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L’opposizione possibile tra terza via ed economia di guerra

di Fulvio Bellini

IMG 20220526 215241Premessa: la terza via è ancora possibile?

Come è stato correttamente notato, più passano le settimane di conflitto in Ucraina e maggiori dubbi crescono tra gli osservatori, e si spera nell’opinione pubblica, rispetto al suo reale significato. Per essere maggiormente chiari, trascorrono le settimane e si evidenziano le crepe nell’affresco dipinto dalla propaganda di regime rispetto all’operazione militare speciale. Ad esempio, sorge il dubbio che la Russia volesse effettivamente quello che aveva dichiarato: intervenire in Ucraina a difesa delle repubbliche di Lugansk e Donetsk; oppure che il Presidente Zelensky è quello che è: un attore che recita copioni scritti a Washington; oppure ancora che nella resistenza ad oltranza nell’acciaieria Azovstal a Mariupol del battaglione nazista Azov c’è qualcosa che non torna: “Il caso degli istruttori NATO a Mariupol che imbarazza l’Occidente” scrive l’Antidiplomatico del 6 Aprile scorso; ed infine la durata del conflitto in Ucraina che non dipende solo da Mosca ma altrettanto da Washington aprendo innumerevoli scenari che vedono l’Ucraina solo come pretesto per altro.

La crisi ucraina funge anche da acceleratore e chiarificatore dei rapporti politici tra Stati ufficialmente non belligeranti e all’interno degli stessi, tra le forze politiche a favore della guerra (sostanzialmente tutte) e le forze sociali contrarie (molto più numerose di quello che si pensi). In altre parole sorge sempre più prepotente la necessità di fare opposizione alla politica dettata dagli Stati Uniti e applicata con stretta osservanza in Europa da Gauleiter quali Ursula von der Layen, Mario Draghi, Olaf Scholz e la schiera degli oscuri leader dell’Est europeo.

Quale tipo di opposizione si sta profilando, ad esempio in Italia dove propaganda e censura applicata dai mass media rendono gli spazi del confronto pubblico ridotti al lumicino, secondo la nota regola di accusare il nemico russo di censurare e distorcere le informazioni, quando l’accusatore pratica quotidianamente la stessa cosa in casa propria. Deragliato miseramente il 25 aprile, e con lui le velleità della cosiddetta sinistra, manifestazione presidiata dalle bandiere NATO, dal PD di Enrico Letta e da Beppe Sala, cioè dai sostenitori degli aiuti militari a Kiev ad oltranza, che hanno avuto almeno il merito di schierarsi apertamente col padrone americano, restano solo le manifestazioni d’ispirazione cattolica come la marcia della pace di Assisi del 24 aprile, adottando slogan del tipo: “Fermatevi, la guerra è una follia”. La linea politica è stata spiegata da uno degli organizzatori della marcia, Flavio Lotti: “Abbiamo bisogno che dal basso cresca un movimento per evitare l’escalation della guerra e altre stragi come quelle delle quali veniamo a sapere ogni giorno. C’è un’onda d’urto della guerra che rischia di mettere tantissime persone in grande sofferenza. La PerugiAssisi sarà quindi la marcia delle persone che si vogliono prendere cura le une delle altre”.

Questo genere d’opposizione rientra nell’alveo di una tradizione di pacifismo che cerca di creare uno spazio politico terzo, di criticare il conflitto, condannando unitariamente la guerra e i contendenti che la stanno facendo: nel caso specifico no alla guerra in Ucraina, conferma della condanna della Russia come aggressore, ma contemporanea disapprovazione della politica occidentale di sostegno militare al regime di Kiev, che, ricordiamolo, non è costituito solo dall’invio di armi sempre più “offensive”, ma di un incredibile fiume di denaro che ovviamente serve per pagare anche le numerose truppe mercenarie al soldo di Zelensky. Poniamoci ora la seguente domanda: un’opposizione “né con la Russia né con gli USA” ha ancora uno spazio politico oggi? Un recente fatto sembra negarlo, mi riferisco alle richieste di Finlandia e Svezia di aderire alla NATO. Fa impressione soprattutto l’istanza della Finlandia, per motivi “politici immediati” e per motivi di “filosofia della politica” da un certo punto di vista ancora più importante. Vediamo quelli immediati. La richiesta del primo ministro Sanna Marin rompe con una saggia politica neutrale che vige fin dal 1948 e che ha permesso alla Finlandia di prosperare economicamente, ad esempio, grazie alle ricche commesse cantieristiche che provenivano dall’URSS prima e dalla Russia poi.

A causa della grave decisione della premier finlandese, gli Stati Uniti potrebbero dislocare le proprie forze armate, e quelle degli eserciti ausiliari della NATO, lungo 1.340 chilometri di confine, e di schierare le proprie navi sulla sponda opposta del Golfo di Finlandia, davanti a San Pietroburgo. Risulta evidente che la Finlandia nella NATO rappresenterebbe lo stesso identico pericolo per la sicurezza nazionale russa dell’ingresso dell’Ucraina nell’alleanza atlantica, ma anche la sicurezza nazionale finlandese risulterebbe maggiormente in pericolo dentro la NATO rispetto all’attuale posizione neutrale, come giustamente ha fatto notare il viceministro degli Esteri russo Serghei Ryabkov: l’adesione alla NATO di Helsinki è “un errore con conseguenze di vasta portata… Il livello generale delle tensioni militari aumenterà e ci sarà meno prevedibilità in questo settore. È un peccato che il buon senso sia sacrificato a una fantomatica idea di ciò che dovrebbe essere fatto nelle circostanze attuali… Ebbene, questo è il livello di coloro che prendono le rispettive decisioni nei rispettivi Paesi” ci riferisce l’ANSA del 16 maggio. Il viceministro russo fa un interessante accenno al “livello di coloro che prendono le rispettive decisioni nei rispettivi Paesi”, ed è un tema che abbiamo ampiamente affrontato quando, in passati articoli, descrivevamo il ruolo da proconsole americano in Italia di Mario Draghi oppure quello di burattino gestito dalla famiglia Biden di Volodymyr Zelensky. Nel caso finlandese, come in quello svedese, siamo di fronte alla tipologia “radical chic” che tanto piace alla sinistra borghese italiana: Sanna Marin, la più giovane premier europea: bella, elegante, social democratica e cresciuta in una famiglia non tradizionale rappresenta la figura del politico ideale per i giornalisti di Radio popolare.

Oppure possiamo ammirare Magdalena Andersson, primo ministro di Svezia, bella anche se meno giovane, altrettanto elegante e sempre componente la famiglia social democratica. Queste due campionesse della sinistra borghese, che certamente ci insegnano cosa siano i diritti e l’eguaglianza (mai quella economica però), stanno attivamente lavorando a favore della famigerata escalation, che a parole la stessa sinistra non vorrebbe. È noto l’insegnamento di Agatha Christie: «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», e se applichiamo questa regola aurea ad Olaf Scholz, Sanna Marin e Magdalena Andersson è difficile non accusare i socialdemocratici europei di essere il vero partito degli “americani” nel Vecchio Continente. Veniamo ora al motivo più importante, di “filosofia della politica”. La Finlandia è sempre stata associata al concetto di neutralità, additata a modello di Stato equidistante e smilitarizzato, tale da ispirare la famosa “Nota di Stalin” del 10 marzo 1952 con la quale il reale vincitore della seconda guerra mondiale in Europa proponeva alle potenze occidentali il mutuo disimpegno in modo che la nuova Germania riunificata fosse neutrale e smilitarizzata: la cosiddetta “finlandizzazione” della Germania, e che a fronte del rifiuto occidentale di questa proposta che si determinò la divisione definitiva nelle repubbliche federale e democratica durata fino al 1990.

Nei decenni della cosiddetta guerra fredda, il concetto di finlandizzazione, applicato ad esempio anche all’Austria, si era evoluto nella più ampia idea di Paese non allineato. In quegli anni, per un Paese non era necessario schierarsi dalla parte degli Stati Uniti oppure dell’Unione sovietica, si poteva scegliere di non scegliere. Nella Jugoslavia di Tito, dal 1 al 6 settembre 1961, 25 nazioni dichiararono la loro opposizione a colonialismo, imperialismo, e neocolonialismo, e questa organizzazione raggiunse 96 aderenti nel corso degli anni della guerra fredda. I Paesi non allineati contribuirono anche a creare una sorta di “terra di mezzo” tra Stati Uniti ed URSS, nella quale creare una fitta rete di contatti, incontri e confronti tra leader dei Paesi facenti parte dei due blocchi e leader dei Paesi non allineati, rete di rapporti al massimo livello che, ad esempio, Giulio Andreotti, uno dei maggiori punti di riferimento dei Paesi non allineati, ha magistralmente descritto nei suoi appunti di lavoro contenuti nel libro I Diari Segreti dal 1979 al 1989 pubblicato recentemente.

In questi scritti, Andreotti ci descrive un mondo fatto di continui incontri internazionali tra leader europei e mondiali del tutto trasversali rispetto alla cosiddetta cortina di ferro: meeting organizzati dagli eurodeputati della democrazia cristiana, dall’Unione interparlamentare mondiale, dai convegni bilaterali tra la DC italiana e quella tedesca che permetteva rapporti diretti con esponenti del calibro di Helmut Kohl; e lo stesso, ovviamente, si faceva nelle famiglie socialista e comunista. Andreotti aveva costruito una fitta rete di rapporti personali che spaziava da Vernon Walters (ambasciatore USA alle Nazioni Unite e “ufficiale di collegamento” con il presidente Reagan), al presidente siriano Hafiz al-Asad, a tutti i principali esponenti politici europei, del Mediterraneo e del Medio Oriente. Questa fitta rete rappresentava informalmente, il partito “non allineato” che perseguiva la terza via nella contrapposizione tra Est ed Ovest. Rete di rapporti che serviva anche a gestire i colpi di testa della “bestia”, gli Stati Uniti d’America, colpi di testa periodici che si verificavano in tutto il mondo ma in particolare nel Mediterraneo a proposito del dossier relativo alla resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Si va dalla guerra procurata in Libano, al bombardamento delle sedi dell’OLP in giro per il Mediterraneo (Tunisi 1° ottobre 1985) compiuto da Tel Aviv con la benedizione di Washington, il dirottamento della nave da crociera Achille Lauro (ottobre 1985), eccetera.

Oggi quel mondo non esiste più, i suoi protagonisti sono morti in esilio (Craxi ad Hammamet) oppure hanno dovuto subire processi politici (Andreotti tra il 1993 ed il 2003) e poi morti per cause naturali. L’auto liquidazione dell’URSS ha permesso agli americani di fare i conti con tutti: Paesi dell’Est e Paesi dell’Ovest, schierati oppure non allineati. Ed i conti sono stati fatti anche con gli uomini politici che avevano osato perseguire la terza via. Nel caso di Andreotti, ad esempio, il Fatto Quotidiano ha titolato il 24 maggio “Andreotti è vicino ai mafiosi: il rapporto Usa nove mesi prima dell’avviso di garanzia”. Alla luce di quanto abbiamo finora descritto, la missiva americana era un’utile informativa alla magistratura oppure una sorta di ordine di servizio? Tornando ai nostri giorni, non saprei dire se consapevolmente o meno, la richiesta di Sanna Marin di far entrare la Finlandia nella NATO a mio avviso ha messo una definitiva pietra tombale sulla possibilità di creare un luogo terzo, non allineato, tra Stati Uniti e Russia e tra Stati Uniti e Cina.

 

Se la terza via non è più praticabile con chi schierarsi? Il problema della Russia

La chiesa cattolica sta tentando di creare un luogo politico terzo dove organizzare l’opposizione alla guerra. Si tratta di un tentativo assai difficile perché la Curia romana deve fare i conti con la sua debolezza storica. Nel mondo delle religioni, habitat non secondario per il Vaticano, i cattolici debbono fare i conti con i loro secolari avversari che sono rimasti tali, mentre l’atteggiamento della Chiesa nei loro confronti è dovuto cambiare, scontando l’appoggio agli sconfitti della seconda guerra mondiale, divenuto esplicito durante la prima parte del papato di Pio XII. Se oggi la Curia romana spera di trovare comprensione nelle chiese riformate americane, base ideologica di gran parte della classe dirigente USA, oppure nella destra religiosa ebraica, base ideologica del sionismo internazionale, allora dobbiamo fare tanti auguri alla Santa Sede per il suo futuro, perché ne ha un gran bisogno. Quando questi avversari vogliono ricordare al Vaticano che non sono per nulla diventati amici, viene alla luce uno dei tanti scandali di abusi sessuali da parte di sacerdoti romani, che nessuno nega, ma ci si chiede se tali pratiche siano un’esclusiva dei preti cattolici. Quando questi temibili avversari capiranno che per la Curia romana sta per suonare la campana, allora si scopriranno questi abusi anche in Italia. In altre parole, allo stato attuale la Chiesa romana non ha la forza per creare un luogo politico terzo; se pensa di rivolgersi al PD di Enrico Letta, oppure alla Lega o a Fratelli d’Italia si assume un rischio politico elevatissimo. Sembra quindi che non vi sia uno spazio politico terzo dove costruire l’opposizione alla guerra. Ci si può allora schierare per uno dei due contendenti? Per chi scrive non vi sono dubbi: la Russia.

Mi rendo però conto che non è affatto sufficiente questa risposta senza affrontare il tema di cosa sia la Russia oggi. Nell’intervista “I diversi destini di PCC e PCI all’ombra della fine dell’URSS” uscita su Cumpanis il 26 ottobre 2021, tra le varie cause della fine del Paese dei soviet, indicavo quella a mio avviso fondamentale: “Era un decennio che gli Stati Uniti usavano contro l’URSS un’arma altrettanto potente di quella nucleare: il dollaro. Da un punto di vista economico, i due “imperi” funzionavano in modo opposto. Quello americano, grazie alla sospensione degli accordi di Bretton Woods, agiva da vero “impero tradizionale” drenando immense risorse dal mondo e dando in cambio solo carta. Il dollaro permetteva agli USA di avere i soldi per i cannoni e per il burro: consentiva loro d’investire cifre crescenti nell’industria bellica e di accordare alla sua popolazione un alto tenore di vita, che pubblicizzava in tutto il mondo tramite Hollywood e la cosiddetta cultura “Pop”, caratterizzata da un edonismo esasperato ma fortemente attrattivo per le masse sia ad Ovest che a Est della cortina di ferro. L’URSS doveva invece mettere proprie risorse per mantenere i Paesi satelliti, e contemporaneamente investire nell’industria bellica sempre più sofisticata e costosa. La Polonia necessitava delle commesse cantieristiche sovietiche, la DDR di quelle di alta tecnologia, la Cecoslovacchia di quelle meccaniche e così via. Nel Comecon vigeva un particolare sistema compensativo che costringeva l’URSS a pagare le importazioni con risorse alimentari, energetiche e sotto forma di beni. E quando Cuba chiamava, l’Etiopia e l’Angola chiedevano aiuti, a Mosca ci si metteva le mani nei capelli. Il confronto tra i due imperi era del tutto improponibile: gli americani avevano già vinto senza bisogno di lanciare i Pershing. I sovietici non potevano reagire adeguatamente semplicemente perché la loro Banca centrale non poteva stampare dollari.

Da questa considerazione discendeva la decisione da parte dei dirigenti politici russi di liquidare l’URSS. Gli anni Novanta sono stati quelli che Francis Fukuyama ha definito “La fine della storia”, e gli otto anni di presidenza di Boris Elstin hanno effettivamente rischiato di essere la fine della storia russa, la quale poteva essere ricacciata indietro di secoli, nel proprio medioevo, fatto tra principati di Moscovia, di Novgorod, di Kiev, dei canati tartari. In quegli anni, infatti, gli Stati Uniti tentarono di puntare alla disgregazione della Russia post sovietica, prima economica tramite il tentativo di dollarizzare Mosca, poi sociale attraverso il brutale smantellamento delle conquiste sovietiche ed infine statuale, secondo i dettami del mai tramontato “piano Parvus”. In quegli anni difficili va inquadrata la scalata al potere di Vladimir Putin nonché la sua modalità di “restaurazione” della Russia, formalmente chiamato da Boris Elstin, ma quanto questa chiamata fosse fortemente sponsorizzata dal “partito del KGB” resta ancora oggi un mistero. In ogni caso la restaurazione putiniana assomiglia molto a quella francese di Luigi XVIII, sovrano che dovette accettare parte dell’eredità sia della rivoluzione francese che dell’era napoleonica: bandiera gigliata davanti agli occhi e codice napoleonico sotto braccio. Putin ha dovuto gestire la voglia di capitalismo tipica degli anni Novanta mitigato dall’eredità di alcune conquiste sovietiche; privatizzazioni sostanzialmente bloccate rispetto all’epoca del predecessore; bandiera zarista accompagnata da quella sovietica (soprattutto il 9 maggio), inno sovietico con parole nuove; spirito patriottico e non nazionalista, impossibile in un Paese dove i russi sono una delle etnie, seppure la principale, in coabitazione con i tartari, gli ukraini, i baschiri, i ceceni e gli armeni. Tuttavia, in questo crogiolo di identità storiche russe: quella zarista, quella sovietica e quella elstiniana, a mio avviso, nelle scelte di fondo del Cremlino prevale ancora quella sovietica, sia per la storia personale di Putin, sia per il profondo segno lasciato dall’epopea rivoluzionaria nella Russia moderna. È un fatto che la Russia diretta da Putin che ha assistito al progressivo avvicinamento della NATO ai propri confini, ha saputo gestire il crescente pericolo per la sicurezza nazionale senza mai perdere la testa, intervenendo militarmente solo per ridisegnare i confini di territori russi devoluti dall’URSS come accaduto nel caso della Crimea nel 2014. Certamente la Russia di Putin non è un paese socialista, non assomiglia alla Cina per intenderci. Ma non è nemmeno il paese del capitalismo selvaggio come Stati Uniti, America Latina (tranne Cuba e Venezuela) ed Italia, è immune quindi dalle violente spinte eversive dovute alla crescente crisi debitoria di questi paesi, innanzitutto degli USA. In conclusione, in questa fase storica, considerando tutti i limiti del regime di Vladimir Putin, a mio parere, non si ravvisano i pericoli per la pace e la stabilità in Europa e nel Mondo che invece provengono sempre più forti dagli Stati Uniti. Ecco perché ci si può schierare dalla parte della Russia nella crisi ucraina.

 

Se la terza via non è più praticabile con chi schierarsi? Il problema degli Stati Uniti

Cerchiamo innanzitutto di spiegare perché si persevera nel giudizio negativo sulla “democrazia più grande del mondo”, come vengono definiti gli USA dai suoi sostenitori. Parliamo di un Paese che è modello economico, sociale e politico per le classi dirigenti del mondo occidentale, l’Europa soprattutto. Ad esempio, le élite che da domenica 22 a giovedì 26 maggio si stanno riunendo a Davos per l’annuale World Economic Forum non hanno dubbi su quale sia il modello da seguire nel mondo di oggi, e non hanno nemmeno dubbi, almeno formalmente, su quale parte scegliere nella contesa tra l’Ucraina (cioè gli Stati Uniti) e la Russia. L’ANSA del 23 maggio ci riferisce dell’ennesimo show del Presidente-attore Zelensky davanti al prestigioso pubblico rappresentato dal gotha delle Élite occidentali: “Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky intervenendo al forum a Davos in Svizzera ha chiesto “sanzioni massime” contro la Russia. Serve un “embargo completo sul petrolio”, che “tutte le banche russe siano escluse dai sistemi globali e che non ci sia nessun commercio con la Russia”, ha precisato in collegamento video”. Ovviamente imprenditori e manager presenti al Forum non sono così propensi ad inimicarsi un paese importante come la Russia per sole motivazioni “democratiche”, occorre sentirsi offrire qualcosa di più. Ecco che il “gobbo” che scorre nel cervello del presidente ucraino oppure davanti ai suoi occhi ha già pronta la proposta, sempre desunta dal resoconto ANSA: “Offriamo al mondo la possibilità di creare un precedente per ciò che sta accadendo quando si tenta di distruggere un “paese” vicino. “Vi invito a prendere parte a questa ricostruzione”. L’alta borghesia europea ed americana è quindi dalla parte dell’Ucraina, in vista del classico processo di distruzione e ricostruzione caratteristico delle fasi capitalistiche. Zelensky può andare bene perché promette business, anche se non è ancora chiaro chi dovrà sovvenzionarlo: forse l’Unione europea? In ogni caso da Davos partono le sovrane direttive che vengono assunte con convinta naturalezza dalla cosiddetta politica democratica e dal sistema dell’informazione-propaganda, le due facce della “moneta” che a Davos viene coniata. La politica risponde subito presente: “La Germania è pronta ad andare avanti sull’embargo al petrolio della Russia, anche senza l’Ungheria”. Lo ha affermato il ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck al Forum economico mondiale di Davos, dicendosi “deluso” che ci stia volendo tanto tempo per un accordo europeo. Il giorno successivo, 24 maggio, La Stampa ci riferisce le parole del Presidente della Commissione europea: “L’Ucraina deve vincere questa guerra”… E il premier spagnolo Pedro Sánchez, che è intervenuto pochi minuti prima, ha usato toni analoghi, considerando la mossa di Vladimir Putin “un’offesa diretta all’Europa”, annunciando che Finlandia e Svezia parteciperanno al vertice Nato di giugno. Potremmo continuare con questa litania citando politici inglesi, francesi, italiani, parole e toni che non cambierebbero se questi signori si trovassero al cospetto dei prìncipi del capitale riuniti a Davos. L’altra faccia della moneta è rappresentata dal mondo dell’informazione e della cultura, mai così bisognoso di denaro altrui (dei signori di Davos oppure pubblico, che oggi è la medesima cosa) per potere continuare a produrre film che nessuno vede, a scrivere libri che nessuno legge, un mondo intellettuale mai così asservito e conformista: AGI del 17 maggio 2022 “Standing ovation al Festival di Cannes per Zelensky”. Quindi, utilizzando lo strumento della lotta di classe come spettro chiarificatore, l’“upper class” occidentale è dalla parte dell’Ucraina, cioè degli Stati Uniti. Perché noi non lo siamo? Forse perché apparteniamo alla classe lavoratrice? Esattamente per questa ragione! E per la seguente analisi che possiamo fare appunto perché appartenenti ad una classe diversa rispetto a quella dominante. Gli Stati Uniti sono la fonte e il motore perpetuo delle crisi, causa di destabilizzazione e di conflitto in tutto il mondo. Esiste una ragione precisa per la quale gli USA sono sempre alla ricerca di sovvertire i rapporti politici, sociali ed economici. Il problema degli americani è lo stesso che attanaglia gli imperi soprattutto quando volgono al tramonto: perseguire la regola aurea come definita dal conte di Selborne, primo Lord dell’Ammiragliato britannico, durante un suo discorso al Parlamento inglese nel 1901 “un impero ha due gambe: uno è la moneta e l’altro sono le navi”. Oggi la regola non è cambiata: una gamba rimane la moneta e si chiama dollaro, l’altra gamba rimangono le navi e si chiama NATO. Il dollaro è il problema della nostra epoca in quanto è una moneta che non ha nessun valore intrinseco non essendo è più convertibile in oro da 51 anni, è stata messa in circolazione in una quantità ormai non più calcolabile, ma solo stimabile con un certo grado di errore. Il dollaro non è più in grado di svolgere le funzioni naturali di una moneta in quanto: non è riserva di valore non essendo più convertibile in oro (ad esempio al cambio di 35 dollari l’oncia come nel dopo guerra fino al 1971); non è misura di valore a causa del suo sconosciuto potenziale inflazionistico: è mezzo di scambio esclusivamente per il carattere forzoso della sua circolazione, ed il termine forzoso va inteso nel suo significato più letterale, in quanto vi sono “le navi” che sorvegliano appunto che il dollaro sia accettato ovunque e a fronte di qualsiasi tipo di transazione. Questa enorme massa monetaria, una volta prodotta, non può essere distrutta se non attraverso la sua trasformazione in merci nel senso più lato del termine, e nella scala massima di cui stiamo parlando, occorre una trasformazione in quantità enormi di merci per impiegare parte consistente, ma non tutta, del circolante cartaceo emesso dalla Federal Reserve: questo processo prende il termine di dollarizzazione di una economia. Il grande sogno della Casa Bianca è dollarizzare la Cina; a Washington ci si pensa tutti i giorni e Pechino rimane sempre il nemico pubblico numero uno. Fino ad ora l’aggressione alla Cina si è dimostrata ardua, anche a causa dell’atteggiamento della Russia. Ecco che subentra uno scenario secondario, quello russo appunto: da un lato in memoria degli anni Novanta, quando il regime di Boris Elstin permise una parziale dollarizzazione di quel Paese e delle enormi ricchezze valorizzate dall’URSS. Il tentativo fallì proprio grazie all’ascesa al potere di Vladimir Putin; dall’altro come mezzo per aggredire il terzo scenario, quello attuale. Quando gli Stati Uniti non riescono a “bastonare” come vorrebbero nemici e avversari, è loro tradizione aggredire i propri servi, pardon alleati, cioè l’Europa. Non riuscendo a raggiungere l’obiettivo massimo, la Cina, gli americani stanno dollarizzando l’obiettivo minimo, l’Europa. Perché gli USA hanno questa fretta di dare sbocco al dollaro, e non possono più aspettare di aprire il fronte cinese con i dovuti tempi? Perché il pericolo domestico che gli americani stanno affrontando e che li spaventa è quello della crescente inflazione interna. L’inflazione USA nel mese di aprile si è attestata sul 8,3% ed è un segnale d’allarme su come si sta muovendo la spaventosa massa monetaria dollaro se non trova adeguate economie da aggredire, rivolgendosi contro il proprio creatore: il sistema finanziario ed economico americano. Quanto è grande il pericolo che sta correndo l’economia americana a causa dell’inflazione? Non è possibile saperlo, ma possiamo in qualche modo immaginarlo parzialmente grazie alla storia delle monete. Quando il marco imperiale tedesco smise di essere convertito in oro, divenne quindi Papiermark e fu stampato a rotta di collo tra il 1914 ed il 1923 per esigenze belliche e post belliche di un Paese sconfitto e vessato, si dissolse nel 1923 nella nota iperinflazione per la quale occorrevano milioni di marchi per acquistare un litro di latte, oppure un francobollo. Se calcoliamo il periodo di produzione monetaria di Papiermark possiamo contare 9 anni, dal 1914 al 1923, anno di introduzione del Rentenmark. Il dollaro si trova tecnicamente nella stessa situazione del Papiermark dal 1971, ma essendo metropoli imperiale ha il potere d’imporre una moneta che se cadesse nella spirale inflazionistica, farebbe impallidire la crisi del 1923. In altre parole, è dal 1971 che gli Stati Uniti stampano carta, distruggono valori reali e drenano risorse da tutto il mondo in cambio di effigi dei presidenti americani. Questa situazione, che vìola tutte le elementari leggi monetarie, non è più sostenibile in regime di “normalità” economica, ecco perché, a mio avviso, il terzo decennio di questo secolo si è aperto con la crisi del Covid-19, prosegue con la crisi ucraina, e purtroppo queste crisi non smetteranno più fino a quando non sarà definitivamente risolto il rapporto che l’economia mondiale ha nei confronti del dollaro.

 

L’idea “meravigliosa” di Mario Draghi: l’economia di guerra

Come organizzare un’opposizione quando gli avversari sono così potenti e legati tra loro? Occorrerebbe denunciare gli Stati Uniti per quello che sono, spiegare alle persone che sono loro gli agenti della guerra nel mondo, e non la Russia che effettivamente la guerra la sta facendo. Questo paradosso va spiegato con una interpolazione di diverse discipline, economia politica, storia delle monete, storia generale, politologia, la cui teoria di fondo è stata accennata nel capitolo precedente. Si tratta di una spiegazione per addetti ai lavori e facilmente criticabile da parte dei vari illustri professori, scrittori e giornalisti che pullulano nelle schiere dei cortigiani di Davos. Esiste però un altro tema molto più comprensibile da parte dei cittadini e che rappresenta, a mio parere, uno dei motivi di fondo dei colloqui avuti dal Presidente del Consiglio italiano durante il suo ultimo viaggio a Washington. Abbiamo definito Mario Draghi un proconsole americano in Italia fin dalla sua nomina a capo del governo, ma non è solo questo. Draghi è anche un “maggiordomo di palazzo” come lo si intendeva nel Medioevo, un uomo preparato e di massima fiducia al quale il principe affidava la soluzione dei problemi più importanti dello Stato. Il problema del “principe” Joe Biden è l’inflazione galoppante negli Stati Uniti, la soluzione alla quale Draghi sta lavorando alacremente, e con lui personaggi come Ursula von der Layen e Christine Lagarde è quella di importare la maggior parte possibile di questa inflazione in Europa: dollarizzare la zona Euro. La guerra in Ucraina, quindi, rappresenta l’alibi perfetto che permette agli Stati Uniti, tramite i propri Gauleiter europei capeggiati da Draghi, di spostare il mercato dell’Energia dal gas russo, acquistabile a prezzi bassi e stabili perché disponibile in quantità adeguata e trasportabile nel modo più efficiente ed economico possibile tramite i gasdotti, per gettare gli europei nel mercato fortemente speculativo e volatile del gas americano, algerino o qatariota, disponibile in minore quantità e trasportabile nel modo meno efficiente e più costoso possibile attraverso il sistema del gas liquido e il trasporto marittimo. Torniamo a questo punto a Davos. I signori del denaro ivi riuniti stanno dibattendo questi temi, con dovizia di informazioni e analisi che noi non disponiamo, e si rendono perfettamente conto del pericolo rappresentato dall’inflazione importata dagli Stati Uniti insieme al loro gas liquido. Ma siamo nel mondo occidentale che è dotato anche esso di due gambe: democrazia borghese e liberismo, quindi il tema non è come evitare di venire dollarizzati dai padroni americani, ma a chi far pagare il conto della dollarizzazione dell’Europa. La soluzione è presto trovata: La Stampa del 23 maggio: “Pandemia, guerra, materie prime: da Davos scatta l’allarme salari. Dallo stipendio al posto di lavoro ecco cosa rischiano i lavoratori… La crisi globale è alle porte. Prima la pandemia, poi la guerra, poi le tensioni sulle materie prime rischia di far deragliare l’espansione globale. Ma, come avvisano gli economisti presenti al World Economic Forum, c’è un rischio contagio anche per gli stipendi dei lavoratori. Il rischio è quello di una tempesta perfetta. A cui, avvertono i due terzi degli economisti presenti a Davos, si aggiungerà una ‘diminuzione dei salari’”. Ecco perché abbiamo parlato di analisi diverse a seconda della classe sociale di appartenenza. I signori del denaro riuniti a Davos sono fortemente legati alla propria centenaria tradizione: il conto lo deve pagare la classe lavoratrice, come è sempre accaduto dai tempi della rivoluzione industriale inglese. L’ordine impartito alle due facce della propria moneta: politica e informazione, è di tradurre in atti di governo e di propaganda questo semplice assunto. In altre parole, guai a chi parla di spirale dei prezzi, può aumentare solo il costo della vita ma non salari e stipendi; la propaganda deve far dimenticare, ad esempio agli italiani, che fino agli anni Ottanta esisteva un meccanismo di difesa dei salari che si chiamava scala mobile. Ecco che il nostro ineffabile presidente del Consiglio ha cominciato a parlare di “economia di guerra”, uno strano concetto per un Paese che non è in guerra. Cerchiamo di capire cosa intende il proconsole USA in Italia: RaiNews del 11 marzo: “Draghi al vertice Ue di Versailles: Non siamo in economia di guerra, ma è bene prepararsi… La discussione ha toccato le insufficienze di materie prime, tra cui l’agro-alimentare. La risposta è che se ciò si aggraverà occorrerà importare da altri Paesi, come Usa, Canada o Argentina. Ciò determina una necessità di riconsiderare tutto l’apparato regolatorio e questo argomento lo ritroviamo sugli aiuti di Stato, sul Patto di Stabilità”. Draghi ci dice che occorre quindi acquistare su mercati dove il dollaro regna sovrano, e per ottenere questo risultato bisogna far cadere controlli e restrizioni per le importazioni d’oltreoceano, con buona pace per gli ambientalisti anti OGM (l’apparato regolatorio) e fare ingenti nuovi debiti (aiuti di Stato e Patto di Stabilità). Un mese dopo Draghi presenta il Documento di economia e finanza proprio come strumento di gestione di un’economia di guerra (ma nel frattempo l’Italia non risulta essere entrata in un conflitto): “Un Def di guerra. Draghi: ‘Quadro drammatico, faremo tutto il necessario’ titola La Repubblica del 6 aprile che ci racconta il parere del Presidente del Consiglio: “La guerra frena le prospettive di crescita: l’Italia si trova attaccata da più fronti, l’inflazione, il caro energia, la mancanza di materie prime. La situazione è ‘drammatica’, i ‘bisogni’ dei cittadini sono ‘disperati’, le imprese ‘soffrono’”. Il ministro Franco, forse in un impeto di entusiasmo, aggiunge dettagli rivelatori: “i dati sono però provvisori, l’incognita guerra enorme. Anche perché l’Italia è pronta ad allinearsi all’Ue sul blocco dell’import del gas dalla Russia se fosse ‘lo strumento più efficace’ di pressione su Putin, a costo di ricadute pesanti in autunno, con razionamenti.” In poche parole, e forse ricevendo una gomitata dal suo capo di governo, il ministro dell’Economia ci spiega cosa hanno in testa a Palazzo Chigi per attuare il piano americano di dollarizzare l’economia italiana. Il governo di Roma, di propria iniziativa, grazie all’alibi fornito dalla guerra in Ucraina e a quello di allinearsi alla politica della Commissione europea, in totale assenza di atti di ritorsione sulle forniture di gas da parte della Russia, decide di sostituire le importazioni di energia e materie prime da Mosca a prezzi calmierati cercando le stesse materie prime, spesso di qualità inferiore, in giro per i mercati mondiali ma a patto che siano totalmente gestiti dal dollaro. Il risultato è quello di incoraggiare una forte speculazione sui prezzi d’importazione, sapendo che in ogni caso tali importazioni non coprirebbero il fabbisogno nazionale. Non è sufficiente quindi far pagare le bollette ad imprese e cittadini a prezzi esponenzialmente superiori, incolpando Putin che invece non ha mai smesso d’inviare il suo gas in Occidente, ma occorre preparare i cittadini all’idea che oltre a pagare gas ed elettricità a cifre esorbitanti, non sarà neppure garantita la loro erogazione per tutta la durata della giornata, ma a discrezione del governo. L’informazione avrà due compiti: raccontare che non si tratta di speculazione internazionale sui prezzi, chiamata e protetta dal governo Draghi, ma si tratta sempre del malvagio Putin; spiegare che per difendere la nostra preziosa democrazia, cioè il privilegio di potere votare un Letta, un Salvini oppure una Meloni, la maggioranza dei cittadini, ma non tutti, debbono mettersi in testa che occorre fare sacrifici, come ci spiega Pier Ferdinando Casini sul Corriere della Sera del 8 aprile scorso: “Guerra in Ucraina, Casini: Se non vogliamo subire un ricatto crescente dalla Russia dobbiamo fare dei sacrifici… Abbiamo commesso errori politici, come dipendere per il 40% del nostro fabbisogno energetico di gas dalla Russia. Ma oggi è tutto cambiato. Dobbiamo riaprire gli occhi e pensare che se i poveri ucraini pagano con le loro vite, a noi toccherà farlo con le nostre comodità”. Chissà se quando nelle nostre case mancherà luce e gas, lo stesso accadrà nelle lussuose residenze dell’ex Presidente della Camera e dei suoi famigliari e famigli. Ecco l’idea meravigliosa che Mario Draghi ha in testa per gli italiani: dopo averli fatto fare le meritate vacanze, si dovranno affrontare le difficoltà dell’inverno in regime di economia di guerra, senza scordare la variabile Covid-19 che sappiamo “lavora” da autunno alla primavera.

 

Conclusioni: quale opposizione è possibile?

Questo Paese sta rischiando tanto perché chi lo guida è una persona che non ha nulla a che fare con un ruolo di capo di governo che tiene al centro della propria azione politica la cura del bene dei cittadini che amministra. Al contrario, l’Italia potrebbe essere il Paese prescelto per effettuare esperimenti di dollarizzazione spinta e valutarne così le conseguenze sotto un profilo economico, sociale e quindi politico. Dobbiamo renderci conto che una stagione storica, con tutti i suoi limiti e difetti, si è chiusa con l’avvento dell’era del Covid nel 2020 e una peggiore si è aperta. Nella nuova stagione la passività della pubblica opinione non paga più; permettere ai partiti di vincere le elezioni politiche con il 74% dei voti non risparmierà nessuno dalla loro pessima politica. Peggio ancora permettere ad un Enrico Letta di essere eletto con il voto del 35,9% degli aventi diritto del collegio di Siena non rende questo signore più debole, al contrario lo rende più forte. Nella nuova stagione, le crisi non cesseranno più fino a quando il mondo non avrà risolto il suo rapporto col dollaro. Qualcuno ha già cominciato a farlo, la clamorosa scelta di Putin del 28 marzo, e in un certo senso quel giorno la Russia ha vinto la guerra in Ucraina contro l’Occidente: il rublo è diventato due volte convertibile, in maniera indiretta in gas e diretta in oro. Ecco il motivo della rabbia furibonda degli americani e di conseguenza il modo brutale col quale pretenderanno la dollarizzazione dell’Europa. Tuttavia, Marx ci ha insegnato che le contraddizioni sono parte costitutiva del sistema capitalistico. Quale operatore finanziario di Wall Street oppure della City di Londra non vorrebbe disfarsi della carta dollaro a favore della valuta più pregiata del mondo? Nessuno. E quante grandi aziende energetiche pubbliche, comprese ENI e Snam, hanno già aperto il doppio conto presso la Gazprombank e stanno già vendendo dollari per rubli. La principale linea d’opposizione alla guerra, a mio avviso, dovrebbe essere di far capire quale inganno sia credere che l’aumento esponenziale del costo della vita – dell’energia da un lato, la depressione del potere d’acquisto di salari e stipendi dall’altro, e l’ulteriore precarizzazione dei posti di lavoro dall’altro ancora – non sono causati dalla Russia, ma al contrario dalla volontà della NATO di far durare la guerra in Ucraina il più a lungo possibile, tenendo quindi vivi i presupposti veri e presunti per mantenere i prezzi di energia e materie prime il più alto possibile per il periodo più lungo possibile. La fine della guerra e il ripristino delle normali relazioni commerciali con la Russia rappresentano l’unica soluzione possibile per invertire la spirale inflazionistica zoppa, nel senso che prevede una sola escalation: quella del costo della vita. Quest’opera di contro informazione e di spiegazione della realtà dovrebbe essere la priorità dei comunisti, e il gravissimo momento storico dovrebbe spronare le varie frazioni a trovarsi su di una piattaforma comune, sapendo di essere l’unico, seppure minimo, luogo politico dove si possono fare queste analisi e cercare di dare delle soluzioni che dovrebbero rappresentare l’embrione di un programma comunista per l’Italia del XXI secolo. Nella nuova stagione, le grandi operazioni finanziarie hanno una ricaduta immediata ed evidente nell’economia quotidiana anche domestica. Spiegare il perché le bollette crescono e che non c’entra niente la Russia e la guerra con l’Ucraina ma si tratta di una decisione di chi ci governa con la scusa e con l’alibi della guerra in Ucraina rappresenterebbe una piattaforma politica difficilmente criticabile se non si vogliono credere alle favole che ci raccontano tutti i giorni i signori che ci governano male e ci informano peggio.

Comments

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Pier
Tuesday, 31 May 2022 20:05
Analisi interessante, molto complessa. Purtroppo, non essendo esperto in materia, solo il futuro mi farà capire se chi scrive aveva ragione.
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