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jacobin

La cancellazione del nemico

di Giancarlo Ghigi

Le campagne russofobe non hanno nulla a che fare con l'anticolonialismo. Perché nessuno potrà rimuovere il passato delle storie intrecciate di Russia e Ucraina senza smarrire sé stesso. E scoprirsi vinto

russia jacobin italia 1536x560Autocrate maligno!
Te, il tuo trono disprezzo,[…]
Sulla fronte tua si legge
della condanna del popolo il sigillo.
Tu, orrore del mondo, della natura
vergogna, d’esser Dio in terra è l’accusa.
Libertà – Aleksandr Seergevič Puškin,1817

«Zio Vasya» sembra quasi uno scemo di guerra seduto lì a terra, così. Pare intontito davanti a quel piccolo fuoco improvvisato tra gli scheletri di metallo arrugginiti. Il suo sguardo si è perso, è stato rapito dalle piccole fiamme che avvolgono le bruciature nerastre che appannano il fondo d’una caffettiera di rame. Indossa un vecchio colbacco con la stella rossa, ha come arma solo un vecchio e pesante fucile di cinquant’anni fa. Zio Vasya assedia con gli altri miliziani della Repubblica Popolare di Doneck le rinomate officine dell’Azovstal che sono ancora occupate dagli ultimi soldati e paramilitari di Kiev, laggiù, tra le rovine dei sobborghi di Mariupol. Chiede al corrispondente occidentale che gli passa accanto se vuole bere della vodka con lui, ma il giornalista resta interdetto, sa che gli alcolici sono severamente proibiti nelle zone di combattimento. «Zio Vasya può bere», gli confermano gli altri. Quell’anziano di Kostantinovka infatti ha saputo solo ieri che suo figlio, il figlio che non vede da sette anni, è lì dentro, sta con quelli di Azov, sta proprio con i nemici che lui e gli altri stanno assediando ai cancelli della fabbrica. Così quel padre non ci capisce più niente. Sta da solo, seduto su una cassa di munizioni, fissa inebetito il fondo bruciato d’una caffettiera, niente sarà mai più come prima.

Qui da noi, lì da loro, i secoli brevi d’una guerra durano settimane. Affaccendati nelle nostre cose quotidiane, immersi in questo dramma lontano che pur ci attraversa, talvolta rialziamo lo sguardo distratto e scopriamo che il cartellone pubblicitario delle Nike stanotte è stato soppiantato da un cartello che invita a cancellare il nemico. Rimane lo sbigottimento, poi tiriamo dritto verso il lavoro, i gesti soliti, il solito zaino con il solito thermos per la tisana. Ma cosa è successo in questi pochi giorni? Non lì, qui, anzi: cosa è successo ovunque?

Nella fantascienza distopica di 1984 di George Orwell il cambio di schieramento della nazione si capiva da un sottotesto di telegiornale. Una voce metallica informava i prolet che da quel giorno sarebbe stato un altro il nemico contro cui scatenare l’odio quotidiano, anzi, che era sempre stato quello il nemico. Antonio Gramsci aveva sintetizzato questa cosa con lo stile asciutto che gli era solito: «Lo Stato quando vuole iniziare un’azione poco popolare, crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata». Poco da aggiungere. I sondaggi di questi ultimi due mesi ci raccontano di un’Italia popolare contraria alla fornitura di armi all’Ucraina e di uno Stato che invece in tutte le sue propaggini democratiche si esprime in modo praticamente unanime a favore. I telegiornali colmano il resto. Gramsci aggiungeva che affinché l’opinione pubblica venga irregimentata si rende necessario che «una sola forza modelli la opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discorsi in un pulviscolo individuale e disorganico». A quest’ultima funzione social-dispersiva rispondono i moderni talk show. L’intero mondo dell’infotainment pare costruito proprio per disperdere i fatti in un pulviscolo disorganico di opinioni senza alcun radicamento con la realtà.

Tornando a noi, eccoci alzare lo sguardo un pomeriggio di fine aprile e stupirci che al posto della Nike ora ci sia un cartellone pubblicitario 70×100 che – con lessico incerto – ci spiega che «la cultura russa» va cancellata. Abituati al rispetto d’ogni cultura da settant’anni di retorica democratica e internazionalismo-soft di stampo europeista abbiamo qualcosa di più che un momento di disorientamento. Seguiamo il QR code dei manifesti e approdiamo a un sito internet molto stiloso che promuove questa campagna di comunicazione. Vi troviamo un’intera collezione di futuristici manifesti calcati – ironia della sorte – proprio sullo stile dell’avanguardia russa che invitano i lettori alla ristampa in prima persona e all’affissione clandestina. Questi i testi:

«NON C’È CULTURA RUSSA SENZA CARRI ARMATI RUSSI. È ora di cancellare entrambi». «NON C’È LA RUSSIA, SOLO LA STESSA MALEDETTA MOSCOVIA». «I loro libri, l’arte, la musica, il balletto, l’intera loro ‘cultura’ sono solo un mezzo per raggiungere un fine. Smetti di affascinare la loro cultura [sic]: ogni Dostoevskij è seguito da una pioggia di missili». «Sposta, invece, la tua attenzione sulla cultura ucraina!». «Non collaborare con nessuna istituzione di questo stato terrorista, anche se rivendica la sua opposizione al ‘regime di Putin’. E per finire il più inquietante di tutti gli slogan: «Cultura -> Identità -> Nazione -> Stato -> Aggressione […] I russi dovrebbero vergognarsi di appartenere a quella nazione […] È tempo di tagliar via l’ancora della loro ‘grandezza’».

Un annichilimento culturale del nemico che non sottace l’ambizione di negarne la cultura per intaccarne l’identità, giungendo così a incrinare la tenuta statuale stessa del nemico. Dichiarazioni che non possono non ricordarci quale sia il limite posto nel nostro paese alla libera espressione delle opinioni allo scopo di evitare conflitti etnici e nazionali, pogrom. Ma non è tanto questo il punto. Uno degli articoli di riferimento di questo portale per l’annichilimento culturale russo si apre con l’immagine di un ritratto del giovane Puškin depositato a fianco di un cassonetto. Ecco che se Dostoevsky diviene un missile, se Solženicyn è solo un volgare kapò di Gulag, quell’aristocratico poeta non può che ricordarci l’arma atomica dell’orso russo. Nulla, nemmeno il dissidente più radicale sfugge alla delirante cancellazione del nemico. Ogni Marx o Einstein divengono in questa iperbole alibi all’imperialismo nazista, ogni Beethoven è solo una Leni Riefenstahl di regime. Ogni Chomsky o Luther King, ogni Lou Reed o Lady Gaga ab origine sono solo delle semplici foglie di fico al complesso militare industriale statunitense, artefici in seconda linea del suo imperialismo. Iperboli appunto.

È naturalmente pura russofobia, nella sua forma più distillata, non diversa da ogni altra forma di discriminazione su base etnico-nazionale o razziale. Una forma di suprematismo per negazione che arriva a teorizzare una volgare «cancellazione di entrambe» cultura e impero. Un rogo dei libri. Una provocazione? Difficile dirlo. Nemmeno Frantz Fanon nelle pagine più infiammate del suo «dannati della terra» arrivò a immaginare una cancellazione del nemico, nemmeno i sopravvissuti allo sterminio teorizzarono la cancellazione della cultura del popolo tedesco. Anzi. In ogni percorso di liberazione dal giogo coloniale la cultura del nemico appare componente imprescindibile dell’emancipazione nel suo superamento, appare innervata di contraddizioni lungo le cui dorsali si trovano tanto i problemi quanto le soluzioni. Come scrive lo stesso Fanon: «Tutti gli elementi d’una soluzione ai grandi problemi dell’umanità sono, in momenti diversi, esistiti nel pensiero dell’Europa».

No, questa sorta di ostracismo culturale non ha radici nelle lotte anticoloniali, le ha piuttosto – e chiaramente – nell’oscurantismo, nella mentalità totalitaria, nel fascismo. La «cancel-culture» nazionalista appare per quello che tragicamente è: una reazione palesemente speculare alla logica distruttiva a cui teoricamente si oppone, mera reazione passivo-aggressiva alla sopraffazione. È insomma una parte del problema, non della soluzione.

Si potrebbe così pensare che quelli di cancelrussia.info siano semplicemente dei fanatici. Persone che hanno confuso Putin con Puškin e che gettano per semplificazione entrambi oltre allo steccato, oltre la cortina di ferro. Ma poi si scopre che i supporter e i designer del sito sono studi grafici di spessore (3Z Studio), la comunità degli artisti del Museum of Contemporary Art (Moca), i co-curatori del padiglione ucraino della Biennale di Venezia del progetto naked room, e infine lo stesso Pavlo Makov, artista di spicco del padiglione Ucraina. Un mondo della cultura Ucraina che nega ogni dignità alla cultura del Nemico e ne invoca la cancellazione.

Come se quel popolo poi sparisse, come se le famiglie miste non esistessero, come se non ci fosse, come ormai tutti sappiamo, anche un problema aperto con il «nemico interno» in quel paese. Ed è qui che la questione si fa più complessa e meritevole di una riflessione. Non si può infatti, leggendo questi proclami, questo invito alla rimozione, soprassedere sulla presenza in Ucraina di una questione nazionale, di una cospicua minoranza russofona (spesso composta dalla classe operaia del sud est del paese) che ha trovato nelle ultime elezioni (2019) espressione di voto nella Piattaforma di Opposizione – Vita. Per capire quanto sia ampio questo solco, profonda questa frattura da guerra civile, credo sia sufficiente guardare alla mappa di quei risultati elettorali. In quella mappa si ravvede quanto sia forte la sovrapposizione tra la componente russofona ucraina e il sostegno nelle elezioni politiche a questo partito che ne è di fatto divenuto la rappresentanza parlamentare nonostante il 12% dell’elettorato complessivo (la Crimea e il Donbass) non abbia partecipato al voto data la secessione/annessione russa. Piattaforma di Opposizione – Vita è un partito ampiamente maggioritario negli oblast dell’est e appare elettoralmente speculare al blocco oltranzista-occidentale Patria dell’ex premier ucraina Julija Tymošenko.

Forse è bene a questo punto anche ricordare che il maggiore esponente della Piattaforma di Opposizione, il deputato-oligarca Viktor Medvedčuk, è stato recentemente arrestato ed esposto in manette alla gogna mediatica dallo stesso Zelensky perchè indicato dai servizi segreti statunitensi come papabile presidente fantoccio che i russi avrebbero installato in caso di fuga del governo legittimo. Ma è la stessa agibilità politica delle opposizioni in questi ultimi anni a essere dapprima messa in discussione e oggi a risultare del tutto sospesa. In Ucraina vige dal 24 febbraio infatti una forma di «democrazia di guerra» che rispecchia non tanto e non solo le conseguenze dell’occupazione militare quanto le fratture socioculturali del paese. Le attività di 11 partiti di opposizione sono state «bloccate» sine-die dalla presidenza del consiglio, e questo provvedimento va solo a completare la chiusura (avvenuta nel 2021) di 3 tra i principali canali televisivi del paese (che contavano complessivamente 1.500 dipendenti), fatto quest’ultimo che provocò una dura reprimenda all’Ucraina dall’ordine europeo dei giornalisti. Il 19 marzo infine, e sempre per decreto presidenziale, tutte le emittenti nazionali risultano accorpate in un’unica rete informativa posta sotto controllo governativo. Tutto sembra riecheggiare quel monito e avvertimento di Gramsci sul consolidarsi di «una sola forza [che] modelli la opinione», questi sono oggettivamente i caratteri di una legge marziale che migra pericolosamente nel golpe bianco. Come sappiamo la negazione di questa frattura da guerra civile interna viene inoltre pericolosamente strumentalizzata dai blocchi imperiali contrapposti sul suolo d’Ucraina, ed è giusto questo l’alibi manipolato ad arte dall’imperialismo russo per giustificare (anche nel proprio paese) l’invasione dell’Ucraina.

È grande perciò la responsabilità di chi oggi – proprio dal mondo della cultura – invita alla rimozione della cultura del nemico, ivi compresa quella del nemico oppositore esterno e del nemico «collaborazionista» interno. È grave che costoro siano – agli occhi del mondo – la voce pubblica, i rappresentanti culturali di un popolo oppresso da un’occupazione militare imperialista, e che lo siano proprio in un’esposizione internazionale che per sua natura e vocazione lavora alla costruzione di ponti tra le culture e non al sabotaggio revanchista d’ogni dialogo. È grave e intollerabile questo invito al cassonetto per Puškin, versione edulcorata d’un rogo dei libri.

Resta, lontanissimo, sulle macerie fumanti di un’acciaieria dal passato glorioso «Zio Vasya». È la maschera d’un uomo che attende di sapere se vincerà contro suo figlio (perdendo così ogni speranza) o se perderà ugualmente la speranza vedendo quel suo figlio smarrito vincere la sua sfida. Attende confuso sulla porta dell’Azovstal come qualcuno che aspetti una parte di sé fuggire dal suo stesso assedio. Quello sguardo smarrito ha forse capito per primo che in nessun luogo, mai, quella rimozione è possibile. Intorno a lui storia, tradizioni, culture e lingue frammentano già verso un futuro che sarà inevitabilmente sradicato. Nessuno potrà troncare un passato intrecciato senza perdersi, nessuno potrà strappare l’unico abito per vivere altrove. E così, checchè ne pensino i funerei cantori di impossibili vittorie, questa guerra non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. E anche alla fine dell’ultima c’erano solo dei vinti.


*Ghigi, laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Padova, è libero professionista nel settore della comunicazione e attivista nella tutela dei beni comuni. Ha collaborato con Pearson, Il Mulino, Inchiesta, Stati Generali, Il granello di Sabbia

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