi avanzate, popolari e nel solco di una prospettiva strategica più generale per i comunisti.

 

Fare nostra la parola d’ordine della sovranità del Paese nel quadro di un mondo multipolare

Per quanto sopra esposto, ci sono valide motivazioni per fare propria dei comunisti in Italia, ancora più esplicitamente, la parola d’ordine della sovranità dello Stato. Da respingere e combattere, però, sono le false promesse dei “gattopardi”, coloro i quali, nascosti dietro la bandiera della sovranità, del “no euro”, ecc. mirano a conservare un sistema generale di sfruttamento del lavoro, in cui a fronte di aguzzini diversi, permangano i medesimi sfruttati: i lavoratori. Batterci per la sovranità del Paese significa, per i comunisti, battersi anche per un’Europa della cooperazione tra popoli e Stati, dall’Atlantico agli Urali (per usare le parole di Togliatti), rispettosa delle Costituzioni e dei diritti dei popoli, libera dal giogo della NATO. Sul piano mondiale, significa liberarsi da un atlantismo che, in una fase di declino inedita, mostra anche tutta la sua recrudescenza imperialista, in favore di un multipolarismo segnato dall’operato degli Stati socialisti (dai più importanti come la Cina, all’operato intelligente e tatticamente incisivo di più piccoli, come la Corea del Nord) e delle forze socialiste, che liberino il mondo dall’egemonia unipolare americana e riaprano la prospettiva della transizione del mondo verso scenari inediti e che, nel 1989, probabilmente apparivano addirittura insperabili.

Le note qui riprodotte si guardano bene dall’avere alcuna pretesa risolutiva di un dibattito che, anzi, è ora di affrontare e portare in profondità. Esse hanno solo un modesto fine chiarificatore, volto a inserire la questione della sovranità del Paese in un contesto di obiettivi strategici per i comunisti, da perseguire nel nostro tempo. Questa consapevolezza è pienamente presente nella stragrande maggioranza dei partiti che costituiscono oggi il movimento comunista internazionale. Un movimento internazionale che deve rafforzare la sua unità, nel nome dell’internazionalismo proletario, della sua storia gloriosa e della sua concreta incidenza nei processi politici del nostro tempo.

È importante, anzi, indispensabile che i comunisti italiani, che si trovano oggi ad operare in un contesto inedito, compiano un salto di qualità nella loro elaborazione e quindi, prioritariamente, nella loro discussione. È questo, dopotutto, il fine difficile ma essenziale del I Congresso del PCI.


* Segretario nazionale della FGCI

Note
[1] Domenico Losurdo, La lotta di classe Una storia politica e filosofica, Editori Laterza, 2013, p. 16.
[2] Palmiro Togliatti su Rinascita, Anno II – NN. 7-8, Luglio-Agosto 1945.
[3] Antonio Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione, in L’Ordine Nuovo, 13  Settembre 1919, n. 12.
[4] Friedrich Engels, citato da Andrea Catone in La Rivoluzione d’Ottobre e la fine dell’URSS, in Marxismo Oggi, n.2, 2007.
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