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lacausadellecose

La paura americana (e occidentale)

di Michele Castaldo

44107Alla fine di una estenuante e assordante campagna elettorale vince il candidato che i sondaggisti davano favorito, e così il mondo democratico occidentale che aveva tifato e sperato nella sconfitta di Trump tira un sospiro di sollievo, e finalmente: habemus papam: Joe Biden.

Il “mite” e consumato personaggio politico già vice di Barak Obama sul quale si riversano le speranze occidentali indicandolo come Salvatore della patria, in nome dell’unità di tutti gli americani.

Quando è apparsa chiara la sua elezione sono scoppiate manifestazioni di giubilo un po’ in tutti gli Stati come a esorcizzare lo scampato pericolo di una nuova permanenza alla Casa Bianca di Trump, personaggio ritenuto più un fenomeno da baraccone che il presidente della nazione più potente del mondo libero, ma proprio per questo più pericoloso.

I media si sono spesi a ricostruire biografie del nuovo presidente e della sua vice, Kamala Harris, senatrice dello Stato della California, che ovviamente non ci risulta essere stata in piazza a scontrarsi con la polizia bianca nei giorni successivi all’uccisione di G. Floyd e che ha sposato un ebreo in età adulta e ricopre ruoli istituzionali di tutto rispetto. Poi c’è la ben nota ruffianeria italica, alla ricerca delle origini messinesi dell’attuale moglie del presidente, e via di questo passo.

La nostra impressione è che in Europa si pregava il padreterno perché vincesse Biden, perché il personaggio Trump, ormai inviso alle establishment del vecchio continente, avrebbe potuto determinare una destabilizzazione negli Usa, con ricadute preoccupanti sulla nostra economia, lacerando così i nostri già labili rapporti sociali. Pericolo scampato, dunque.

L’America torna ad essere il faro del mondo democratico e libero? Dai primi discorsi del neo presidente si direbbe proprio di sì, alcuni punti programmatici sembrano promettere un nuovo paese di Bengodi. Se ci è consentito, nutriamo più di qualche dubbio e vogliamo mettere in guardia gli ottimisti di maniera che nubi nere si addensano all’orizzonte, non fosse altro perché per formare il nuovo governo il presidente deve fare riscorso ad alcuni senatori repubblicani che ben volentieri si sono offerti di collaborare e ad alcune frange dell’estremismo di sinistra che sono emerse come istanze negli ultimi mesi anche a seguito della lotta contro il razzismo dopo l’uccisione di George Floyd. Dunque non si comporrà un governo omogeneo e già questo è il riflesso di una instabilità sociale che si cerca di esorcizzare.

Non a caso qualche analista, come Angelo Panebianco, dalle pagine del Corriere della sera, lanciava una sorta di avvertimento con un editoriale che non ci è sfuggito e che cerchiamo di utilizzare per capire i problemi che si pongono fin dai primi mesi del 2021 a seguire.

Scriveva il noto editorialista il 14 settembre 2020 «[…] chi apprezza l’ordine liberale (la democrazia rappresentativa, l’economia di mercato, le libertà civili) che vige nel mondo occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale è tenuto anche a sapere che quell’ordine può perpetuarsi soltanto se sono presenti certe condizioni culturali, sociali, economiche».

Purtroppo anche i più noti personaggi del mondo dei media, pur cogliendo il fulcro delle questioni non sempre aiutano a comprendere le questioni per un vizio ideologico della loro impostazione, ed allora ci permettiamo di riordinare correttamente le condizioni che sono in primis economiche, poi sociali, quindi culturali. Un metodo marxiano? Si, non solo non lo nascondiamo, ma riteniamo che sia il più razionale e perciò ne andiamo fieri. E a differenza degli editorialisti borghesi noi non abbiamo il piede in due staffe – della serie non si sa mai! – anzi non lo abbiamo in nessuna delle due staffe, e cerchiamo di leggere dietro i personaggi le onde sociali che li esprimono, e siamo schierati senza se e senza ma solo con la rivolta degli sfruttati e oppressi di tutto il mondo, e negli Usa, in modo particolare per lo straordinario risveglio che c’è stato a seguito dell’uccisione dell’afroamericano George Floyd. E siamo ben consapevoli che la vicepresidente democratica Harris è parte integrante del vecchio ciclo della lotta contro il razzismo e per uguali diritti dei neri, mentre la nuova ventata presenta aspetti che appartengono a un nuovo ciclo, che vedono gli Usa declinare come potenza all’interno di una crisi generale del modo di produzione capitalistico.

Stabilite perciò le debite distanze con le staffe dei difensori dell’attuale modo di produzione cerchiamo di rintracciare la tendenza nella quale siamo chiamati a operare.

Cerchiamo di mettere sotto gli occhi degli ottimisti di maniera, in modo particolare della sinistra storicamente tifosa del meno peggio, alcune questioni che chi si occupa seriamente dei problemi conosce e su cui richiama l’attenzione.

Scriveva Panebianco nello stesso editoriale che citiamo «nel rapporto fra Occidente e Cina c’è un problema reale e Trump ha avuto il merito di sollevarlo e di agire di conseguenza». Sì, d’accordo, c’è stato e c’è un problema con la Cina, ma qual è la sua natura? Non religioso, no, non culturale, no, ma economico, perché quel grande paese ha assorbito dall’Occidente le dinamiche del modo di produzione capitalistico ed è divenuto in poco più di 40 anni un agguerrito concorrente a tutti i livelli delle economie occidentali e si è proiettato in Africa con capacità e forza tale da mettere in crisi i rapporti “privilegiati” che i paesi occidentali avevano costituito con il colonialismo prima e l’imperialismo poi. Tale processo di conseguenza ha agito da boomerang perché ha messo in crisi una parte non secondaria dell’economia sia europea che nordamericana. In questo modo la Cina, l’India, il Vietnam, cioè una serie di paesi emergenti, vendono prodotti e mezzi di produzione a un costo inferiore di quelli prodotti negli Usa. Tale processo ha avuto come riflesso la chiusura di una serie di aziende e l’impoverimento sia di una certa classe operaia che di un ceto medio cresciuti come condizioni complessive nel corso degli ultimi 70 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale.

Si spiegava così la vittoria di Trump del 2016, una vittoria che mostrò il volto reale dell’Occidente, ovvero non più la faccia dell’integrazione dei neri e degli immigrati attraverso il volto di Barak Obama e i suoi tentativi di dare risposte su tutti i fronti: dall’ambiente, alla sanità, ecc, ma il volto vero, quello delle leggi del mercato che non consentono sempre sogni di gloria. E dunque riapertura di miniere del carbone, per fare solo un esempio, obbedendo così alla sola legge dell’economia senza scendere a compromessi con chi vuole mettere insieme il risanamento del clima e l’accumulazione capitalistica. Mandando così in frantumi tutti quei tenui tentativi che tendevano a prendere in considerazione la riduzione dell’inquinamento dell’aria riducendo alcune produzioni anche di primaria importanza.

Già nel 2016 scrivevamo che tanto la Clinton quanto Trump erano due facce della stessa medaglia del declino americano; intendendo con ciò non un modello di capitalismo in declino, ma del capitalismo come modo di produzione in crisi profonda. Allora vinse Trump perché i settori che la crisi economica aveva maggiormente castigato non avevano la pazienza e l’ideale di rispettare il “risanamento” capitalistico della più grande potenza del globo; nel 2020 ha vinto Biden per una sola e semplice ragione: perché la strada che Trump aveva intrapreso avrebbe comportato non solo l’isolamento degli Usa e conseguentemente l’indebolimento di tutta l’Europa occidentale, ma anche e soprattutto una probabile guerra civile interna con conseguenze inimmaginabili, come le rivolte di questi ultimi mesi hanno dimostrato. E chi si illude che il pericolo sia scampato si dovrà destare dai propri sogni.

Proseguiamo così tentando di capire le questioni sul tappeto e citando ancora lo stesso editoriale sul ruolo strategico degli Usa: «Trump, con stile diverso da Obama, ma nella sostanza al pari di Obama, non ha cessato di far sapere al mondo che l’America è impegnata a ridimensionare il proprio ruolo internazionale».

Vorremmo tranquillizzare il signor Panebianco dicendo che l’America è già abbondantemente ridimenzionata e che così sia lo sanno bene tutti i grandi analisti occidentali, solo che lo vogliono nascondere a sé stessi per non svegliarsi dal sonno. Le vie intraprese, da un Obama prima e un Biden poi, da un lato, e un Trump o chi per lui, per il lato “opposto”, sono entrambe strette, perché non si può più tenere unito un paese con una torta economica che si è ridotta e non di poco. Trump ha mostrato di rappresentare una parte importante del ceto medio bianco produttivo e non, che non è disposto a pagare i costi di una riduzione di potere cui l’America è andata incontro negli ultimi anni. La cosiddetta crisi della democrazia altro non è che la riduzione di spazi economici di intere categorie sociali falcidiate dalla crisi e oltremodo aggravate dal coronavirus. È questa la verità che le chiacchiere sulle biografie dei personaggi cercano di rimuovere. La prova più evidente l’abbiamo avuta con il comportamento assunto durante questa pandemia del Covid-19, in cui Trump ha mostrato di fregarsene ampiamente di quanti sarebbero stati i morti ed ha privilegiato il lavoro e l’arricchimento, dando così sfogo alle forze più brutali dell’arrivismo bestiale del ceto medio. Non a caso in Italia Salvini è andato in giro con la mascherina di Trump. E certe manifestazioni di protesta (di cui ci siamo occupati altrove), che si sono sviluppate qui da noi, contro le misure governative tese – almeno nelle migliori intenzioni - a frenare i contagi, hanno lo stesso sapore astioso e irrazionale, ovvero di dare priorità agli aspetti economici contro tutti gli altri fattori.

Parlare di ceto medio, in modo particolare di quello degli Usa, senza una conoscenza approfondita ci potrebbe indurre a declinare le persone fisiche di certi strati sociali come antropologicamente perfide e cattive. Certamente ce ne sono e tante, ma questo non spiegherebbe un bel niente. Da uno sguardo approssimativo su come si è distribuito il voto possiamo dire a grandi linee che la distinzione è abbastanza netta, Biden vince nei centri con più di 2 milioni di abitanti anche negli Stati che sono storici bastioni elettorali repubblicani, mentre Trump vince nei piccoli centri e nelle campagne, oltre che nelle zone periferiche (suburbs) o “per-urbane” (exurbs), anche negli Stati in cui vincono i democratici. Questo quadro ci fornisce in qualche modo la natura del voto a Trump, ovvero di una prevalenza del ceto medio agricolo e industriale. Pertanto quello che vogliamo cercare di denunciare sono i meccanismi perversi del modo di produzione capitalistico che in quell’area, in modo particolare, si sono riprodotti nel corso dei decenni. Ed è “naturale”, per esempio, che se è alto il costo della vita in un’area, è oltremodo caro il costo della ospedalizzazione, è caro il costo dei farmaci, costano tanto gli onorari dei medici e via di questo passo. E proprio per spiegare il meccanismo oggettivo e impersonale citiamo l’esempio dei medici, che sono molto più costosi di quelli europei perché, laureandosi spesso con un grosso debito di studio da ripagare, devono mettere in ogni parcella anche un pezzetto della rata del loro «mutuo sanitario». Vale per i medici come per altre professioni. Sicché per il ceto medio, in modo particolare quello produttivo, riuscire a sopravvivere come impresa, in questa fase, è molto complicato, vista l’agguerrita concorrenza internazionale delle merci, in modo particolare di quelle cinesi contro cui si scaglia l’ira di Trump.

Ora, mentre per noi che non abbiamo un piede in due staffe, non si pone il problema di schierarci o di fare il tifo per l’uno o l’altro candidato, per le potenze economiche europee il problema si pone eccome. Tanto è vero che il signor Panebianco invita a essere cauti su certi atteggiamenti (salviniani e non solo) quando scrive: «Ma la domanda allora diventa: il declino americano, l’obsolescenza della Nato, eccetera, possono avvenire senza che, qui da noi in Europa, l’ordine liberale ne risenta? Davvero qualcuno crede che l’Unione europea possa, in tempi brevi, sostituirsi agli Stati Uniti, diventare un baluardo forte e indipendente di quell’ordine liberale fino a poco tempo addietro puntellato dalla potenza americana? Forse un Biden alla Casa Bianca non sarebbe capace di ricucire i rapporti con gli europei, di ridare forza e slancio all’ordine liberale occidentale. È possibile. Ma quella che con Biden è una possibilità, diventa una certezza in caso di rielezione di Trump. Non dovrebbe essere difficile capire che cosa convenga agli europei». Il riferimento è a potentati europei che guardano con un occhio benevolo alla Russia, ricca di materie prime.

Dunque, se la Nato ci difende contro la Russia, da tenere a bada perché ricca – ripetiamo - di materie prime, cosa accadrebbe in caso di un disimpegno da parte degli Usa? Ecco cosa intendono lor signori per libertà e democrazia in modo particolare se a spese degli altri.

Ma il punto è proprio questo: l’establishment degli Usa saranno costretti ad agire non secondo una propria volontà e ancor meno secondo gli interessi e la volontà degli europei, ma secondo necessità dettate dalla crisi, una crisi che Massimo Gaggi, non un comunista estremista, ha ben sintetizzato, nel suo libro edito a maggio di quest’anno, con il titolo Crack America.

E che si tratti di un crack è dimostrato da una spaccatura degli elettori in due metà. Il dato è impressionante non per il fatto in sé, cioè che hanno votato circa 150 milioni di persone in due tronconi, ma che si tratta della prima volta che vota un numero così alto e in questo modo. Altrimenti detto: serpeggia nella società un senso di preoccupazione molto diffuso e non soltanto in alcuni strati poveri e minoritari, ma a vario titolo e a vari livelli si percepisce il fatto che la crisi economica, aggravata oltre modo dal coronavirus non rispetta nessuno. Certamente saranno falcidiate le fasce più deboli della popolazione e gli anziani, ma comunque è diffusa la preoccupazione, perlomeno degli elettori che hanno votato per il candidato democratico, che il pericolo è generale. Il fatto che esso viene sottovalutato da una parte minoritaria quanto si vuole, ma importante, come i circa 70 milioni che hanno votato per Trump, dimostra che le necessità di resistenza economiche nella crisi prevalgono su quelle del rischio dell’epidemia. Dunque siamo in presenza di uno straordinario caos sociale con risvolti istituzionali e politici difficilmente ricomponibili.

E proprio sulle elezioni vogliamo appuntare la nostra attenzione perché in esse, cioè sulle modalità in cui si sono svolte, è necessario una breve riflessione e cioè: non è la stessa cosa – sul piano formale – recarsi al seggio e votare oppure spedire il proprio voto attraverso l’ufficio postale. Un fattore, questo, sul quale Trump, al di là dell’aspetto strumentale e formale, su frode e altre simili stupidaggini, pone un problema che è politico, di non secondaria importanza e da non sottovalutare, perché è l’arma su cui si giocheranno nei prossimi anni i rapporti di forza fra le varie categorie sociali o classi se si preferisce.

Cerchiamo di chiarire meglio il nostro concetto. Per rendere bene l’idea ci rifacciamo a qualche esempio degli anni ’50, ’60, ’70 del secolo scorso in Italia, quando il Partito Comunista Italiano faceva in modo che il suo simbolo comparisse come primo, in alto a sinistra della scheda. Non solo, ma che i suoi scrutatori esercitassero con il massimo impegno il lavoro nei seggi e che i rappresentanti di lista fossero ben presenti nel seggio e sguinzagliati intorno all’edificio dove si votava per recuperare eventuali indecisi. Si trattava di un lavoro capillare cui i militanti ben volentieri si prestavano ed era una vera e propria battaglia per accaparrarsi ogni singolo voto. Altri tempi, si dirà, si, è vero. Ma l’appello di Trump a prendere in considerazione solo i voti ai seggi e non quelli inviati per posta stanno a indicare una condotta politica, relativamente al voto – di altre questioni ne parliamo a parte – di un comportamento più attivo, piuttosto che pigramente passivo, di sfidare cioè anche la pandemia e presentarsi al seggio per votare piuttosto che inviare per posta il proprio voto. Come dire che non è più tempo di nascondersi, e che lo stesso voto ha un valore in sé solo se espresso in un certo modo.

Ma Trump è andato oltre, e così affrontiamo la questione che sposta in avanti la riflessione e con complicazioni ulteriori, perché ha invitato a bloccare lo spoglio delle schede postali attraverso un’azione di massa del “suo” popolo, che non c’è stata. Un tentativo che è stato ostacolato dalla polizia quando alcune squadre si sono presentate a qualche seggio per tentare un’azione di forza, ma è stata anche snobbata da ambienti repubblicani più cauti del cervellotico presidente uscente.

Dal che piuttosto che trarre la lezione che in fondo si è trattato di un esasperato tentativo di un cervellotico personaggio che non si arrende alla sconfitta e a uscire dalla Casa Bianca, dobbiamo registrare la cosa come rabbia di ceti sociali, in modo particolare del ceto medio produttivo, i quali percepiscono che in questa crisi i poteri forti, l’alta finanza, le banche e la grande industria, utilizzando una presidenza democratica, faranno pagare un alto costo ai propri elettori.

Come dire: i voti postali sono di soggetti e categorie che ci perdono poco o non ci perdono per niente, mentre noi rischiamo il fallimento. Un grido di esasperazione che Trump ha cercato di raccogliere ma che alla prova dei fatti ha dovuto prendere atto - ma non fino in fondo – che gli strati sociali che lo hanno sostenuto nella campagna elettorale e lo hanno votato non stanno però sul terreno di una guerra civile contro i poteri forti, e che le stesse squadre armate dei bianchi al cospetto di una mobilitazione prima delle elezioni di centinaia di migliaia di persone contro il razzismo e ben 75 milioni di voti nelle urne sono difficili da sfidare da parte di gruppi armati fino ai denti finché si vuole, ma comunque di gruppi e sparute minoranze, che possono essere utilizzati come minaccia, come ipotizzava Trump, ma di fronte a masse sterminate, devono cedere il passo. Ricordiamo – en passant - che nelle rivoluzioni le armi in genere vengono usate poco, anzi molto poco, per tutte possiamo citare la rivoluzione iraniana del 1979 o andando più indietro quella dell’ottobre 1917 in Russia.

Tra l’altro non siamo noi a scoprire il dramma del ceto medio americano, e a seguire di quello europeo, perché in La tirannia della meritocrazia di H. M. Sandel, edito negli Usa (e recensito in Italia dal premio Nobel Angus Deatone e da Ann Case al festival dell’economia di Trento) vengono sottolineati come gli effetti della meritocrazia, incorporata nelle leggi del modo di produzione capitalistico, per l’accresciuta concorrenza di merci e mercati finanziari, hanno prodotto un disastroso vuoto verso l’alto da parte di settori sempre più ricchi e settori intermedi sempre più impoveriti, frustandoli e deprimendoli a tal punto che centinaia di migliaia di americani, soprattutto bianchi muoiono di alcolismo, abuso di antidolorifici e oppiacei e di suicidi. Sicché il trumpismo è l’altra faccia della stessa medaglia che reagisce in modo rabbioso e scomposto piuttosto che abbandonarsi e lasciarsi andare. Nessuna meraviglia perciò se in un mare magnum di malessere generalizzato c’è chi avverte che “l’America bianca sta morendo” e si organizza in gruppi paramilitari dalle più stravaganti ideologie primatiste e razziste. Quindici o ventimila miliziani in 50 Stati su una popolazione di oltre 320 milioni di abitanti son ben poca cosa anche perché non c’è nessuna certezza che questi gruppi rappresentino il braccio armato del malessere del ceto medio come magari Trump si sarebbe augurato. La storia insegna che certi gruppi proprio per le ragioni da cui nascono non sono facilmente inquadrabili in una logica organica, in un progetto, in un programma ecc.

Spostare perciò l’asse della riflessione su quest’aspetto, da parte di commentatori interessati nel vecchio continente, è un diversivo per non voler affrontare i veri problemi della crisi degli Usa di cui questi gruppi rappresentano solo un dettaglio, criminale quanto si vuole, di fattori ben più complessi e preoccupanti per un potere che sente franare il terreno sotto i piedi. E che la presenza di questi gruppi rappresenti un aspetto marginale lo si è potuto verificare proprio durante gli ultimi mesi con le mobilitazioni antirazziste per l’uccisione di George Floyd, che con un presidente a proprio favore non sono stati in grado di bloccare le mobilitazioni, che - a parte qualche episodio - sono rifluite per tutt’altre ragioni e non sconfitte dalle squadre bianche dei suprematisti.

In altre parti abbiamo scritto che il ceto medio di questa fase storica rappresenta una variabile impazzita e per certi aspetti incontrollabile. In questi quattro anni c’è stato un assaggio, altri seguiranno, tanto negli Usa quanto nella stessa Europa e qualche accenno lo abbiamo già avuto in Francia, Spagna, Italia e Grecia. Di sicuro ci sentiamo di dire che i 70 e passa milioni che hanno votato Trump, proprio per le caratteristiche da cui nascono e le necessità che esprimono sono destinati a scomporsi, perché è un insieme composito di categorie e ceti sociali con interessi anche contrapposti che non potranno più ritrovarsi sotto le bandiere unificanti del trumpismo. Ma la sconfitta di Trump non vuol dire che è morto il trumpismo; e proprio la resistenza del personaggio a non voler abbandonare la Casa Bianca e che incita addirittura alla mobilitazione di piazza, sta a indicare che la contraddizione di categorie allevate negli anni floridi dell’imperialismo americano (e occidentale) sono diventate un boomerang. Altrimenti detto: il modo di produzione capitalistico ha allevato una serpe in seno.

Allo stesso modo diciamo che la vittoria di Biden, in qualche modo mutilata al senato, che ha messo insieme ben 75 milioni di voti, deve fare i conti con un’economia in crisi che diventa sempre più crisi sociale e aggravata dalla pandemia e da una concorrenza spietata da parte dei paesi emergenti, con una Cina proiettata a giocare sempre di più un ruolo di primo piano nell’insieme del modo di produzione capitalistico con un ruolo non secondario in un’area importantissima per accaparrarsi le materie prime come l’Africa. Insomma non esistono scorciatoie, la coperta è corta e tende ad accorciarsi sempre di più.

Certo, sul nome di Biden si sono coagulate tutte le forze democratiche e di sinistra in un fronte comune per battere e scongiurare il pericolo rappresentato da Trump, ma i nodi stanno venendo al pettine ancor prima che il nuovo presidente presti giuramento, perché i settori che in qualche modo sono stati presenti in piazza nella lotta contro il razzismo di questi mesi cominciano a presentare il conto; e sarà un conto salato, molto salato. Così mentre il neo presidente si appella ai conservatori per riportare serenità nel paese, Ocasio-Cortez suona l’allarme: «Se pensiamo di fare politica nel 2020 coi programmi e la propaganda del 2005 è finita».

Ecco perché diciamo che si tratta di due blocchi compositi destinati entrambi a scomporsi e dai presagi poco rassicuranti per i difensori dell’attuale modo di produzione.

Pertanto se momentaneamente sembra essere passata la paura con la sconfitta di Trump l’insieme del mondo che ha votato Biden sarà presto destato dalla realtà che non è e non può essere quella che cercano di raccontare i neoeletti presidente e la sua vice.

Si aprono perciò scenari impensabili fino a qualche anno fa, e suggeriscono di guardare con fiducia a quanti si richiamano all’anticapitalismo conseguente, perché nella crisi catastrofica di un modo di produzione che non è più in grado di produrre valore e di riprodursi come sistema sociale, i valori del comunismo si potranno ergere finalmente come l’araba fenice dalle macerie capitalistiche.

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giorgio
Thursday, 19 November 2020 21:17
Ne hanne fatta la prima travestendola da lotta per l'indipendenza ma erano della stessa razza e lingua quindi era solo una lotta fra classi, la borghese e la aristocratica.
Ne hanno fatta una seconda dopo 100 anni per motivi ancora economici e di classe fra capitaisti e rentiers e perchè non potrebbero farne una terza dopo altri 150 anni sempre per gli stessi motivi economici ?Non è questo il sistema americano pee la lotta di classe interna alla loro società? Eil mondo soffrirebbe o se ne libererebbe?
E' una ipotesi o una speranza
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AlsOb
Saturday, 14 November 2020 20:57
Prendendo sommariamente spunto dall'articolo, che su certe tematiche tende a scivolare verso convenzioni, vi sono alcune brevi note da aggiungersi.
Gli Stati Uniti sono l'impero, perciò il tipo di politica che perseguono è vitalmente funzionale al potere economico e capitalismo avanzato odierno basato sull'imperialismo.
Delle duemila maggiori multinazionalj al mondo, 587 sono americane e generano un fatturato di 13,6 bilioni di dollari. Tutta l'Europa messa insieme ne conta solo 296, il cui fatturato è di 7 bilioni di dollari. La Cina ne comprende 266 per un fatturato di 6 bilioni di dollari.
Appare conseguente e evidente che l'imperialismo del dollaro e l'arbitraggio salariale a livello globale praticati da decenni, nonostante generino un surplus e una rendita imperiale che in qualche modo ricadono su tutta la popolazione, hanno provocato sensibili sconvolgimenti e polarizzazioni sociali, che hanno motivato il notevole successo politico di un personaggio privo di cultura e tanto istrionico quanto opportunista come il potus D. Trump. Dagli anni 70 a oggi lo 0,1 per cento della popolazione è passato a detenere il 20 per cento della ricchezza totale contro il precedente 7 per cento.
Data la struttura di potere che si è delineata e che dopo il 2007-08, con il definitivo passaggio al capitalismo del capitale e moneta fittizi, si è ulteriormente riplasmata con la fusione operativa di Tesoro e Banca Centrale e la solidificazione di un robusto corporativismo di stile fascista, (si pensi tra gli altri al ruolo di BlackRock agente della FED), Donald Trump è apparso immediatamente come il virus sorto dalla moltitudine disorientata delle classi inferiori, ma totalmente estraneo al sistema di potere imperialistico. Pertanto dopo lo sbandamento per la sorpresa è stato velocemente eliminato con una votazione nella quale non aveva la minima chance di vincere, anche nel caso in cui l'oppositore scelto fosse stato un cadavere vero.
Sia la sinistra ufficiale che il confuso minuscolo marasma della sedicente tale, in generale a priori ostili a Lenin, Stalin e Mao Zedong e tendenti a qualificarsi come sinistra più su aspetti folcloristici e di marketing che sostanziali, sulla base del sentimentalismo e di una percezione di scampato pericolo, hanno celebrato la scontata sconfitta del virus Trump e il buon lavoro dello stato corporativo fascista nel far vincere il candidato affidabile e ovviamente politically correct. Come un qualunque partito fascista.
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Mario M
Saturday, 14 November 2020 12:46
Maurizio Blondet, Cesare Sacchetti e Fulvio Grimaldi, nei loro siti/blog, forniscono dettagli dei brogli elettorali che i democratici hanno architettato. In effetti Trump, mesi prima delle elezioni, aveva avvertito che il voto per posta poteva essere soggetto a manomissioni. Il Covid, a ben vedere, si è prestato a un doppio uso, per far collassare l'economia e costringere le persone a stare a casa. Trump cerca di combattere l'enormità della menzogna del covid, mentre il fantoccio Biden la cavalca. Tra l'altro il democratico è pure un essere lascivo, un pedofilo della peggior specie, beccato a carezzare in modo osceno giovinette e bambine.
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