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paginauno

La guerra che fingiamo non ci sia

di Maria Rita Prette

Incontro-dibattito sul libro La guerra che fingiamo non ci sia di Maria Ri­ta Prette (Sensibili alle foglie, 2018), presso il Leoncavallo Spazio Pubbli­co Autogestito, Milano, 6 novembre 2022

7nytghyCredo sia molto importante parlare della guerra, una parola diventata un po’ tabù: nel senso che come Paese sono una trentina d’anni che fac­ciamo guerre, anche se non le dichiariamo più e le chiamiamo con altri nomi. A ben vedere, quando ho fatto questo lavoro, anch’io ho faticato a chiamare ‘guerra’ le cose che ho incontrato, perché hanno un caratte­re sleale e feroce che va ben oltre il modo in cui i conflitti sono stati concepiti dall’umanità fino al 1991. Dobbiamo quindi guardare queste nuove forme delle guerre per come si esprimono, per come vengono fatte, per i dispositivi che attuano, a partire dal momento in cui hanno cominciato a essere realizzate in queste modalità, ossia: non più due e­serciti che si confrontano.

Forse la seconda guerra mondiale è stato il conflitto ‘di passaggio’ verso questo nuovo modo, caratterizzato soprattutto dall’utilizzo dell’a­viazione; ormai ci siamo abituati al fatto che si bombardino delle città, dei quartieri, dei Paesi, che li si rada anche al suolo. Penso che dovremo rifletterci, perché bombardare una città e raderla al suolo - come han­no fatto gli americani a Dresda nel 1945 e come abbiamo fatto noi in tutti Paesi in cui siamo stati, dalla Somalia all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria - vuol dire colpire dei civili. Questo è il primo tabù che viene rotto dalle nuove forme della guerra: a morire sono principalmente i civili, molto meno i soldati.

Chiarisco subito che quando parlo dell’Italia, citando quello che i no­stri eserciti hanno fatto nel mondo in questi trent’anni, mi riferisco allo stesso modo alla Nato e agli Stati Uniti, perché noi non siamo un’entità militare, uno Stato con un esercito dotato di sovranità: ospitiamo sul nostro suolo sette basi Nato, fondamentali per gli USA rispetto all’Euro­pa dell’Est e all’Africa; queste sette basi sono accompagnate da altre 54 esclusivamente americane, e da un certo numero di basi miste, un po’ italiane, un po’ americane e un po’ Nato. Quindi siamo a tutti gli effetti una colonia sta­tunitense. Dal 1945 a oggi, ciò che abbiamo fatto a li­vello militare dipende principalmente da questo pun­to. O per meglio dire, ci sono due binari attraverso i quali il nostro Stato, in nostro nome, fa delle guerre.

Il primo è la sudditanza che abbiamo appena vi­sto. Ha origine nel 1949 con il Trattato della Nato e nel 1954 con il Trattato bilaterale Italia-Stati Uniti, che ha consentito di mantenere qui le basi militari.

Il secondo binario è quello esplicitamente defini­to nel 1991 in un Rapporto dal nostro Ministero della Difesa: la guerra fredda è finita, spiega il Ministero, e quindi la nostra funzione anticomunista rispetto al­l’Europa dell’Est; ora dobbiamo garantirci l’approvvi­gionamento delle materie prime e delle fonti energe­tiche, garantire militarmente le vie attraverso le quali queste fonti ci arrivano, e garantire anche le imprese italiane che operano nei Paesi dove sono situate le risorse - quei territori che loro definiscono ‘contesi’ e che noi abbiamo invece visto essere territori mas­sacrati dalle guerre, e dalle seguenti ricostruzioni che sono la fortuna di tanti industriali italiani.

I due binari camminano intrecciati, e questo spie­ga perché tante volte dimentichiamo. Ora si dice che quella in Ucraina è la prima guerra in cui l’Europa si trova coinvolta dopo settant’anni di pace: non è chia­ramente così. Nel 1999 i militari italiani sono andati a bombardare Belgrado, che è nel cuore dell’Europa, e l’hanno fatto senza minimamente concepirsi come se stessero facendo una guerra. Eppure siamo andati lì e abbiamo bombardato, e con le no­stre armi potenziate con l’uranio im­poverito abbiamo reso inaccessibili per i prossimi 4 miliardi e mezzo di anni intere zone della Serbia, come abbiamo fatto poi in Iraq, Libia, Af­ghanistan e in tutti i posti dove sia­mo andati - l’uranio impoverito me­riterebbe una serata a parte e su que­sto non mi dilungo.

Io credo che il punto centrale di questa situazione sia che non voglia­mo parlare di guerra perché, in real­tà, con le nostre armate militari com­mettiamo una serie di crimini che so­no veri e propri crimini contro l’uma­nità. Ne abbiamo commessi, del tut­to impunemente, in Somalia - qual­cuno di voi ricorderà che alcuni mili­tari italiani finirono in tribunale per tortura contro dei cittadini somali, durante la ‘missione di pace’ del 1997 - in Iraq, quando durante la prima Guerra del Golfo del 1991, in qua­ranta giorni abbiamo buttato l’equi­valente di sei bombe atomiche come quella che è stata lanciata su Hiroshi­ma, procurando 200.000 morti tra i civili iracheni e mezzo milione di or­fani. In Iraq siamo tornati nel 2003 e abbiamo bruciato Falluja con il fosfo­ro bianco, utilizzando quel tipo di armi vietate e criminalizzate quando sono gli altri a usarle. Secondo Jim Brown, un veterano americano, il 27 febbraio 1991 abbiamo persino sganciato una bomba atomica di cinque chilotoni al confine con l’Iran, presso Bassora (1). Su YouTube c’è un’inchiesta molto bella di Maurizio Torrealta che vi invito ad andare a vedere, con un’intervista a Jim Brown che racconta come i suoi commilitoni gli abbiano riferito di aver lanciato questa bomba; e c’è una corrispondenza dei sismografi internazionali, che riconoscono che il tipo di terremoto che hanno registrato in quel luogo e momento potrebbe corrispondere a una bomba esattamente di quella grandezza. È stata fatta anche un’inchiesta sulle conseguenze di questo ordigno atomico, in un ospedale di Bassora, dove il 500% in più di bambini sono risultati malati di cancro e leucemia; un medico dell’o­spedale ha chiesto formalmente all’Italia di mettere in piedi un’inchie­sta epidemiologica, e l’allora Ministro degli Affari Internazionali, Gianni Mattioli, dice a Torrealta: io ero disposto a farla, ma l’Alleanza Atlantica me l’ha proibito.

In questi trent’anni, quindi, abbiamo commesso tante e tali cose che non abbiamo oggi motivo di dire, se non per raccontarci delle menzo­gne, che quella in Ucraina sia la prima guerra che stiamo vivendo da de­cenni - peraltro ancora distante, perché non mi pare che stiano caden­do delle bombe sulle nostre teste.

Questa visione è un’idea centrale delle nuove forme dei conflitti: la guerra deve essere permanente, perché è diventata l’unica forma anco­ra efficiente del sistema produttivo capitalistico. Non facciamo più lava­trici, automobili, frigoriferi... e produciamo invece armi e guerre. Sotto­lineo che produciamo delle guerre, nel senso che c’è un processo istitu­zionale della guerra, in mano a imprese private, che produce dei teatri di guerra, produce dei luoghi di lavoro - imprese che ovviamente fanno profitti su questa realtà. Alcuni esempi.

All’inizio del 1991, nella ex Jugoslavia, il governo croato ingaggia un’agenzia di marketing per promuovere l’immagine dei croati a disca­pito di quella dei serbi. Alla fine dello stesso anno questa società, la Ru- der Finn, viene incaricata dal governo bosniaco di fare altrettanto per quel che riguarda la Bosnia, e nel 1992 lavora per i capi albanesi del Ko­sovo. Non è un fatto occasionale. Possiamo vedere quel che è successo negli ultimi mesi rispetto alla guerra che stiamo facendo in Ucraina con­tro la Russia: costruiamo un amico con i tratti migliori - chiamiamo ‘re­sistenti’ gli ucraini, il nostro Presidente della Repubblica ha addirittura fatto riferimento alla Resistenza italiana - e costruiamo soprattutto l’im­magine del nemico. Negli ultimi trent’anni abbiamo progressivamente visto rappresentare come un novello Hitler, Saddam Hussein per l’Iraq, Assad per la Siria, di recente Putin, e quando non è possibile identifica­re una singola figura si costruisce l’immagine del nemico collettivo - i talebani, i miliziani dell’Isis ecc. Costruendo queste figure, si sottrae al­l’intelligenza sociale collettiva il diritto di discutere su questi ‘amici’ e questi ‘nemici’, perché se lo si fa, se si intende approfondire la realtà, si viene indicati come dei ‘collaboratori’ di quel nemico. Abbiamo quindi un processo di censura, come di fatto sempre avviene nelle guerre. Lo sottolineo perché facciamo finta di non essere in guerra, ma lo siamo da trent’anni, e quindi sono trent’anni che abbiamo perso il diritto di inter­rogarci se erano davvero amici o nemici, chi erano gli amici e chi i nemi­ci. Questa costruzione avviene attraverso delle vere e proprie campagne pubblicitarie, ed è alimentata e legittimata da quel processo di mass mediazione di cui si servono i nostri governi (2). Se dobbiamo credere che in tempo di guerra, com’è logico che sia, non c’è informazione ma c’è propaganda, vuol dire che da trent’anni viviamo in Paesi europei nei quali verità l’è morta, non esiste più, ed esiste invece la propaganda; di cui siamo vittime, perché nessuno ci dà le informazioni per farci un’idea di quello che effettivamente sta accadendo.

In Iraq, e in altre guerre, abbiamo avuto dei giornalisti che sono an­dati a seguire il conflitto. Consideriamo però che nel 1991 gli Stati Uniti hanno deciso che la presenza della stampa nei teatri di guerra dovesse essere regolata. Inizialmente si è lasciata al Dipartimento di Stato ame­ricano la scelta di un pool di giornalisti, riferiti a un certo numero di te­state, che potessero andare nelle zone di conflitto come se fossero ‘ar­ruolati’, a fianco dei soldati - non andavano in giro per conto loro a ve­dere quel che accadeva. Questa modalità piacque poco - ci dice Fausto Biloslavo, un giornalista embedded, in un interessante Rapporto che ha scritto per il governo italiano (quindi una documentazione di parte) - perché gli Stati Uniti si rendono conto che questa modalità li espone a critiche e accuse di censura; il Dipartimento di Stato cambia dunque ap­proccio. Inaugura l’“informazione per inondazione”: permette a tutti i giornalisti di andare ai suoi briefing, e li inonda di notizie: vere, false, più o meno verificabili e date in continuazione, talmente tante da ren­dere inutile ai cronisti l’andare sul campo a vedere che cosa succede. Sono quindi trent’anni che noi non sappiamo quel che accade nei teatri di guerra.

Abbiamo poi le aziende produttrici di armi e le compagnie militari private (3). Rispetto alle guerre del Novecento, mandiamo pochissimi e specializzati soldati al fronte, e anche questa è una direttiva statuniten­se. Dopo il conflitto del Vietnam, gli USA dissero: mai più una guerra che riporti a casa tutte quelle bare, perché pone l’opinione pubblica contro di noi. Quindi da una parte mettiamo i nostri soldati nelle condi­zioni di rischiare il meno possibile, dall’altra, poiché nelle guerre ancora conta chi mette gli stivali sul terreno, come dicono i vecchi generali, al­lora inviamo i contractor. Sono una novità dei conflitti del nostro tempo, perché sono dei mercenari a tutti gli effetti ma non si può dire, altri­menti gli Stati non potrebbero appaltarli nel rispetto delle norme del di­ritto internazionale che lo vietano. C’è allora una direttiva per stabilire che il contractor è una persona che va sul teatro di guerra non per gua­dagno personale, ma perché guadagni la compagnia militare che lo in­via; non va per partecipare al conflitto, ma per proteggere delle perso­ne che lì si trovano, e se per caso viene coinvolto, se spara a qualcuno, lo fa per difendere quelle persone. Diviene quindi lecito che uno Stato appalti contractor per una guerra. In Afghanistan c’erano 9.000 soldati americani e 29.000 contractor appaltati al solo Dipartimento di Stato; ce n’erano altrettanti ingaggiati dall’esercito italiano, dalla Gran Breta­gna, dai vari Paesi che hanno partecipato a quel conflitto. Che cosa si­gnifica questo? Di nuovo, che le vittime designate dalle nuove guerre sono i civili. Abbiamo avuto 7.400 morti tra i militari, in tutta la coalizio­ne e in vent’anni di conflitto: un morto è sempre di troppo, ma analiz­zando il dato in termini numerici, è un numero bassissimo. Abbiamo pe­rò avuto più di 178.000 persone morte.

Le guerre si fanno addirittura contro i singoli individui. Sto parlando dei droni, questi strumenti figli della tecnologia di ultima generazione, che coinvolgono la base Nato di Sigonella in Sicilia, e comportano di fat­to un cambiamento antropologico: per la prima volta nella storia dell’u­manità, rappresentano infatti la possibilità di uccidere una persona dal­l’altra parte del pianeta, stando seduti in una stanza, davanti a un com­puter. Sono utilizzati in due modi.

Il primo: all’interno dei teatri di guerra. Nel 2017, per esempio, in Li­bia - quindi in un Paese con il quale eravamo in una situazione di belli­geranza nascosta, perché non abbiamo mai dichiarato guerra alla Libia - un singolo attacco ha comportato la morte di 900 persone, che ci hanno detto essere miliziani dell’Isis. Chiunque fossero, 900 persone sono morte perché dei militari americani seduti in Nevada hanno fatto alzare dei droni a Sigonella, quindi a casa nostra, li hanno portati sul terreno di guerra, hanno individuato dei bersagli e hanno lanciato dei missili. Quindi noi abbiamo permesso che quei droni - che sono in Europa per­ché hanno bisogno di essere sul territorio, non possono partire dal Ne- vada - si alzassero in volo, vedessero e bombardassero. C’è un’organiz­zazione britannica, di nome Reprieve - mi risulta sia l’unica al mondo ad aver fatto una ricerca su questi attacchi - che afferma che una lista che comprendeva 24 persone da uccidere ha portato alla morte di 847 per­sone; rileva che solo con gli attacchi sulle liste sono morte tra 3.000 e 4.000 persone in Yemen e in Pakistan, Paesi con cui non siamo mai stati in guerra.

La seconda modalità di utilizzo dei droni è quello che viene chiama­to ‘attacco alla firma’: quando con un comportamento firmi la tua con­danna a morte. E non esiste nemmeno una regola su quali siano i com­portamenti che fanno presupporre che tu sia un terrorista. In Pakistan c’è un paesino, Datta Khel, a 2.000 metri: il 17 marzo 2011 gli anziani si riuniscono in una jirga, un’assemblea pubblica, per decidere su una con­tesa tra due famiglie in merito a una miniera di cromite. Si siedono all’a­perto, in cerchio, nella piazza, com’è loro abitudine. In quel momento, un drone sorvola la zona, e rimanda a un soldato seduto nella sua stan­za in Nevada l’immagine di un gruppo di persone che stanno discutendo qualcosa; forse un algoritmo, forse un generale, non lo sappiamo, co­munica al militare che quella è una riunione di terroristi, viene dunque armato un drone e polverizzate 42 persone. Questo villaggio, tra l’altro, era filo americano, quindi aveva informato l’esercito pakistano dell’as­semblea.

Qui vediamo la stretta connessione tra tecnologia e capitalismo di guerra. Lo stesso legame riguarda i soldati, e trovo anche questo antro­pologicamente significativo. I soldati sono da sempre trattati in qualche modo - gli si danno droghe e ansiolitici per sopportare lo stress di un teatro di guerra, per inibire il senso etico ecc. - ma quel che viene fatto oggi è molto diverso. Il Dipartimento di Stato americano ha operato su 1.000 avieri e 2.300 soldati per portare la loro vista a 15 decimi; la Dar- pa, un’agenzia statunitense, studia le modalità per portare le capacità del corpo del soldato a resistere meglio al freddo, al caldo, al dolore (4); abbiamo infine l’ibridazione dei soldati con gli strumenti tecnologici, per esempio il casco del caccia F-35. Tutti abbiamo sentito parlare di questo aereo di ultima generazione, che viene venduto trattenendo il codice sorgente: vuol dire che il velivolo può alzarsi in volo solo se gli Stati Uniti lo permettono. I soldati italiani che si sono addestrati a diventare piloti di F-35 raccontano, in termini entusiastici, l’ibridazione con questo ca­sco: permette loro di vedere con gli occhi dell’F-35, ossia con le teleca­mere montate a 360° sul caccia, e trasmette delle stimolazioni cognitive al pilota. Siamo quindi in presenza di una manipolazione della persona, ridotta a essere una parte della macchina.

Aggiungo un’ultima cosa: considero molto preoccupante la cultura della guerra in cui siamo stati infilati senza che nessuno lo dichiarasse apertamente. Sono stati fatti dei passi all’interno della nostra società, dentro le nostre istituzioni, per produrla, innanzitutto partendo dalle scuole. Già dal 2014 sono stati stipulati degli accordi tra il Ministero del­l’Istruzione e il Ministero della Difesa perché nelle aule andassero gene­rali e militari a insegnare la Costituzione, e si è incentivato il portare i bambini delle elementari in visita alle basi militari - nell’anno scolastico 2015-2016, nella base navale di Augusta (dove ci sono i reattori nucleari sui sottomarini), il comando della Marina militare ha addirittura orga­nizzato una giornata di attività motorie, ludiche e musicali destinata alle scuole primarie, durante la quale i bambini sono stati portati a visitare i sottomarini stessi. Anche nell’alternanza scuola-lavoro i ragazzi delle su­periori vengono portati nelle basi militari, e da anni le università italiane hanno significativi finanziamenti da parte della Nato e degli Stati Uniti per progetti che hanno a che fare con le strategie militari. È una cultura che, in sordina, prende sempre più piede.


Note
1 Cfr. Emilio Del Giudice, Piccole bombe nucleari crescono. La fusione fredda e le nuove mini-armi atomiche, Paginauno n. 20, dicembre 2010. Nota di redazione
2 Cfr. Giovanna Cracco, Lo spettacolo della guerra, Paginauno n. 77, aprile 2022. Nota di redazione
3 Cfr. Giovanna Cracco, La prosperità della guerra, Paginauno n. 79, ottobre 2022. Nota di redazione
4 Cfr. Giovanna Baer, DNA e campo militare. La nascita di Capitain America, Pagi­nauno n. 67, aprile 2020. Nota di redazione

Comments

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Mario M
Saturday, 14 January 2023 18:05
Dresda non è stata rasa al suolo. Ci sono andato questa estate, e ho visto che il centro storico è praticamente intatto. Voi direte che è stato ricostruito. Ma non è possibile ricostruire tutte quelle fantastiche architetture, su un'area così vasta, con quella precisione, dettaglio: mancano le maestranze, le capacità artistiche diffuse (provate a googlare Dresda con le immagini e ve ne renderete conto). Se così fosse, come mai nelle nostre città italiane bombardate solo in minima parte non hanno ricostruito in originale gli edifici abbattuti?

Hiroshima e Nagasaki furono effettivamente rase al suolo, non con le bombe atomiche, ma con bombe incendiarie.
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