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gasparenevola

Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica

di Gaspare Nevola

 

I. Ripensare la comunità oggi

 

1846 Anti Corn Law League Meeting1. Preambolo

«Stiamo attraversando anni di oltraggio alla democrazia liberale, e questo enorme disprezzo non s’è certo esaurito. Ci è stato detto che tutto ciò che c’è di orrendo nel nostro tempo è colpa del liberalismo, o peggio, del neoliberalismo… È stato incolpato di tutta l’infelicità del mondo. I predicatori di una nuova felicità si chiamano, vantandosi, post-liberali. Talvolta uno si deve stropicciare gli occhi di fronte all’intensità dell’odio per la democrazia liberale: questi stolti capiscono ciò che stanno dicendo? (…) Questo è populismo». Dato che l’autore[1] di queste parole è un intellettuale, considerato tra i più influenti nell’area progressista statunitense, mi chiedo da quali libri e studi abbia tratto le sue conclusioni e i suoi giudizi che liquidano come stoltezza populista le critiche che da tempo investono la cultura liberal-democratica e neo-liberale: dalle colonne di battaglia giornalistiche? da comizi elettorali? Sia ben chiaro, anche le chiacchere da bar-sport politico sono legittime, così come lo sono le crociate contrapposte che imperversano sui social e che rudimentalizzano il confronto pubblico. Dato, però, che l’autore qui richiamato è un intellettuale, sarebbe sano, bello e doveroso aspettarsi meno sdegno offensivo verso chi vede le cose diversamente e più pazienza e raziocinio nel trattare il tema sul quale si intrattiene. Poco giova alla comprensione dei punti di vista altrui porsi come capo di una tifoseria che sbraita e inveisce contro la parte avversa.  Di tanto in tanto, un bagno nel tacitiano sine ira ac studio è utile anche all’intellettuale militante.

Pertanto, tacitianamente, chiudo questo preambolo e passo al mio argomento, che riguarda proprio la critica della cultura politica del liberalismo contemporaneo, ivi inclusa quella neo-liberal dominante nel nostro Occidente (dove “dominante, sia detto per inciso, non significa maggioritaria). Altra sarà la mia lingua e il mio favellar.

 

Ripensare la comunità oggi. Breve introduzione

 

I.

Nell’ultimo scorcio del XX secolo, il modello di vita incarnato da una declinazione neo-liberale del liberalismo storico diventa la bussola del mondo occidentale politico, economico e culturale: un modello osannato urbi et orbi, verrebbe da dire. A quell’epoca, e ancora nei primi decenni del XXI secolo, sembrano assenti idee di società robuste e capaci di opporsi o di proporsi come alternative alla modellizzazione (neo)liberale della vita sociale. Il tracollo dei regimi del “socialismo reale” dell’Europa centro-orientale, e con esso il tramonto dello stesso “socialismo ideale”, non lasciano né eredi né dubbi. Il nuovo liberalismo lievitato nel “dopo guerra fredda” giunge al culmine del suo successo e imprime il suo marchio sul modo in cui vengono concepiti l’economia, la vita politica e democratica, il diritto, le relazioni sociali; ogni ambito della vita viene plasmato attraverso schemi culturali, giuridici e istituzionali derivati dal paradigma neo-liberale: economia di mercato, democrazia procedurale, diritti umani, libertà civili e personali del cittadino, stili di vita e di consumo ecc. Negli ultimi decenni, il (neo)liberalismo si è inoltre impegnato sempre più a “esportare” i suoi valori etico-normativi e suoi principi organizzativi di vita pubblica e di vita privata, collettiva e individuale, anche fuori dal suo “elettivo” spazio geopolitico e geoculturale, irradiandosi su territori sociali lontani dalla sua tradizione o storicamente estranei, a volte “con le buone” (soft power), a volte “con le cattive (hard power), ora con successo, ora con risultati ambigui o deludenti, fronteggiando talora opposizioni o resistenze[2].

Nel complesso, il trionfo neo-liberale è apparso tanto irresistibile ed ubiquo da indurre non pochi intellettuali, osservatori e studiosi a vedere nell’epoca marchiata dal modello neo-liberale l’avvento dell’epoca della “fine delle ideologie” o persino della “fine della storia”: quasi che la società costruita, pensata o desiderata con caratteri modellati dalle istituzioni, dalle forze e dall’egemonia neo-liberali fosse l’unico modo di esistere della società contemporanea o addirittura la sola società “oggettivamente” disponibile, reale e immaginabile. In ragione di questo modo di intendere le cose, però, nel momento del suo trionfo ideologico il neo-liberalismo (con i suoi alfieri e cantori) finisce per dimenticare o negare la sua intima e inevitabile natura ideologica[3], e cioè di “particolare” visione del mondo, costituita da uno specifico insieme di “idee ragionate” sul mondo e per dare una forma al mondo[4]. Detto in altri termini, il neo-liberalismo assunto a “pensiero unico” sui diritti, sull’economia ecc., e includente lo stesso linguaggio del politically correct, segna cioè la nostra epoca come un’epoca anch’essa profondamente, pervasivamente e sottilmente ideologica – o, per essere più precisi, come epoca dell’egemonia di un’ideologia e non già come epoca della fine dell’ideologia. D’altra parte, con il negare o delegittimare le “ideologie al plurale”, sul cielo liberal-democratico, ahimè, vengono a stagliarsi nubi neo-totalitarie.

La rappresentazione sopra richiamata della superpotenza neo-liberale[5] ad un esame più attento assume tuttavia contorni più sfumati, quanto meno sul piano delle elaborazioni intellettuali e della teoria politica. Su questo piano, infatti, la visione neo-liberale è stata accompagnata e sfidata da visioni alternative nel modo di “pensare la società”, nell’elaborare indirizzi differenti sul funzionamento dell’economia, del diritto, della politica, vale a dire nel rispondere all’imperativo ideologico (o di cultura politica) di “dare un senso” (significato e valori) a una società. Come già nel corso della storia plurisecolare del liberalismo classico, anche nel mondo contemporaneo del “dopo 1989”, la concezione neo-liberale della società è stata cioè sfidata da concezioni contendenti della vita in società: non sono mai mancate del tutto visioni del mondo che l’hanno criticata e contestata nei fondamenti.

Tramontato il linguaggio del socialismo[6] e, più recentemente, equivocato (in buona e cattiva fede) quello del populismo o del sovranismo[7], vorrei qui porre l’accento su un caso esemplare e accurato di “linguaggio della comunità”. Questo peculiare linguaggio della comunità merita particolare attenzione, non fosse altro per il fatto che esso, in vario modo, continua ad avere una sua presa anche nella società neoliberal-democratica dei nostri giorni. La sua elaborazione teorica-politica e intellettuale più compiuta fa capo al così detto “comunitarismo”[8]. Il comunitarismo è un movimento ideologico-culturale che poggia su una solida filosofia politica. Nel corso degli ultimi decenni è riuscito a proporsi come uno sfidante intellettualmente serio e resistente, a cui non manca filo da tessere nello spazio del discorso pubblico. Ciò anche perché forte di un’idea antica e mai del tutto svanita: quella di comunità. La teoria politica comunitaria sulla quale mi concentrerò è quella che è stata riformulata nelle vesti del neo-comunitarismo, un filone di analisi della società contemporanea cresciuto nel contesto politico-culturale e filosofico nord-americano: ossia proprio nel cuore del liberalismo e del neo-liberalismo contemporaneo.

 

II.

Secondo la cultura liberal-democratica corrente, le idee comunitarie, il senso di comunità e la visione politica che le ispirano, sarebbero ancorate a una tradizione ideologica di destra, conservatrice quando non reazionaria, e a una filosofia “organicistica” della società. In particolare, tali idee sono spesso ritratte come oscurantiste e sottraenti ogni dignità all’individuo e alle libertà: per lo più, senza andare troppo per il sottile, la tradizione comunitaria viene affondata nel mare magnum del fascismo e del totalitarismo. La critica liberal-democratica si muove lungo alcune principali direttrici. In primo luogo, punta il dito contro la messa in discussione neo-comunitaria della centralità dell’individuo, della sua ragione e dei suoi diritti, e ciò là dove la visione neo-comunitaria afferma la dipendenza di individuo, ragione e diritti dai contesti comunitari in cui individui, ragioni e diritti si formano e si muovono. In secondo luogo, essa respinge il ridimensionamento della razionalità utilitaristica, della neutralità delle istituzioni pubbliche e del carattere universalistico dei principi, diritti e norme di condotta, un ridimensionamento imputato alla teoria neo-comunitaria, là dove quest’ultima ritiene che tali caratteri della modernità illuminista (convenzionalmente intesa) e cari alla tradizione liberale, non vadano assunti acriticamente, ma debbano invece essere messi a tema e problematizzati nei loro assunti valoriali ed empirici. In terzo luogo, la lettura neo-liberale squalifica le idee neo-comunitarie come idee pre-moderne, come figlie di un anacronistico e maligno “romanticismo politico” condannato e superato dalla storia e dalla civiltà occidentale, come idee inascrivibili e irrecuperabili alle concezioni progressiste, illuministe, liberali, utilitariste di quel mondo della modernità che ha portato alla sconfitta e al tramonto (materiale, politico e simbolico) della società tradizionale di ancien régime.

A fronte di questo fuoco di sbarramento promosso dalla cultura politica (neo)liberale contro il linguaggio della comunità, va almeno osservato quanto segue. 1) Gli appelli al senso di comunità continuano a essere ricorrenti, e spesso sono lanciati dagli stessi esponenti dell’establishment istituzionale, culturale e mediatico delle società liberal-democratiche. Tali appelli fioriscono specie in momenti problematici o di crisi, la cui crescente frequenza, va sottolineato, sembra ormai configurare un mondo nel quale crisi ed emergenze sono la condizione “normale” delle nostre società e del loro modus vivendi: un fenomeno, questo, che si è palesato negli ultimi anni con il rapido susseguirsi, e persino sovrapporsi, di crisi economico-finanziarie internazionali (si pensi a quella del 2008), emergenze migratorie, energetiche, climatiche, virali (su tutte la crisi Covid-pandemica esplosa nel 2019), da ultimo la guerra russo-ucraina e le correlate destabilizzazione dell’ordine internazionale e minaccia nucleare. 2) Resta quanto meno assai discutibile collocare le idee e gli esponenti del comunitarismo, e del neo-comunitarismo in specie, sull’asse politico-ideologico destra-sinistra. Infatti, le idee comunitarie, il rilievo che esse accordano al senso di comunità e le spesso declamate preoccupazioni per il deficit di senso di comunità hanno abbracciato, volta a volta, ad esempio, il conservatorismo repubblicano americano o il socialismo storico europeo; hanno caratterizzato la sinistra liberal del New Deal degli anni ’30 del Novecento e la destra liberale del reaganismo e del “conservatorismo compassionevole” tra XX e XXI secolo; hanno trovato posto tanto nei movimenti sociali della nuova sinistra anti-sistema e anti-autoritaria degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo, quanto nei movimenti coevi della nuova destra, anch’essa di colore anti-imperialista e anti-liberale, movimenti entrambi radicati nel XIX e nel XX secolo ma non del tutto scomparsi ai nostri giorni; sono state agitate dal New Labour inglese di Blair a cavallo tra XX e XXI secolo così come da forze politiche indipendentiste (vedi il caso catalano, ma anche quello scozzese) o regionaliste, da istanze riformiste di democrazia federalista o autonomista.

Per un altro verso, solitamente considerati, con una certa superficialità, come referenti di un pensiero di destra rivolto a una politica di destra, e non di rado ritenuti retrivi, gli stessi esponenti del neo-comunitarismo democratico americano presentano in realtà profili sfaccettati, simpatie politiche o affiliazioni ideologiche assai variegate e spesso sorprendenti. Per fare qualche esempio significativo: il conservatore aristotelico-tomista Alisdair Mac Intyre ha una filiazione ideologico-culturale marxista e ha avuto trascorsi trotszkisti; Roberto Mangabeira Unger è un anarchico atipico con influenze nietzschiane; Charles Taylor è stato per molto tempo molto vicino alla sinistra radicale e in seguito è stato candidato del New Democratic Party alle elezioni distrettuali in Canada; Amitai Etzioni è un ex consigliere politico di due presidenti liberal statunitensi (Carter e Clinton); Michael Sandel nel 1988 ha sostenuto la candidatura alle presidenziali del democratico Dukakis; Michael Walzer è chiaramente posizionato su posizioni liberal e in Europa (specialmente in Italia) è considerato un intellettuale di riferimento della sinistra di governo.

 

III.

Una più franca considerazione degli argomenti e una più attenta valutazione delle tesi comunitarie aiuta a comprendere perché, in effetti, tali argomenti e tesi scompiglino l’asse ideologico destra-sinistra e come essi sollevino temi cruciali rispetto ai quali il posizionamento da una parte o l’altra della frattura politica destra-sinistra finisca per equivocare o immiserire la portata culturale, antropologica, morale e persino esistenziale di questioni niente affatto banali ma rilevanti per la vita collettiva[9] e per la “convivenza tra diversi”, a partire da quelle relative al rapporto individui/società. Mi pare miope continuare a non volere afferrare quanto tali questioni obliterino la politica rappresentata convenzionalmente in termini di destra e sinistra ovvero come schieramento conservatore vs progressista. Nel pensiero politico comunitario e nell’idea di comunità si racchiudono sfide politiche e valoriali che dovrebbero indurci a un paziente lavoro culturale di re-framing dei valori dominanti nella nostra epoca, e a liberarci da un “mondo di vita” (Lebenswelt) e da un universo politico dati per scontati. Simili sfide dovrebbero, piuttosto, spingere lo spazio pubblico e il dibattito politico a recuperare il discorso sui fini e a non trincerarsi in quello dei mezzi e della loro meccanica.

Tramontata la sfida “esterna” del socialismo ancorato al blocco sovietico, le società liberal-democratiche occidentali sono ormai chiamate a confrontarsi con sfide che provengono dal loro interno. Tornare a riflettere con serietà sul senso di comunità costituisce un’occasione politico-culturale per aprire un cammino verso la ricerca di una riserva di valori e di “senso delle cose” volta a restituire un significato saliente alla politica, là dove la dimensione politica contemporanea è imbalsamata nelle strettoie che la appiattiscono su un insieme di temi e azioni di ingegneria politica. La politica intesa come risposte tecniche a questioni tecniche oggi più che mai tende a sancire il compimento della “neutralizzazione della politica”. Ma la storia mostra quanto simili propositi si rivelino chimerici o forieri di realtà da incubo.

Quella comunitaria è una sfida intellettuale etico-politica, teorica e pratica, che va raccolta. Implica un confronto critico aperto e serrato. A maggior ragione ai nostri giorni. Anche di fronte al rilevo crescente che nelle società occidentali hanno assunto una varietà di fenomeni politici, sociali e culturali diagnosticabili come sintomi di un “malessere democratico” esploso propria nell’epoca in cui in Occidente la democrazia liberale è diventata the only game in the town[10]. Diffusa apatia politica dei cittadini, calo della partecipazione elettorale, credibilità declinante dei partiti tradizionali, autoreferenzialità delle élite che diventa “tradimento della democrazia”; diffusi umori “anti-politici”, sfiducia nei parlamenti e nelle istituzioni politiche, percezione (non solo popolare) dell’opacità dei processi decisionali democratici, ostilità verso i centri decisionali tecno-burocratici, libertà compromesse da nuovi regimi e tecnologie di controllo, centralità di interessi egoistici e di potentati economico-corporativi, esplosione di domande di riconoscimento micro-identitario e fallimento del multiculturalismo irenico e decontestualizzato (a sfondo religioso, etnico, culturale, di stili di vita, ecc.): sono, questi, solo alcuni dei fenomeni che segnalano la condizione critica delle liberal-democrazie di massa del nostro tempo. Sono fenomeni che, a ben vedere, per un verso, riflettono un acuirsi del discredito che sta corrodendo la cultura, la politica e le istituzioni liberal-democratiche; per l’altro verso, mostrano una società contemporanea in preda a fibrillazioni, febbri e convulsioni. Una simile condizione critica non è estranea al tema del “senso di comunità” oggi.


NOTE
[1] Si tratta di Leon Wieseltier. La citazione è tratta da un articolo pubblicato sulla rivista “Liberties” nel 2022.
[2] Da prospettive diverse vedi, ad esempio, S.N. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000; B. Barber, The World vs. Jihad. How Globalism and Tribalism are Reshaping the World, Crown, New York, 1995; F. Fukuyama, Esportare la democrazia, Lindau, Torino, 2005.
[3] Ideologia: termine composto da idéo (idea) e logìa (dal greco logos: pensiero, ragione, discorso, trattazione).
[4] In corrispondenza con quanto ricordato nella nota precedente, in questa sede la nozione di ideologia è intesa nel senso weberiano di Weltanschauung, e non già in quello marxiano di “falsa coscienza”.
[5] Una rappresentazione che in buona misura coincide con l’auto-rappresentazione della cultura politica neo-liberale.
[6] Vedi G. Nevola, La democrazia nello specchio della rivoluzione: il mito della Rivoluzione d’Ottobre e la crisi della politica contemporanea, in “Rivista di Politica”, 4, 2018; G. Nevola, L’Occidente dopo la Rivoluzione russa e il disincanto democratico (2017-2017), in G. Natalizia (a cura di), La Russia e l’Occidente. Dinamiche politiche a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, Vita e Pensiero, Milano, 2018.
[7] In merito rimando a diversi articoli pubblicati su questo sito. Più in generale vedi G. Nevola, Il malessere della democrazia e la sfida dell’”incantesimo democratico”, in “Il Politico”, 1, 2007; G. Nevola, Il ‘fatto’ democratico, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, Milano 2022.
[8] Una meritoria antologia di testi e sul dibattito disponibile per il pubblico italiano è: A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992.
[9] Sul tema resta di riferimento R.N. Bellah et alii, Habits of the Heart. Individualism and Committment in American Life, University of California, Los Angeles, 1985.
[10] Al riguardo rimando a G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare. Fondamenti di legittimità e Benedetto XVI ‘teorico della politica’, in “Sociologia del Diritto”, 1, 2018; G. Nevola, Il ‘fatto’ democratico, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, Milano 2022.

* * * *

 

II. La comunità nel pensiero politico. Un abbozzo storico-intellettuale

 

1.

Nel linguaggio accademico contemporaneo, e nella cultura politica che vi si alimenta, il termine di comunitarismo designa un movimento di idee e un filone di teoria politica che si è affermato negli Stati Uniti, a partire dall’inizio degli anni ’80 del XX secolo, in reazione alla crescente dominanza della concezione (neo)liberale della vita collettiva. Incardinato sulla difesa delle “ragioni della comunità” di fronte a una visione della società e della storia che tende ad assolutizzare l’individuo e la sua razionalità, il comunitarismo ha alle spalle una storia assai più lunga – tanto che la sua ondata contemporanea è spesso chiamata neo-comunitarismo. Come in altri casi, anche in questo il mutamento delle etichette tramite l’uso di prefissi quali neo- o post- tiene viva l’attenzione sull’antichità della “cosa” o dell’idea evocata: nella fattispecie: l’antichità della “cosa-comunità” e del suo linguaggio volto a rappresentare la rete delle relazioni sociali in forma di comunità. Si tratta, insomma, di una lunga tradizione comunitaria alla quale è bene fare riferimento per tenere l’occhio vigile sui suoi elementi costanti e variabili. Lo schizzo storico-politico-culturale che segue offre qualche spunto anche al riguardo.

La tradizione comunitaria vede la società come luogo simbolico e materiale, pubblico e politico, dove i rapporti tra i membri che vi convivono sono “densi”: ossia, rapporti che non sono riducibili o riconducibili alla formalità dei ruoli impersonali, bensì immersi in una trama affettiva e di con-vissuti (individuali e collettivi), permeati da relazioni di sim-patia (per usare una nozione in auge nel XVIII secolo e cara al liberale Adam Smith[1]).

 

2.

Questa idea “comunitaria” di società, che identifica famiglia e gruppi amicali come sue “forme elementari”[2], percorre tutta la storia del pensiero occidentale. Dall’antica Grecia (tra alti e bassi) arriva fino ai nostri giorni. L’idea comunitaria di società innerva il pensiero politico di Aristotele, dove la famiglia costituisce la la forma primigenia di organizzazione sociale che lascia la sua impronta nelle forme più allargate e complesse assunte dalla società. Un’analoga idea comunitaria di società si trova nel pensiero comunalista e in quello corporativista del medioevo o nell’articolata architettura politico-istituzionale di Althusius, la cui struttura integra molteplici livelli associativi e territoriali[3]. L’idea comunitaria opera anche nel definire la “logica del dono”, illuminata a partire dagli studi antropologici di Marcel Mauss, che individuano in tale logica un “elementare” e saliente meccanismo di integrazione sociale caratteristico delle “società primitive” e basato su una reciprocità sociale non-utilitaristica e non codificata in norme giuridiche formali.

Ma il momento culminante nella messa a fuoco dell’idea comunitaria di società giunge a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in reazione al mondo moderno che matura con la rivoluzione industriale e con la Rivoluzione Francese. La crisi della società tradizionale e dei suoi schemi di solidarietà; l’affermazione del valore emancipativo dell’individuo liberato dai “corpi collettivi”, cioè da quella dimensione collettiva dentro/attraverso la quale l’individuo definisce il suo orizzonte di senso; il trionfo del liberalismo nella sfera economica, giuridica, politica e del razionalismo illuminista come criterio-guida di ogni condotta umana e del governo della cosa pubblica: sono, questi, alcuni dei segni principali di quella modernità che, secondo la visione comunitaria, finisce per ammalare tanto i singoli individui, tramutati in atomi abbandonati a se stessi, quanto la società nel suo insieme, esposta a pressioni anomiche. Con il sopravvento della società moderna, nella sfera delle relazioni sociali orizzontali accade, ad esempio, che alla reciprocità dettata dai costumi o dalla logica e dall’ethos del dono subentra una reciprocità utilitaristica e vincolata al contratto; analogamente, nelle relazioni politiche verticali[4], tra governanti e governati, tra masse ed élite, l’evergetismo (pratica ritualizzata tramite la quale le élites rispondono all’obbligo di prendersi cura dei bisogni della collettività) progressivamente cede il posto ai programmi di welfare state (intesi come pratica giuridicamente definita e amministrata per rispondere ai bisogni, ritradotti in diritti di cittadinanza, dei membri di una società)[5].

La fine dell’ancien régime a vantaggio del regime di modernità apre a una fase storica in cui via via alla critica illuminista del vecchio mondo si sovrappone rapidamente un senso di “crisi da modernità”[6]: un travaglio critico che agita l’Europa della modernità e di cui si fanno interpreti importanti personalità pubbliche e settori dell’universo culturale. Voci di intellettuali, filosofi e scrittori politici, poeti e letterati si elevano a difesa del “vecchio buon tempo andato” e delle sue virtù, declinando il tema da una varietà di angolature. In questo clima, la nostalgia per la comunità in molti casi alimenta l’elogio di un modello di vita comunitaria idealizzato e trasfigurato; ma, allo stesso tempo, il riferimento alla comunità non di rado si configura come principio-guida per una riorganizzazione della società del presente (attraverso progetti, sperimentazioni e strategie di intervento sui meccanismi di funzionamento e i luoghi della società). In ragione del suo carattere sfaccettato, il comunitarismo ante litteram che nasce e si sviluppa a cavallo tra XVIII e XIX secolo diventerà per sempre un compagno di viaggio del liberalismo e delle sue alterne fortune. Le ragioni di una “società delle comunità” (o “società del noi”) giungeranno fino ai nostri giorni come l’altra faccia delle ragioni della “società degli individui”[7], al di là di tutti i mutamenti di linguaggio, di consapevolezza dottrinaria o di lucidità teorica e filosofica che si susseguiranno.

È dalla profonda costellazione politico-culturale sopra sommariamente ricordata che prendono forma la storia e i motivi ispiratori di un comunitarismo variegato, bisecolare e moderno che, volens o nolens, diventeranno componente costitutiva, ma anche controversa, dell’altrettanto controverso liberalismo: una sorta di canto-e-controcanto della modernità occidentale. Come si può intuire, e come ha messo in evidenza Furet[8], ci troviamo nel pieno di una “dialettica della borghesia” (per utilizzare categorie che oggi appaiono un po’ retrò): ossia di fronte allo spirito borghese che si afferma e al suo “doppio” che lo critica.

 

3.

Tracce di comunità sono riconoscibili nella teoria politica Rousseau, rivoluzionario e illuminista sui generis, nella sua idea di democrazia, nel suo repubblicanesimo e nel suo principio di volontà generale; ma anche nella reazione tradizionalista e “antimodernista” alla Rivoluzione francese (Louis De Bonald, Joseph de Maistre; Robert de La Mennais; Edmund Burke). In questi differenti contesti politico-culturali, l’Illuminismo viene criticato nei suoi stessi caposaldi filosofico-antropologici (razionalismo, individualismo, universalismo); così come si mette in discussione l’uomo ritratto ed esaltato dalla Dichiarazione dei diritti universali e dell’uomo, ritenendo che la cultura della Dichiarazione riduce l’uomo a individuo astratto e isolato. Così, ad esempio, De Bonald reclama ed enfatizza la primazia della ragione sociale su quella individuale, mentre De Maistre ironizza sull’“Uomo”, osservando di non aver mai incontrato un tale Uomo ma solo uomini situati in società specifiche (“francesi, italiani, russi”).

Il riferimento alla comunità risulta poi cruciale nel delineare i motivi di fondo del Romanticismo, specie del movimento poetico e filosofico tedesco (ma anche inglese), così come nell’ispirare la cultura e il pensiero politico del nazionalismo ottocentesco: Fichte, Schelling, von Kleist, Hölderlin, Novalis, Schlegel, Adam Müller, Schleiermacher, e per alcuni aspetti anche Goethe e Hegel. Ciascuno a suo modo esalta la pienezza del soggetto, dei suoi sentimenti e delle sue emozioni, ne sottolinea l’ancoraggio ai luoghi natii amati, alla lingua, alla musica, ai costumi, alla terra-Heimat. È da questa angolatura che trova sviluppo la critica del trionfo dell’homo oeconomicus: una critica diretta contro la riduzione della vita sociale a logica utilitaristica, a economia politica, a contrattualizzazione (formalizzata) delle relazioni sociali. Per un altro verso, l’idea di comunità originariamente concepita in opposizione allo Stato-nazione viene ripensata come “comunità nazionale”, nella quale l’idea dello Stato come comunità di spirito e di vita viene contrapposta allo Stato-macchina. Simili sviluppi trovano voce, oltre che in Germania, un po’ in tutta Europa, a partire da Italia e Francia (Mazzini, Michelet, Barrès, Maurras). Secondo tali linee di pensiero, i vincoli dell’obbligazione politica che strutturano e legittimano l’ordine sociale, politico e statuale sono considerati tali in quanto possiedono e riescono a esprimere significati emozionali: qui la dimensione delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni assume quei connotati che oggi la filosofa Martha Nussbaum sintetizza come “intelligenza delle emozioni” e che il sociologo Robert Bellah riconduce alle tocquevilliane “ragioni del cuore”: una dimensione della vita sociale e pubblica, insomma, che mal si presta a essere concepita in termini di irrazionalità, ma che chiama piuttosto in causa la ragione dei sentimenti[9]. A suo modo, questo è il caso, ad esempio, del Romanticismo politico di Adam Müller.

La comunità, ancora, è assunta a baricentro politico (ideologico e istituzionale) anche nello slavofilismo russo, compresa la sua variante populista, dove si esaltano religione, costumi e tradizioni come “verità interiori”; dove si accentua la centralità della libertà del popolo a fronte di quella dei singoli individui; dove si identifica la comunità agricola (obščina) come luogo di vita armoniosa, autentica e appagante, contrastandola con l’aridità della società liberal-borghese dell’Occidente. A esibire istanze comunitarie sono pure le correnti di anti-individualismo e anti-capitalismo occidentali, e ciò non solo sul versante rubricato come conservatore: tali istanze, infatti, risultano non meno protagoniste negli orientamenti progressisti, quali ad esempio il “socialismo utopico” pre-quarantottesco (si pensi a Saint-Simon, Owen o Fourier) o il socialismo del giovane Marx.

Motivi di tipo comunitario permeano la cultura politica tedesca. È il caso, da un lato, della difesa della Kultur e dei suoi valori umanistici di contro alla Civilisation di marca francese, che viene rifiutata in quanto ritenuta piegata ai valori del mercantilismo, della tecnica e dell’omologazione delle identità dei popoli, come riscontriamo ad esempio in Otto von Gierke[10] , in Tönnies[11], in Spengler, in Carl Schmitt o nel Thomas Mann delle Considerazioni di un impolitico. È il caso, dall’altro lato, del comunitarismo della Jugendbewegung, che attorno all’idea di un ritorno alla (o della creazione di una) “comunità autentica” coagula il disagio giovanile nei confronti del formalismo e dell’autoritarismo della società guglielmina, cercando di esprimere tanto l’anelito a di un genuino contatto con la natura e tra gli uomini, quanto il desiderio di una riappropriazione vitale della cultura popolare radicata nella terra-Heimat.

 

4.

Con le aspirazioni a vissuti relazionali improntati alla fratellanza, sincerità e trasparenza di una vita comunitaria, questa cultura della Volksgemeinschaft entrerà presto a far parte del patrimonio ideologico nazista: reinterpretata in chiave biologica e razziale, e a partire dagli anni ‘20-’30 del Novecento alimenterà quel “comunitarismo nazista” della Hitlerjugend. Nel corso del XX secolo, tuttavia, domande di comunità sono presenti non solo nella cultura e nella politica novecentesche della destra estrema, ma caratterizzano anche il socialismo “piccolo borghese” e corporativista di un Carlyle, il liberalsocialismo associativo-cooperativista (H. Laski, J.A. Hobson, G. Cole), l’anarchismo americano di Mumford, il comunismo di Max Adler e quello di Gramsci; così come maturerà un comunitarismo di ispirazione religiosa, dove trovano elaborazione concetti quali “comunità come dialogo” (Martin Buber), “comunità fraterna” (Jacques Maritain), “persona-nella-comunità” (Emmanuel Mounier), comunità come “unità di sentimenti” e come cellula di vita democratica (Adriano Olivetti). Nel Novecento, inoltre, l’idea di comunità penetra in profondità nelle teorie delle scienze sociali, in particolare in quelle dei padri della sociologia contemporanea (Durkheim e Weber). Attraverso le scienze sociali, infine, la comunità e l’idea di comunità diventano oggetto di analisi scientifica condotta con metodo empirico e sistematicità analitica, a partire dal caso esemplare della così detta Scuola di Chicago[12].

Alla fine del Novecento, l’idea di comunità acquista nuovamente un forte rilievo, e una visibilità e accreditamento accademico, raramente avuti nel passato, nell’ambito della teoria politica e della riflessione filosofico-politica. Questa ondata comunitaria si distingue per autoconsapevolezza e sistematicità nell’uso della comunità come lente concettuale orientata a tematizzare una ricca serie di questioni rilevanti per la vita personale, collettiva e politica nelle società liberal-democratiche contemporanee. E con questo siamo giunti al comunitarismo dei nostri giorni, al così detto neo-comunitarismo. Ed è soprattutto con riferimento a questo recente movimento filosofico e di teoria politica che mi soffermerò sulla questione comunitaria ai tempi delle “nostre democrazie”.

 

5.

A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo, il neo-comunitarismo, pur nella varietà dei temi e delle tesi elaborate dai suoi singoli esponenti, si propone di recuperare l’idea di comunità nel contesto di società (neo)liberali-democratiche. Anche grazie al suo contributo, nel corso degli ultimi decenni, la “questione comunità” – come detto – ha acquisito un significativo riconoscimento politico-culturale nel dibattito pubblico e nelle aule universitarie, anzitutto sul versante della filosofia e della teoria politica, ma anche in quello delle scienze sociali, arrivando a fornire una sua interpretazione della società. Si è trattato di una sorta di rilancio, ad ampio spettro tematico, della concezione dell’uomo come “animale politico e sociale”, là dove questa appare in arretramento di fronte al furoreggiare di dottrine neo-liberali efficacemente sintetizzate nell’icastico e fortunato slogan attribuito a Margaret Thatcher: “La società non esiste, esistono solo individui”.

Con la ripresa della concezione aristotelica dell’uomo politikòn zôon (πολιτικὸν ζῷον), il comunitarismo contemporaneo affronta nodi basilari della teoria politica: quali sono i principi su cui si fondano la convivenza civile e l’associazione politica? quali sono i fini che è giusto perseguire e cercare di realizzare?[13]. Ciascuno a suo modo, gli esponenti del neo-comunitarismo fanno riferimento alla comunità come modello di vita sociale e di associazione politica, reagendo all’individualismo assunto a perno del pensiero liberale: nel farlo, alcuni si mostrano più orientati a una “fermezza comunitaria”[14], altri più inclini a una “flessibilità comunitaria”[15]. Per quanto la critica comunitaria al liberalismo dominante si ponga sul piano del discorso normativo e spenda argomenti a favore di una teoria del buon governo e della buona vita collettiva, tale critica non è tuttavia aliena dall’offrire elementi di diagnostica empirica (di natura sociologica) sulle condizioni di salute delle società neoliberali contemporanee e dei suoi membri. Legami sociali che si dissolvono, identità personali e collettive sradicate o disorientate, egoismi individualistici che occupano la scena della vita sociale, diseguaglianze ed esclusioni sociali e culturali, libertà ridotte a entitlements ma povere di provisions e capacities e che producono “vite di scarto” e allontanano da una “società decente”[16]: sono alcuni dei principali sintomi della condizione di malessere delle società (neo)liberal-democratiche[17]. Tali fenomeni critici indicano un “disagio della modernità”[18], che i sostenitori del comunitarismo contemporaneo fanno risalire a un “deficit di comunità” provocato dalla modernità/modernizzazione o, per meglio dire, provocato dal modo in cui modernità e modernizzazione sono state concepite e coltivate, implementate e legittimate con crescente rigidità dall’ideologia liberale/neoliberale che detta un mondo TINA-oriented[19].

A questa sorta di Gestalt del liberalismo si imputa una concezione astorica e disincarnata del soggetto (self), ridotto a individuo “atomizzato”, votato utilitaristicamente alla massimizzazione dei propri interessi egoistici: una concezione, questa, che finisce per disconoscere o sottovalutare quanto i legami sociali, l’impegno (committment) reciproco e il contesto collettivo degli individui siano parte costitutiva della stessa identità individuale (personale e sociale) dei singoli[20]. Facendo leva sull’universalismo astratto dell’eguaglianza, della ragione e dei diritti dell’uomo, il liberalismo, secondo l’accusa comunitaria, erode e svaluta le tradizioni e i contesti di vita, dove invece sarebbero custodite e alimentate quelle “risorse di senso” di cui gli uomini non possono fare a meno nella misura in cui conducono la propria esistenza individuale insieme ad altri, in mondi collettivi. Collocate su questo sfondo, le critiche comunitarie sono rivolte alle tesi portanti della filosofia politico-morale liberale e della sua correlata antropologia filosofica e filosofia teoretica. Dette tesi liberali possono essere ricondotte ai seguenti principali capitoli di riflessione: 1) la nozione del sé ovvero del soggetto (self); 2) il rapporto tra individui e società, e la tendenza a considerare questa società come pura e semplice “società degli individui”; 3) la visione universalistica della società umana, e la conseguente sottovalutazione dei concreti e particolari contesti di vita permeati di storicità; 4) il concetto di “neutralità” del diritto e delle istituzioni politiche rispetto alle concezioni del “bene”; 5) il primato dei diritti soggettivi individuali sui doveri collettivi e sui diritti collettivi non solo delle minoranze etniche, linguistiche o religiose.

Anche se tende a formulare i suoi argomenti “in negativo”, ossia in chiave di critica della visione liberale della società, e in specie in contrasto con la formulazione filosofica e teorico-politica tardo-novecentesca e neokantiana dovuta all’opera paradigmatica di John Rawls[21], il pensiero comunitario, nel suo insieme, può essere ricostruito anche “in positivo”, alla luce di quattro (intrecciati) motivi ispiratori o macro-ambiti tematici: A) il soggetto incarnato e contestualizzato (concezione del sé); B) il senso di comunità (concezione della società); C) gli obblighi o vincoli dell’appartenenza e dei legami sociali declinati come virtù di cittadinanza (concezione del rapporto tra individuo e società); D) la “neutralità impossibile” dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche (concezione dello Stato costituzionale, liberale-democratico e secolarizzato). Nelle parti che seguiranno mi occuperò di ciascuna di queste quattro classi di motivi ispiratori o macro-temi della teoria politica neo-comunitaria.


NOTE
[1] Come risulta eloquente in A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano, 2001 (ed. or. 1759).
[2] Uso la nozione di “forme elementari” nell’accezione metodologica di E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano, 1963 (ed. or. 1912).
[3] Tali livelli costituiscono i diversi gradi politico-istituzionali della consociatio teorizzata da Althusius: famiglia, villaggio, “collegio”, civitas, provincia, regnum.
[4] Le relazioni politiche verticali sono relazioni strutturate sulla base di asimmetrie tanto di potere sociale, quanto di potere istituzionale, e sono correlate alle risorse sociali padroneggiate dai diversi soggetti delle relazioni.
[5] Vedi P. Veyne, Il pane e il circo. Sociologia storica e pluralismo politico, Bologna, il Mulino, 1984.
[6] Vedi R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, il Mulino, 1984.
[7] Mutuo l’espressione da N. Elias, La società degli individui, Bologna, il Mulino, 1990. Vedi anche M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali, Torino, Einaudi, 2020.
[8] Vedi F. Furet, La fine dell’illusione, Mondadori, Milano, 1995.
[9] Vedi M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna, 2009; R. N. Bellah et alii., Habits of the Heart, University of California Press, Berkeley e Los Angeles,1985.
[10] Von Gierke giunge, ad esempio, a formulare una concezione comunitaria dello Stato ripartendo da Althusius.
[11] A Tönnies si deve, lo ricordiamo, la nota contrapposizione tra Gemeinschaft e Gesellschaft (comunità e società).
[12] Talcott Parsons, influente sociologo teorico statunitense, negli anni ’70 del Novecento riprende, con il suo peculiare linguaggio, il concetto di comunità attraverso la nozione di “comunità societaria”, la quale si riferisce all’insieme di norme e istituzioni che integrano una società motivando i suoi membri ai vincoli di lealtà reciproca. Vedi T. Parsons, The Systems of Modern Societies, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N. J.), 1971.
[13] Vedi ad esempio C. Larmore, Modernité et morale, Presses Universitaires de France, Parigi, 1993.
[14] Tra questi, ad esempio, Alisdair McIntyre, Michael Sandel, Charles Taylor.
[15] Tra questi, ad esempio, Amitai Etzioni, Robert Bellah, Cristopher Lasch, Michal Walzer, Philip Selznick.
[16] La distinzione tra entitlements e provisions è ripresa da R. Dahrendorf, il concetto di capacities da A. Sen, la nozione di “vite di scarto” da Z. Bauman, quella di £società decente” da A. Margalit.
[17] Vedi G. Nevola, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida del’‘incantesimo democratico’, in “Il Politico”, 1, 2007; G. Nevola, Ripensare la cultura politica del senso civico. Tra paradigma liberale e paradigma comunitario-repubblicano, in “Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione. Studi di Teoria e Ricerca Sociale”, 3. 2016.
[18] Vedi Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1993.
[19] Acronimo che, come è noto, sta per There Is No Alternative e che si è vieppiù imposto con il sorgere del “mondo del post 1989”, un mondo unipolare, globalizzante, neoliberale-democratico e approdo finale della Storia
[20] Per i concetti di identità personale individuale e sociale, e identità collettiva rimando a G. Nevola, Democrazia, Costituzione, Identità, Liviana-Utet, Torino, 2007.
[21] Vedi J. Rawls, A Theory of Justice, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Ma.), 1971.

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III. La ‘neutralità impossibile’ dello Stato costituzionale

Perché occuparsi della comunità nell’epoca liberal-democratica? Secondo la filosofia politica liberale le società libere e pluralistiche del nostro tempo sono tali in quanto perseguono e realizzano un obiettivo fondamentale: dare forma a uno spazio politico-giuridico nell’ambito del quale ciascun individuo (o gruppo di individui) vede riconosciuta e rispettata la propria “concezione del bene”, senza che lo Stato e le istituzioni pubbliche in genere pongano impedimenti all’una o all’altra concezione o ne favoriscano alcuna. È, questa, l’idea che definisce il “principio di neutralità” delle istituzioni pubbliche in uno Stato di diritto costituzionale, in una democrazia pluralistica, procedurale, laica, secolarizzata e “società aperta”. Questa pretesa liberale della “neutralità” dello Stato di diritto democratico: 1) esclude l’esistenza di una concezione etico-politica preferibile rispetto ad altre e che sia condivisa; 2) affida la regolazione della vita pubblica a un corpo di norme procedurali e neutre che garantiscono a ogni cittadino di perseguire la propria concezione di “vita buona”. La teoria politica del comunitarismo rigetta questa tesi e i suoi presupposti filosofici, politici e socio-antropologici per diversi motivi. Di seguito mi soffermo su quelli che ritengo i principali.

 

1. Il soggetto “incarnato” e contestualizzato

La concezione del soggetto elaborata dal comunitarismo contemporaneo muove da una presa di distanza da quella tipica del pensiero liberale. Nel paradigma liberale il soggetto è definito nel quadro di un individualismo astratto, formale, universalistico; il soggetto risulta come spogliato delle sue determinazioni e specificità derivanti dal suo contesto (storico, sociale, politico, culturale, personale). La teoria politica liberale si sviluppa sulla base di un concetto idealtipico di “soggetto decontestualizzato e astratto”; ciascun soggetto intrattiene relazioni sociali con gli altri al fine di realizzare sé stesso, perseguire il proprio piacere (felicità) e propri interessi (utilità). Orientamento all’edonismo, all’utilitarismo e alla sicurezza sono tratti primari che riassumono la cifra identitaria di questo soggetto: la società si forma, e con essa la rete delle relazioni sociali, sulla base di scelte di vita individuali, libere e razionali dettate da questi caratteri identitari del soggetto legati alla “natura umana”[1]. Ebbene, c’è qualcosa di male? Il punto principale non è questo, bensì: fino a quale punto le cose stanno così? Ad affinare il nostro sguardo sulla questione non giova considerarla da una prospettiva diversa e contrastante? Dato che la mia risposta alla seconda domanda è Sì, allora procedo di conseguenza. E lungo la strada, mi auguro, che possa diventare un po’ più chiara anche la risposta alla prima domanda.

Per i teorici (neo)comunitari un’esistenza, per così dire, pre-sociale del soggetto è semplicemente impensabile: gli individui trovano già “data”, già là attorno a loro quella società che è costitutiva dei loro modi di essere al mondo e che modella le loro scelte possibili, nascono già dentro il tessuto delle relazioni e di questo tessuto si nutrono ben prima di qualsivoglia libera e razionale scelta. Michael Sandel, ad esempio, critica la concezione dell’unencumbered self del liberalismo su cui si è fondata l’idea liberale di libertà che ha poi trovato un punto di riferimento nella teoria morale di Rawls e nei suoi concetti-cardine di “posizione originaria” e “velo di ignoranza”[2]. È da questa concezione del “soggetto sgombrato e decontestualizzato” che scaturisce l’idea rawlsiana di libertà, che peraltro rimanda a quella “libertà dei moderni” messa a punto nel XIX secolo da Constant[3]: un’idea di libertà, rileva Sandel, che libera il soggetto di quella sorta di “ingombro” che sarebbero gli impegni che egli avrebbe nei confronti della sua comunità e che sono peculiari dei legami comunitari. Secondo Sandel questi impegni e legami, invece, precedono le libere scelte degli individui. Sandel è sostenitore di una concezione del “soggetto situato”, basata sul concetto di “comunità costitutiva”[4]: qui, il soggetto non è anteriore ai fini che egli persegue, dato che egli stesso è costituito dai suoi fini, i quali, a loro volta, soltanto in parte sono definiti dalle sue scelte. Per Sandel, infatti, il soggetto è “situato” e “incarnato”: il soggetto è (la sua identità è data da) tutto ciò che viene a costituirlo. Considerato in questa prospettiva, il soggetto fa uso della sua stessa ragione solo sulla base di ciò di cui egli è dotato, caso per caso, contesto per contesto. La comunità in cui il singolo soggetto conduce la sua vita non è solo o tanto un mezzo o un’arena tramite e dentro la quale l’individuo opera per soddisfare i suoi peculiari bisogni e i suoi interessi egoistici; la comunità, piuttosto, rappresenta il fondamento che nutre l’individuo e ciò che egli sceglie di perseguire. La comunità, in questo caso, è implicata non solo nella definizione degli interessi coltivati dai suoi membri, ma anche nel forgiare le loro stesse identità[5]. La formula “la vita comunitaria è costitutiva dell’individuo” rimanda, per scioglierla in un linguaggio più “concreto” e che guarda alla fenomenologia della vita sociale: a famiglia, quartiere, città o tribù, a gruppi amicali, a enclaves di stili di vita, a contesti economici e lavorativi, a sistemi educativi, a istituzioni politiche e giuridiche, insomma a tutta quella varietà di “fatti sociali” e costumi, pratiche e credenze che operano nella vita dell’individuo fin dall’infanzia e che fanno di ogni individuo ciò che egli è. La stessa ragione e la stessa consapevolezza e conoscenza di sé sono inseparabili dall’individuo-che-vive-con-gli-altri in determinati contesti. Visti sotto questa angolatura, sottolinea Sandel, gli individui non possono né devono essere considerati «come dei soggetti separati che hanno certe cose in comune», ma piuttosto «come dei membri di una collettività data, ciascuno dei quali ha suoi tratti particolari»[6].

La sottolineatura della “particolarità” di ciascun singolo individuo consente a Sandel di respingere la più classica delle obiezioni liberali, la quale punta l’indice contro l’omogeneità di una comunità che determina soggetti “identici”: un mostro morale, certo, ma anche un “oggetto inesistente”. La sottolineatura della particolarità di ciascun singolo individuo, d’altra parte, non preclude, invece, la possibilità di tenere fermo quello che è forse il punto decisivo della filosofia politica comunitaria e sul quale confluiscono gli argomenti di Sandel in tema di natura del self: «se noi siamo in parte definiti dalle comunità di cui facciamo parte, allora noi dobbiamo ugualmente trovarci coinvolti negli obiettivi e nei fini che caratterizzano queste comunità»[7]. Questo argomento apre al problema dei vincoli di obbligazione politica degli individui nei confronti della comunità di cui essi sono membri appartenenti, problema sul quale tornerò più avanti.

Un altro contributo importante per la concezione comunitaria del sé (o soggetto) viene da Alisdair MacIntyre e dalla sua critica del soggetto autonomo ed «emotivista» (come egli lo chiama) tipico del pensiero liberale. Per il filosofo scozzese-americano, questo soggetto figlio della modernità e del mondo democratizzato, oltre a essere astratto, disancorato e “vuoto di determinazioni”, o meglio: proprio in quanto tale, un simile soggetto risulta moralmente non-razionale: «Questo io democratizzato, che non ha alcun contenuto sociale necessario e alcuna identità sociale necessaria…, può dunque essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo o punto di vista, perché in sé e per sé non è nulla (…) Qualunque siano i criteri, i principi, le fedeltà a determinati valori che l’io emotivista può professare, essi devono essere intesi come espressioni, atteggiamenti, preferenze e scelte non governati a loro volta da alcun criterio, principio o valore, poiché al contrario stanno alla base di questi ultimi e li precedono. Ma da ciò consegue che il passaggio dell’io emotivista da una posizione morale all’altra non può costituire una storia razionale»[8].

La deriva a-razionale (se non irrazionale) di questo soggetto della modernità illuministica e liberale lascia intendere un mondo, sul piano collettivo e politico-culturale, dominato da un relativismo dei valori in cui qualunque posizione o preferenza può essere giustificata in sé stessa, da ciascuno e per ciascuno, poiché è nella libertà stessa del soggetto moderno-liberale, nelle scelte che egli compie, che i valori trovano la loro auto-fondazione. Per la teoria (neo)comunitaria questo rappresenta un ulteriore aspetto che induce alla critica del soggetto universalistico e decontestualizzato esaltato dall’universo illuministico-liberale. A questo tipo di soggetto Mac Intyre oppone il modello antitetico del “soggetto particolaristico” tipico dell’universo omerico-eroico: un soggetto, cioè, definito dai suoi contesti e legami comunitari, e responsabile verso la comunità di appartenenza. Da questo contrasto tra tradizioni storiche relativamente al modo di concepire il soggetto, Mac Intyre non trae motivo di apologia del tradizionalismo pre-moderno, bensì approda a una prospettiva tesa a tenere in vita ragioni e argomenti alternativi rispetto a quelli liberali in tema di soggetto: ragioni e argomenti sulla base dei quali prendere distanza dal relativismo morale alimentato dal liberalismo e dalla propensione di quest’ultimo verso l’ingiudicabilità morale di ogni tradizione. A questo riguardo, come sottolinea Mac Intyre, entra in gioco la questione dell’universalismo liberale e del suo carattere equivoco: un aspetto, questo, che lo rende ben poco in accordo con quell’ingiudicabilità e il relativismo morali perorati dal pensiero liberale-illuminista convenzionale, tanto che per quest’ultimo l’ingiudicabilità e il relativismo morale, in fondo, sono fatti valere per tutte le tradizioni e civiltà storiche eccetto quella liberale-modernista (che, invece, tende a essere assolutizzata).

In un passaggio che merita di essere citato per esteso e letto con attenzione, Mac Intyre osserva infatti che: «il fatto che l’io debba trovare la propria identità morale in e attraverso l’appartenenza a comunità quali la famiglia, il vicinato, la città o la tribù, non implica che egli debba accettare le limitazioni morali dovute alla natura particolare di tali forme di comunità. Senza queste particolarità morali da cui partire non ci sarebbe mai nessun punto da cui partire; ma la ricerca del bene, dell’universale, consiste appunto nel superamento di tali particolarità. Tuttavia, la particolarità non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata. L’idea di sfuggirle rifugiandosi in un regno di massime totalmente universali che appartengono all’uomo in quanto tale, sia nella sua forma kantiana del diciottesimo secolo sia in quella rappresentata da certe filosofie morali analitiche contemporanee, è un’illusione, e un’illusione che produce spiacevoli conseguenze»[9]. Qui Mac Intyre richiama la dialettica particolare-universale che dà forma e contenuto a un duplice legame: quello tra soggetto e soggetto e quello della “comunità-con-gli-altri” – insomma, i legami tra la comunità e i suoi membri. Mac Intyre concepisce tali legami in chiave “narrativa”: il soggetto è “incastrato” in una storia di vita che è quella della sua particolare comunità e che egli stesso contribuisce a creare, secondo un τέλος indissociabile dalla sua appartenenza specifica e secondo una narrazione aperta dove il contesto comunitario lascia spazio al soggetto e alla sua voce[10]. Questo legame narrativo tra soggetto e comunità è indice di una vita-con-gli-altri e di quanto la vita che fluisce in questo intreccio di legami sia una “storia con-divisa”, ma non necessariamente monolitica, né omogenea o identica per tutti.

Con Charles Taylor muta la strategia argomentativa, ma non la ratio della critica rivolta alla tradizione liberale. La critica tayloriana è diretta contro quella che il filosofo canadese definisce concezione atomista del soggetto e che regge l’ontologia sociale della teoria liberale e della sua idea di modernità. Secondo Taylor l’atomismo qualifica una concezione della società che vede questa costituita da individui che agiscono per realizzare dei fini che sono essenzialmente individuali[11]. Nell’ottica liberale i fini perseguiti implicano sempre, almeno in prima istanza, il raggiungimento di beni individuali: anche quando l’azione che li persegue è di tipo collettivo, il suo successo è misurato alla luce della capacità dell’azione collettiva di massimizzare i benefici (o di minimizzare i danni) individuali di ciascuno, ovvero la riuscita della mobilitazione collettiva dipende dalla sua promessa di risultati in grado di soddisfare le aspettative dei singoli chiamati all’azione. Da qui, ad esempio, il noto “paradosso di Arrow”[12], assurto a odierna pietra angolare della concezione liberale della razionalità e dell’impossibilità della razionalità collettiva, sulle cui basi si dà spiegazione dei diffusi comportamenti di free-riding. Da qui, inoltre, su un altro versante, anche l’enfasi sulla tutela dei diritti individuali, tipica delle dottrine politiche liberali. L’ontologia sociale della modernità liberale, però, trascura o sottovaluta ciò che per i suoi critici si rivela essere un dato di fatto tutt’altro che banale: gli individui dipendono dalla società e la loro stessa autonomia, o libertà, nasce, si sviluppa, si definisce e si fruisce in contesti storici che li avvolgono, e cioè sulla base di precondizioni sociali, culturali, politiche, economiche che tali contesti alimentano. Non siamo lontani dalla famosa e icastica osservazione di Marx, secondo cui «Gli uomini fanno la propria storia ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé»[13]

La “separatezza liberale” dell’individuo (e della sua dotazione di razionalità, di preferenze e di diritti individuali) dalla comunità di vita o di appartenenza dei soggetti, per un verso, trasforma il soggetto in un puro essere formale, razionale, universale e astratto, un tipo di soggetto che, invero, non si incontra mai e che non esiste nella storia. Per l’altro verso, tale separatezza liberale induce a trascurare, minimizzare o screditare il tema qui in questione, ritenendolo un elemento inessenziale per la sopravvivenza o la buona qualità dei contesti di vita collettivi. Per Taylor tali contesti di vita sono degli “universi di significati” con-divisi tra individui-che-convivono. È con riferimento a un determinato universo di significati che, volta a volta, viene definito, conservato o mutato l’ordine sociale degli uomini-animali sociali. Così ancorata, la “con-vivenza tra diversi” cerca di porre un argine al rischio di caos o di anomia sociale, che rappresentano l’altra faccia dell’identità “svincolata dagli altri” di ciascun singolo individuo[14]. In fondo, Taylor si propone una teoria politica che dia conto della legittimità, dell’opportunità o della necessità di recuperare alla società moderna e liberale-democratica del nostro tempo un tessuto morale e di legami e doveri tra gli individui che con-vivono in contesti spazio-temporali distinti: un tessuto morale che non si esaurisce negli schemi dell’utilitarismo individualistico-liberale. È in questo senso che il tessuto morale viene a configurarsi come universo di significati che definiscono, mantengono o modificano l’“ordine sociale”, che pongono un argine ai rischi di caos o di anomia sociale, e che rappresentano l’altra faccia dell’“identità sfrenata” di ciascun singolo individuo.

 

2. Il senso di comunità e la “vita con gli altri”

La visione olistica propria del comunitarismo prende certamente le distanze da quel liberalismo che pensa l’individuo nella sua autonomia (culturale, politica, morale) dai suoi contesti di vita. Ma non per questo esso profila un “imprigionamento” o un’integrazione totale dell’individuo nel suo contesto sociale. Se sull’individuo pesano delle catene, queste, per così dire, possono essere anche catene lunghe e flessibili, resta però che è miopia quella di chi non le vede o ne finge l’inesistenza, come è il caso di certi proclami liberali. D’altra parte, tra la concezione di un liberale come Rawls[15] e quella di un comunitario come Sandel non si registra è una contrapposizione netta, quanto piuttosto una differenza di accenti e di priorità nel delineare il rapporto tra la libertà degli individui e i vincoli di comunità[16]. Semplificando un po’ argomentazioni complesse, potremmo formulare la questione nei seguenti termini. Il liberalismo di un Rawls dà per scontato il fatto che il soggetto sia forgiato dalla comunità; il cuore delle sue argomentazioni è volto perciò a mettere a fuoco la rilevanza dell’autonomia o dell’identità dei singoli individui, e quindi a coltivare tale rilevanza per evitare il rischio di una perdita della libertà e della soggettività di ciascuno. Al contrario, il comunitarismo di un Sandel dà per acquisito il fatto che nella modernità il soggetto sia emancipato dalla condizione di passiva dipendenza dalla comunità e che egli sia capace di uno sguardo critico o “distanziante” verso i suoi contesti di vita, tanto che l’autoriflessività è considerata una sua caratteristica qualificante[17]: in questo quadro ciò che allora reclama considerazione sono proprio i vincoli di appartenenza, la salienza e il significato dei legami di comunità, ciò affinché si possa, da un lato, meglio comprendere la modernità come condizione umana; dall’altro lato, affinché diventi possibile porre rimedio al “disagio della modernità”, a richiedere di essere riconosciuti e valorizzati sono proprio tali legami. Per il comunitarismo il rischio insito nella condizione moderna non sta tanto nella perdita di autonomia del soggetto, quanto nel dissolvimento dei legami di comunità, un dissolvimento da cui traggono origine le condizioni di anomia sociale e di “solitudine del cittadino”[18]. In questa prospettiva, la comunità non è una semplice “riunione di individui”, ma un gruppo definito da fini ed esperienze del “vivere con gli altri” e del “con-dividere la comunità”: «La comunità … costituisce un bene intrinseco per tutti quelli che ne fanno parte… sia come una generalizzazione psicologica descrittiva (gli esseri umani hanno bisogno di appartenere ad una comunità), sia come una generalizzazione normativa (la comunità è un bene oggettivo per gli esseri umani[19]. Per dirlo con una formula, la comunità rimanda a “valori di gruppo” e non tanto a una “coincidenza di preferenze individuali”[20].

Il limite del liberalismo, dal punto di vista del comunitarismo, consiste nella tendenza a ridurre l’associazione politica a bene strumentale, là dove invece la partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità rappresenta un bene in sé, un elemento costitutivo della “vita buona”. A fronte di questa svalutazione liberale del significato politico della vita comunitaria, il comunitarismo ripropone il valore della comunità. Sandel, in particolare, distingue tre modi di concepire la comunità e quindi tre tipi possibili di comunitarismo: quello “strumentale”, quello “sentimentale” e quello “costitutivo”[21]. Il primo tipo si limita a enfatizzare la rilevanza dell’altruismo come strumento nelle relazioni sociali. Il secondo tipo apprezza le pratiche altruistiche intese come occasioni di accrescimento della coesione sociale, che sviluppano sentimenti di solidarietà, che favoriscono la produzione di benefici collettivi e che potenziano la distribuzione di tali benefici tra i membri della collettività. Queste due prime modalità di intendere la comunità possono facilmente accordarsi con la teoria politica liberale. Non è così, invece, per la terza e ultima modalità del comunitarismo, ossia quella imperniata sulla “comunità costitutiva”. Definire costitutiva la comunità significa ritenere che il soggetto non può essere concettualizzato se non in riferimento a un contesto di relazioni, ove il senso di comunità alimenta pratiche e valori che costituiscono l’individuo come persona: «L’idea fondamentale è … che l’io è scoperto molto più che scelto»[22]. In questo caso, la comunità è concepita, più e prima di quanto lo sia l’individuo, come un sistema di desideri e di bisogni: «Le diverse comunità … possono essere viste come dei ‘sistemi di desideri’», i quali delineano «un ordine o una struttura di valori, almeno in parte condivisi, costitutivi di un’identità o di una forma di vita comune»[23].

L’idea di “comunità costitutiva” è, in definitiva, l’elemento su cui poggia la stessa concezione dell’encumbered self, del soggetto “situato e pieno”. Affermare che la comunità è costitutiva, per Sandel significa anche negare che essa possa essere considerata come una delle varie opzioni disponibili per il “soggetto razionale” che opera nella “posizione originaria” come riformulata dal liberale Rawls. Come specificano Taylor e Mac Intyre, la razionalità, la responsabilità e l’autonomia morale del soggetto, che Rawls colloca in quella sfera formale e universale che è la “posizione originaria”[24], sono attributi che un soggetto deriva necessariamente dall’appartenenza alla sua comunità: ossia, dal fatto di vivere in un determinato contesto, in una data epoca e cultura, così come dalla collocazione del soggetto in una data vita di comunità, di cui egli, a sua volta, incorpora, esprime e riplasma i valori e gli orientamenti[25]. È nella “vita con gli altri” (comunitaria) che l’individuo riconosce se stesso, chiede di essere riconosciuto e viene o meno riconosciuto dagli altri, rispondendo così al bisogno umano di riconoscimento e alla domanda di reciprocità del riconoscimento intra-comunitario ed inter-comunitario[26].

 

3. Legami di comunità come virtù di cittadinanza

La modernità è l’epoca dei diritti dell’individuo[27], i quali trovano plastica espressione nel diritto di voto individuale[28]. Le teorie politiche liberali hanno sottolineato il carattere incondizionato e inalienabile dei diritti individuali dell’uomo. Secondo la tradizione moderna-liberale dei diritti di cittadinanza, i cittadini reclamano il riconoscimento dei loro diritti nei confronti dello Stato di appartenenza. Il rilievo primario attribuito ai diritti si afferma sullo sfondo di una cultura politica che tende ad alimentare, in maniera ora implicita ora esplicita, una scissione fra i diritti e i doveri. Una simile separazione risulta però alquanto stravagante, dato che i diritti, per così dire, non cadono gratuitamente dal cielo: affinché essi possano esistere e se ne possa godere, i diritti hanno bisogno di essere coltivati e nutriti. In fondo i diritti non sono altro che l’altra faccia dei doveri di cittadinanza, tant’è che nella tradizione classica era persino difficile distinguere tra titolarità di diritti e titolarità di doveri[29].

Sotto quest’ultimo profilo, il comunitarismo ripropone, a suo modo, il tema dell’obbligazione politica e mette in rilievo, in particolare, come la teoria politica liberale faccia fatica a dare conto della natura e del significato collettivi che qualificano non solo i doveri e gli “impegni con gli altri”, ma anche a dare conto dei “diritti di gruppo”, ossia diritti di appannaggio di collettività, culture o comunità[30]. Così, nella concezione liberale ortodossa, i doveri degli individui e i suoi “impegni con gli altri”, quando non vengono semplicemente negati, finiscono per essere solitamente configurati in termini di scelte volontarie, dipendenti da libero consenso ovvero in termini di impegni contrattuali o di stampo utilitaristico. Dalla prospettiva comunitaria, invece, i diritti non sono degli attributi astratti e universali ancorati alla “natura umana”, ma piuttosto il frutto di esperienze storiche di specifici contesti, il prodotto di distinte configurazioni del “vivere insieme”, l’espressione politica e giuridica di specifiche culture con a capo collettività che (secondo tendenze loro peculiari) organizzano e conferiscono significato al “con-vivere con gli altri”. Ad esempio, il diritto individuale a parlare la propria lingua è inseparabile dal diritto collettivo all’esistenza di un gruppo che pratica quella lingua[31]. In questo senso, la disponibilità di diritti individuali discende da quello che nella teoria politica comunitaria viene definito il debito degli individui nei confronti della loro comunità storica: un debito che gli individui sono chiamati a corrispondere assolvendo ai loro “doveri di appartenenza” o di convivenza, poiché è solo tramite questo assolvimento che la vita collettiva di cui gli individui sono parte può essere mantenuta in vita e così dispensare quei diritti che essa definisce, pone in essere e fa circolare, e di cui godono gli individui compartecipi della “vita in società”[32].

Da questa concezione dei diritti, il comunitarismo trae motivo per ritenere che il liberalismo finisce per suscitare una politica inflazionistica dei diritti, alla luce della quale le rivendicazioni di diritti diventano aspettative e pretese tese alla massimizzazione di interessi e piaceri egoistici di ciascuno, anche a scapito di quelli altrui, mentre, da parte sua, l’amministrazione dei diritti e del diritto-giustizia si propone come un surrogato di virtù comunitarie che difettano. Così, nell’universo liberale la giustizia si rinchiude e si risolve in un formalismo giuridico che tende a estraniarsi dai “mondi di vita”, sottraendosi al tessuto delle peculiarità di cultura e di costumi, di pratiche, valori e lingua: un tessuto convissuto del “con-vivere con gli altri”, nel contesto relazionale di una data comunità.

Queste tendenze di matrice liberale, secondo i comunitari, espongono la società a una deriva modernista dei diritti e delle libertà, la quale porta a perdere di vista la stella polare della “buona vita” e del “bene comune” su cui si giustificano i diritti e i doveri degli individui volta a volta pretesi e riconosciuti in ciascun contesto di vita e di senso. La stoffa morale della vita sociale che gli Antichi tessevano (almeno idealmente, sul piano normativo) attraverso l’esercizio delle virtù pubbliche si assottiglia. Con il tramonto della Res publica Christiana, la Sittlichkeit hegeliana cede il passo alla Moralität kantiana: la “sostanza etica” della comunità viene erosa e le obbligazioni di origine comunitaria vengono sostituite dalle obbligazioni volontarie, disponibili a ogni individuo in quanto essere astrattamente libero e razionale. La stessa tolleranza verso gli altri tende a scolorirsi in indifferenza o conformismo, vere maschere di un egoismo dissimulato e tenuto al guinzaglio che esibiscono una tolleranza equivoca, che (1) “non prende sul serio” il sistema di valori e di credenze dei contesti di vita e di cultura altrui e che (2) non fa i conti con l’esistenza della pluralità dei “mondi di vita”, delle esperienze pratiche e valoriali, né (3), tanto meno, con la difficile traducibilità di un mondo nell’altro, né (4) con la difficile traducibilità della varietà di questi mondi in un unico sistema universale[33]. Questo tipo di tolleranza malintesa può inoltre ingenerare atteggiamenti di indifferenza verso le scelte pubbliche quando queste non toccano da vicino gli interessi particolari di ciascuno, mentre invece la stessa protezione dei propri diritti individuali dipende dal mantenimento di quel tessuto morale e politico-culturale che funge da “sacra volta” di una società[34], che ciascuno dovrebbe difendere da scelte pubbliche che discriminano o minacciano di discriminare altri membri della “con-vivenza con gli altri”, a partire da quelli in condizioni di minoranza o di debolezza.

Da tutto questo discende la priorità assegnata dal comunitarismo ai doveri di cittadinanza e agli “impegni della con-vivenza con gli altri[35]. Questi obblighi, sottolinea Sandel, «oltrepassano quelli che io posso contrarre in modo volontario e gli stessi ‘doveri naturali’ rispetto agli esseri umani in quanto tali»[36].

Insomma, i diritti e la libertà di scelta di ciascuno riposano sui doveri, sui legami e sugli impegni di reciprocità comunitaria di individui situati in relazioni di “convivenza con gli altri”.

 

4. La “neutralità impossibile” dello Stato di diritto costituzionale e della democrazia procedurale

Secondo la filosofia politica liberale le società libere e pluralistiche del nostro tempo sono tali in quanto perseguono e realizzano un obiettivo fondamentale: dare forma a uno spazio politico-giuridico nell’ambito del quale ciascun individuo (o gruppo di individui) vede riconosciuta e rispettata la propria “concezione del bene”, senza che lo Stato e le istituzioni pubbliche in genere pongano impedimenti all’una o all’altra concezione o ne favoriscano alcuna. È, questa, l’idea che definisce il “principio di neutralità” delle istituzioni pubbliche che governano la società moderna della libertà e dell’eguaglianza, e che è stata variamente declinata dai pensatori liberali (ad esempio, in termini di laicità dello Stato o della democrazia; Stato di diritto secolarizzato e costituzionale; pluralismo democratico; democrazia procedurale; “società aperta”). Questa pretesa liberale della “neutralità” dello Stato di diritto democratico è nota come la tesi del primato del “giusto” sul “bene”. Tale tesi, da un lato, esclude l’esistenza di una concezione etico-politica preferibile rispetto ad altre e che sia condivisa tra i soggetti del pluralismo liberale-democratico; dall’altro, porta ad affidare la regolazione della vita pubblica a un corpo di norme procedurali le quali operano e si legittimano sulla base del principio secondo cui ciascuno soggetto deve essere libero di perseguire la propria concezione di “vita buona”.

La teoria politica del comunitarismo rigetta questa tesi almeno per due principali ordini di motivi: 1) perché, se fondata, una tale idea sarebbe disastrosa nelle sue conseguenze, data la sua insufficienza a creare quel senso di coesione necessario alla vitalità della politica democratica e della solidarietà civile, ovvero perché uno Stato laico-neutrale nella misura in cui riuscisse a realizzare un simile obiettivo si rivelerebbe incapace di riprodurre quelle “risorse di senso” (o valoriali) sulle quali esso stesso ha trovato il suo fondamento storico e di legittimazione politico-culturale[37]; 2) perché tale idea liberale si mostra illusoria o falsa, nella misura in cui essa finisce per nascondere la preferenza che uno Stato sedicente neutrale finisce implicitamente, e inevitabilmente per conferire a una data e particolare concezione del bene[38]: in particolare quando, con atti legislativi o giurisdizionali, traduce nella vita quotidiana, “fa vivere” e applica (interpretando) il principio (astratto-formale) di neutralità o le stesse norme costituzionali (generali).

A questo riguardo, nello svolgere la sua critica Mac Intyre, ad esempio, cita due concezioni liberali di giustizia, aventi entrambe pretesa di neutralità: quella di Nozick e quella di Rawls. Queste due concezioni, sostiene MacIntyre, si negano l’un l’altra le rispettive pretese di neutralità, dato che i principi da cui ciascuna di esse fa discendere la propria neutralità sono resi impossibili dalle condizioni di neutralità poste dai principi fatti valere dall’altra[39]: nemmeno dentro i confini del pensiero liberale, vien da dire, si riesce a stabilire e a condividere quali siano le condizioni di una posizione neutrale. Da questo confronto, MacIntyre conclude come le due concezioni liberali siano tra loro incommensurabili, rivelando quanto esse, mentre accampino pretese di neutralità, rimandino in effetti a visioni generali e differenti della società e del “bene”, e di fatto ciascuna finisce per privilegiare un particolare orientamento o gruppo sociale: un fallimento della pretesa di neutralità, questo, che ha origine nell’ambito della stessa tradizione politica liberale.

Secondo Mac Intyre, una moralità razionale della vita collettiva non può quindi essere basata sul principio di una neutralità universalistica, che risulta impossibile; essa invece trova radicamento nella particolarità delle forme di vita e di cultura. Ciò, in primo luogo, perché la moralità è socialmente “particolarizzata”: le regole della moralità sono sempre prodotte e apprese (e quindi vengono ad esistere) in forme socialmente specifiche e particolarizzate; in secondo luogo, perché i “beni” (diritti inclusi) che sono oggetto della moralità sono “particolarizzati” anch’essi: ossia, esistono e se ne gode in quanto contestualizzati nell’ambito di relazioni sociali definite e particolari. Tra tutti questi beni, sottolinea Mac Intyre (in un passo che riporto per esteso), centrale è «il godimento di un particolare genere di vita sociale, vissuta attraverso un particolare insieme di relazioni sociali, e quindi ciò di cui godo è il bene di questa particolare vita sociale cui partecipo e la godo per come essa è. Può anche darsi… che trarrei beneficio in maniera eguale da altre forme di vita sociale in altre comunità, ma questa verità ipotetica non diminuisce in alcun modo l’importanza della tesi che i miei beni in pratica li incontro qui, fra queste persone particolari, in queste relazioni particolari. (…) Quindi l’astratta tesi generale secondo cui regole di un certo tipo sono giustificate tramite il loro produrre e costituire beni di un certo tipo è vera solo se questi, e questi, e questi insiemi particolari di regole, incarnate nelle pratiche di queste e queste, e queste comunità particolari, producono o costituiscono questi, e questi, e questi beni particolari a partire da certi individui specifici»[40]. Oltretutto, tanto la moralità quanto i beni contestualizzati in una data comunità, come nota Taylor, non sono concepiti in termini di convergenza di interessi o valori individuali, ma sono il riflesso di un “noi” comunitario costitutivo di beni autenticamente comuni.

Un’importante implicazione della tesi comunitaria sull’“impossibile neutralità” delle istituzioni politiche e giuridiche è l’idea secondo cui un sistema politico-giuridico è strettamente legato alla sua comunità storica e morale, e suo compito è preservarla e nutrirla[41]. In questo raccordo stringente tra istituzioni politico-giuridiche e vita comunitaria è implicito anche il rifiuto della riduzione della politica (intesa come sfera che presiede all’“assegnazione autoritativa dei valori, validi erga omnes, in una società)[42] a sola procedura. È Sandel, in particolare, ad aver formulato la critica più chiara a quella che egli chiama “repubblica procedurale” e alla quale contrappone un modello comunitario di repubblica democratica caratterizzato da immediatezza e trasparenza relazionali, la cui vita pubblica è regolata anche attraverso regole collocate “al di qua del diritto (positivo)”[43]. Una repubblica puramente procedurale, e che legittima solo in virtù delle regole e del metodo decisionale-legislativo il suo regime politico democratico-liberale, secondo Sandel, in realtà non riesce ad attenersi al principio di neutralità rispetto alle concezioni del bene e della “vita buona”.

La manifestazione più evidente di questo fallimento viene riscontrata nei casi in cui le istituzioni pubbliche (un’assemblea legislativa o, soprattutto, un tribunale, una Corte Costituzionale o Corte Suprema come nel caso degli Stati Uniti) sono chiamate a pronunciarsi su questioni politicamente controverse, sulle quali la società mostra, a un tempo, ipersensibilità morale e profonde divisioni culturali (tipici nel dibattito statunitense, ma anche altrove, sono i casi dell’aborto, dell’omosessualità, dell’eutanasia, ma anche quelli relativi all’uso della violenza, alle limitazioni delle libertà o alle questioni di natura identitaria o variamente religiosa o attinente a forme di pensiero o credo laici). In casi del genere, sottolinea Sandel, decisioni o sentenze, che pure si dicono e si auto-legittimano come rigorosamente ispirati al principio di neutralità delle istituzioni pubbliche rispetto alla pluralità delle concezioni del bene o della vita buona che si vogliono riservate alla libera scelta individuale-privata di ciascuno, tali decisioni o sentenze, argomenta Sandel, inevitabilmente rispecchiano, almeno in una qualche misura, un giudizio sostanziale sulla preferibilità morale di una piuttosto che un’altra concezione del bene e della buona vita[44]. Per riprendere un caso messo a fuoco dallo stesso Sandel, nel pronunciamento della Corte Suprema di una sentenza pro-abortiva che affida alla madre la possibilità di scelta se abortire o meno è implicito un giudizio di merito su ciò che è considerato vita umana e ciò che non lo è: nella fattispecie la Corte afferma che «i feti sono, nel senso morale pertinente, diversi dai neonati»; di conseguenza la Corte, piuttosto che astenersi neutralmente da qualsivoglia teoria sull’inizio della vita, ne adotta una propria e particolare[45].

In definitiva, vista in questa chiave, nemmeno una “repubblica procedurale” è davvero imperniata sul principio della “neutralità”: «come è illustrata dai casi dell’aborto e della sodomia, il tentativo di mettere tra parentesi le questioni morali si imbatte in difficoltà sue proprie»[46]. Il modo in cui si cerca di superare o trattare tali difficoltà resta inesorabilmente legato a contesti politico-culturali particolari: a principi, valori e norme che si formano, trovano applicazione o si modificano, in un senso o in un altro, dentro gli orizzonti di significato spazio-temporali della “vita degli individui con gli altri”.


NOTE
N.d.A.: La Prima parte di questo saggio è stata pubblicata su questo sito il 10 novembre 2022; la Seconda parte il 18 novembre 2022.
[1] Questo argomento, esteso in generale all’idea occidentale di natura umana, ha trovato una sintetica formulazione e una critica sul versante antropologico in: Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Eléuthera, Milano, 2010.
[2] Vedi J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982 (ed. or. 1975).
[3] Vedi B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino, 2001 (ed. or. 1820),
[4] Su questo concetto tornerò più avanti.
[5] Vedi M. Sandel, The Procedural Republic and the Uncumbered Self, in “Political Theory”, 1, 1984,
[6] M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), 1092, p. 143.
[7] M. Sandel, Liberalism and its Critics, New York University Press, New York, 1984, pp. 204-05.
[8] A. Mac Intyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano, 1988 (ed. or. 1981), pp. 47-48.
[9] A. Mac Intyre, Dopo la virtù, cit., p. 264.
[10] Vedi anche A. de Benoist, Identità e comunità, Guida, Napoli, 2005.
[11] Vedi Ch. Taylor, Atomism, in Id., Philosophical Papers, vol. II: Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), 1985, pp. 187-210.
[12] Vedi K. Arrow, Scelte sociali e valori individuali, Etas, Milano, 2003 (ed. or. 1951). Vedi anche M. Olson, Logica dell’azione collettiva, Feltrinelli, Milano, 1983 (ed. or. 1965). La logica di questo paradosso è stata anticipata da Condorcet, matematico e filosofo del XVIII secolo: Maquis de Condorcet, Essai sur l’application de l’analyse de la probabilité des decisions rendues à la pluralité des voix, pubblicato nel 1875.
[13] K. Marx, Il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1964 (ed. or. 1852). L’argomento di Marx non significa altro che: «ciascun essere umano vive all’interno di un dato modello culturale e interpreta l’esperienza in base al mondo di forme assuntive che ha acquisito» (U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962, 144). A dare un’impronta importante all’elaborazione e all’articolazione filosofica di questa visione nel corso del Novecento hanno concorso, ad esempio, Heidegger, Cassirer, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche.
[14] Vedi G. Nevola, Osservazioni sui costi dei diritti di cittadinanza, in P. Donati, I. Colozzi (a cura di), La cultura della cittadinanza oltre lo Stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma, 1994.
[15] Vedi in particolare J.Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York, 1993.
[16] Vedi A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992.
[17] A questo riguardo vedi ad esempio A. Touraine, Critique de la modernité, Fayard, Parigi, 1992.
[18] Vedi Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000; Id., Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2001; C. Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2001.
[19] A. de Benoit, Identità e comunità, Guida, Napoli, 2005, p. 115.
[20] Vedi R. Mangaberia Unger, Knowledge and Politics, Free Press, New York, 1975.
[21] Vedi M. Sandel, Liberalism and its Critics, New York University Press, New York, 1981.
[22] A. de Benoit, Identità e comunità, cit., p. 113.
[23] M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge, 1982, p.167.
[24] “Posizione originaria”, ricordiamo, che per Rawls è qualificata dal “velo di ignoranza” del soggetto riguardo alle proprie specifiche situazione e condizioni di vita.
[25] Vedi Ch. Taylor, Atomism, cit.; A. Mac Intyre, Dopo la virtù, cit.
[26] Sul concetto di riconoscimento, cardine della filosofia dello spirito hegeliana, vedi in particolare A. Honneth, Riconoscimento. Storia di un’idea europea, Feltrinelli, Milano, 2009.
[27] Vedi N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.
[28] Su questo vedi, ad esempio, R. Bendix, Stato nazionale e integrazione di classe, Laterza, Roma-Bari, 1969; Id., Re o popolo, Feltrinelli, Milano, 1980.
[29] Vedi G. Nevola, Osservazioni sui costi dei diritti di cittadinanza, in P. Donati, I. Colozzi (a cura di), La cultura della cittadinanza oltre lo Stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma, 1994.
[30] La dottrina liberale standard, piuttosto, riconosce i diritti individuali dei singoli membri di un gruppo o di una minoranza culturale/ideologica, e non già i “diritti collettivi” del gruppo. Su questo versante si colloca il tema del riconoscimento dell’identità collettiva altrui e della lotta per il riconoscimento. In proposito vedi ad esempio Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993; con riferimento al movimento operaio: C. Crouch, A. Pizzorno (a cura di), Conflitti in Europa. Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ’68, Etas, Milano, 1977. Sui diritti di gruppo e l’imbarazzata difficoltà nei loro confronti da parte del liberalismo vedi ad esempio B. Ackerman, La cittadinanza culturale, il Mulino, Bologna, 1999. Vedi anche A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, Torino, 1993. Un interessante punto di vista, a questo riguardo, ci è offerto dal tema della coniugazione tra modernità, pluralismo e religioni: vedi P.L. Berger, I molti altari della modernità, EMI, Bologna, 2017.
[31] Vedi ad esempio A. de Benoit, Identità e comunità, cit.
[32] Vedi A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit; Ch. Taylor, Atomism, cit.
[33] Vedi M. Walzer, Sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari, 1998; Id., Due specie di universalismo, in “MicroMega. Almanacco di filosofia”, 1, 1991.
[34] Vedi P. L. Berger, La sacra volta, SugarCo, Milano, 1984 (ed.or.1967).
[35] Vedi A. Etzioni, The Spirit of Community, Crown, New York, 1993; Id. Nuovi comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna Editrice, Casalecchio (Bo),1998; Ph. Selznick, La comunità democratica, Edizioni Lavoro, Roma, 1999.
[36] M. Sandel, The Procedural Republic and the Uncumbered Self, in “Political Theory”, febbraio 1984, p. 91.
[37] «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire». Così recita il noto e dibattutissimo “paradosso di Böckenförde. Vedi E.-W. Böckenförde, La formazione dello Sato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia, 2006, p.68 (ed.or. 1967).
[38] Vedi A. de Benoit, Identità e comunità, cit.; Ph. Selznick, Il compito incompiuto di Dworkin, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.
[39] Da un lato, la concezione liberale della neutralità formulata da Robert Nozick è basata sui principi di «giusta acquisizione» e di «titolo valido» i quali pongo forti limiti alle possibilità di redistribuzione. Dall’altro lato, la concezione della neutralità teorizzata da John Rawls si basa proprio sul principio di «giusta redistribuzione”, il quale, a sua volta, comporta seri limiti alla giusta acquisizione e al titolo valido. Vedi R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981; J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, cit.; una serie di contributi raccolti in A. Ferrara (cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.
[40] Mac Intyre, Il patriottismo è una virtù, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.
[41] Vedi Ph. Zelznick, Il compito incompiuto di Dworkin, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit.; Id., La comunità democratica, cit.
[42] La formula è mutuata da David Easton, influente politologo della seconda metà del secolo scorso: D. Easton, Il sistema politico, Edizioni di Comunità, Milano, 1973 (ed. or. 1953). La formula declina a suo modo il paradigma della “democrazia come metodo” (J. Schumpeter) e quello affine della “teoria economica della democrazia” (A. Downs).
[43] Vedi M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge, 1982; Id.; The Procedural Republic and the Uncumbered Self, cit.
[44] È qui evidente come la vita pubblica democratica si sottragga agli schemi teorico-politici del normativismo kelseniano e accosti a quelli del decisionismo schmittiano.
[45] M. Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit, pp. 264-65. Sul tema vedi anche l’importante E.-W. Böckenförde, Dignità umana e bioetica, Morcelliana, Brescia, 2010 (ed. or. 2001 e 2003).
[46] M. Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit, p. 273.

* * * *

 

IV. Modernità e democrazia. Lanternini, lanternoni e caverne. Una conclusione

 

  1. Premessa

Storicamente, la tradizione politica liberale, da quando si è affermata, è sempre stata in tensione con quella democratica, pure quando le due tradizioni si sono incontrate e sposate, generando le società e i regimi politici degli ultimi due-tre secoli che, sebbene molto mutati continuiamo a chiamare con un singolo e medesimo nome: democrazia[1]. Le ragioni di tale tensione sono state molteplici e differenti, ma una cruciale, e forse mai seriamente analizzata, attiene al tema della comunità di cui qui mi sto occupando. Del resto il pensiero politico liberale ha abbracciato quello democratico nello stesso momento in cui, in nome della modernità politica ha negato salienza e dignità democratica alla dimensione comunitaria del vivere individuale, collettivo e pubblico, affossando così il “senso di comunità” insieme alla società retrograda dell’ancien règime. Cerchiamo di evidenziare qualche importante frammento teorico-politico di questa vicenda, per poi approfondire alcuni aspetti della questione, tenendo presente quanto già messo in rilevo nelle precedenti tre parti di questo saggio.[2]

 

  1. Uno scambio infelice e i suoi effetti perversi che presentano il conto

Ricorrendo a una formula di sintesi macro-storica, e lasciando sullo sfondo sfumature e articolazioni, possiamo dire che il programma del liberalismo è stato quello di scambiare la “società calda” delle vecchie tradizionali comunità con la “società fredda”[3] degli individui[4], burocratizzata e retta da modelli di relazione sociale formalizzati attraverso istituzioni, codici, ruoli, siano questi di natura giuridica, economica, politica o latamente sociale.

La promessa associata a tale riorganizzazione mentale e materiale della società era di accrescere la libertà e il benessere dei cittadini. Si può discutere del grado in cui questa promessa sia stata effettivamente mantenuta, ma è difficile sostenere che non lo sia stata affatto: liberté e égalité sono stati i valori-guida degli ultimi due secoli di storia delle società occidentali e hanno dato risultati pratici talora apprezzabili, anche grazie al contributo di altri programmi politico-sociali (primi fra tutti quelli del socialismo e del cristianesimo). Per l’ideologia liberale l’emergere della modernità e dei suoi benefici è associato al “tramonto del fatto comunitario”: la modernità porta con sé modelli di relazione sociale di tipo più volontaristico e contrattualistico, basati sull’individualismo e sulla razionalità delle scelte; essa procede parallelamente al declino dei legami comunitari della società tradizionale di vecchio regime. Nell’ottica liberale, la comunità è presentata come un “fenomeno residuale”: una “sopravvivenza conservatrice”, la testimonianza di un’epoca passata, una “nostalgia romantica e utopistica” (il sogno di un’“età dell’oro” o di una “vita semplice e autentica”), un’invocazione di quelle forme di vita collettiviste in ultimo definitivamente compromesse con il fallimento dei regimi del “socialismo reale”. Con la rinuncia liberale al “senso di comunità”, la società che si è afferma con la modernità non è però riuscita a salvaguardare un terzo valore-guida che pure qualificava le ideologie e le motivazioni politiche democratico-rivoluzionarie sviluppatesi in seno alla società moderna: ossia, quella fraternité tanto sbandierata dalla Rivoluzione francese, evento simbolico non di certo secondario della modernità politica, comunque la si voglia giudicare.

L’attenzione al “senso di comunità” va collocata in questo quadro, con riferimento alla diagnosi che da qui si proietta sulle società liberal-democratiche del nostro tempo. Dal punto di vista politico (sensu lato), la visione comunitaria propone, a mio modo di vedere, alcune principali revisioni dei principi che orientano e pretendono di legittimare il funzionamento delle nostre società. Revisioni che provo a riassumere come segue.

1) Una contestualizzazione della cultura dei diritti, individuali e universali, abbinata a una subordinazione-commisurazione dei diritti (pretesi dagli individui) all’obbligazione politica nei confronti dei contesti comunitari, del “vivere con gli altri” e della “convivenza tra diversi”;. In questo caso, l’obbligazione politica è finalizzata a soddisfare quei doveri di cittadinanza da cui trae alimento la democrazia moderna.

2) Un contenimento della tendenza espansiva della logica di mercato, tanto in campo economico quanto in altri ambiti della vita sociale, al fine di frenare la trasformazione dell’economia di mercato in una totalizzante società di mercato.

3) Una relativizzazione del primato della razionalità economica, utilitaristica e strumentale, a favore di altri valori, e di altre logiche razionali/ragionevoli dell’agire umano e sociale[5].

4) Una correzione e uno stemperamento delle diseguaglianze moderne prodotte dal mercato liberale e dagli stessi interventi da parte dello Stato e delle sue burocrazie, correzione e stemperamento orientati a valorizzare il solidarismo civico o associativo e il correlato “spirito comunitario”.

5) Una presa di distanza dal primato della libertà formale, palesatasi nel corso del tempo sempre più insufficiente come valore etico essenziale per una società e, spesso, ormai diventata addirittura solo illusoria quando la società è ridotta a mercato e quando la società-mercato rende disponibili solo quelle scelte conformi ai o confermative dei suoi principi “mercatistici”, e così facendo riduce il campo della libertà e dei beni, eclissa le “opzioni alternative” e non massificate, premia i rapporti di forza “di mercato” che mortificano i gruppi e gli orientamenti più deboli, minoritari e marginalizzati, stigmatizzandoli come “minorati” e ferendo insieme alla loro dignità anche i tanto declamati valori dell’umanesimo.

6) Una valorizzazione del “senso di comunità” e della comunità come luogo vitale, denso di significati e simboli “della vita con gli altri”, come risorsa identitaria anche per le liberaldemocrazie del nostro tempo.

7) Una presa di coscienza del rilievo del “senso di comunità” in una fase storica, come la nostra, di profonda trasformazione dello Stato-nazione ovvero di quello spazio politico per eccellenza della democrazia. In un tempo che vede, ad esempio, un moltiplicarsi di gruppi e un “ad hochismo” delle appartenenze, una crescita di flussi migratori e di mobilità socio-territoriale “spaesanti”, così come uno sviluppo di reti comunicative e sociali sempre più fitte, ma chiuse, frammentate, separate e autoreferenziali, in questo tempo anche il “senso di comunità” richiede di essere rifocalizzato nei suoi contorni, dato che reclama significati o valenze differenti rispetto a quelle più tradizionali e ascrittive. Dentro questo contesto, anche lo Stato-nazione richiede un’apertura al “senso di comunità”, e ciò ripensando quel “senso di comunità di destino” a cui l’Unione Europea non può dare risposta e di cui parlava ad esempio l’intellettuale socialdemocratico Otto Bauer all’inizio del Novecento. Sotto questo profilo, un risanamento del “senso di comunità” viaggia insieme a un ri-modellamento in profondità dell’architettura politico-istituzionale dello Stato, secondo un impianto autonomistico, federale e solidale, e ciò tutelando l’eguaglianza nei diritti di cittadinanza di tutti i cittadini, tenendo insieme la pluralità di piccole comunità e alimentando una “democrazia di prossimità” che ridia senso ed efficacia a una partecipazione politica oggi rinsecchita, frustrata ma anche socialmente piuttosto selettiva[6].

 

  1. Senso di comunità e smottamenti contemporanei nell’auto-percezione della modernità

Mettere a fuoco il tema del “senso di comunità” significa affrontare una questione classica della teoria politica di fronte agli afflati di cosmopolitismo o globalismo che riempiono i nostri giorni: perché gli uomini e le donne tendono a vivere vivono in gruppi organizzati, distinti e delimitati gli uni dagli altri anziché in un unico “gruppone umano”? Cosa tiene insieme ciascuno dei gruppi e perché persistono distinzioni tra i contesti (o forme) di vita collettiva caratterizzati da loro specifici universi di significato e da specifiche organizzazioni della “convivenza con gli altri e tra diversi”? Cosa significa dire che l’uomo è un “animale politico” (o essere sociale)? Quali implicazioni ha per i singoli individui e per la loro vita collettiva e pubblica? Il rifiuto critico delle soluzioni universaliste-astratte-formali con le quali viene identificata la modernità, prospettate segnatamente dalla tradizione illuminista-liberale, obbliga gli esponenti della teoria comunitaria, così come i cultori delle connesse pratiche sociali, a definire quale posto e valenza possa assumere il “senso di comunità” di fronte a quel pluralismo che rappresenta il Geistzeit della modernità democratico-liberale. La “comunità nella modernità” (la comunità “nella diversità” o “con la diversità”): è questa la sfida, concettuale e politica, rimossa nella nostra epoca.

Proposta come una forma possibile di completamento-superamento della modernità liberale, la comunità viene in questo caso disancorata da quell’“arcaicità” a cui l’avevano legata e relegata le filosofie o le sociologie della “modernità” (al singolare)[7]: la comunità, cioè, non è più concepita necessariamente ed esclusivamente come uno stadio (pregresso) dell’evoluzione storico-sociale, bensì come una forma (per così dire) permanente di vita collettiva, con la pregnanza del suo significato che cresce o deperisce nelle diverse epoche[8]. La categoria di comunità in questa accezione, esattamente come la categoria di “società”, identifica un tipo ideale[9] di vita associata, che permea in modo variabile ogni tipo di politia. L’idea di comunità viene così sganciata dalla sua tradizionale concezione diacronica, che la vede inesorabilmente tramontare di fronte all’evoluzione o progresso storico-culturale dettati dalla modernità.

A sollecitare una tale riconsiderazione dell’idea di comunità ha contribuito l’incrinarsi nel corso del Novecento di (almeno) tre principali cardini della modernità, il cui precipitato è un mutamento di natura filosofico-culturale, di profilo scientifico, etico e politico che (bene o male) è approdato nel XXI secolo, modificando in certa misura l’auto-percezione della modernità.

1) L’ideologia del progresso non ha mantenuto le sue promesse, spiazzata da totalitarismi, violenza, genocidi, dalla scoperta dei limiti (ambientali, sociali, economici) dello sviluppo materiale, dal persistere delle condizioni di miseria materiale e immateriale, dalla dinamica della povertà “assoluta” e “relativa”, e dal mancato sviluppo in vaste aree del pianeta; a questi fattori si è via via aggiunto il diffondersi della percezione che benessere e sviluppo non bastano a soddisfare le “domande di senso” del mondo contemporaneo.

2) L’idea della razionalità (o della “ragion pura”), del suo primato e della sua onnipotenza, oltre a subire un declassamento da parte della tecnoscienza (o scienza applicata) sulla quale si è sempre più concentrato l’interesse sociale e politico del “mondo reale”, e di concerto anche quello delle istituzioni scientifiche[10], quell’idea di razionalità cara alla tradizione illuminista[11] e positivista è oggi messa in discussione non solo dalle teorie postmoderne[12], ma anche da filosofi neo-illuministi come Gadamer o Habermas. Per un altro verso, essa è stata sconvolta anche in campo scientifico ed epistemologico, là dove hanno trovato progressiva attenzione ipotesi e teorie foriere di una “rivoluzione paradigmatica” novecentesca innescata dalla relatività e dalla quantistica[13].

3) L’idea di un individuo astratto e formale esce scossa e indebolita dalla nuova ondata di domanda o bisogno di legami sociali concreti, contestualizzati, localizzati, che consentano alla massa di persone smarrite nella (apparente ma influente) cornice di un mondo aperto e globale[14] di riallacciare tra loro identità individuali, identità sociali e identità collettive[15] (quali ne siano le origini, la natura o i contenuti: etnici, religiosi, linguistici, socio-economici o di stile di vita).

In questo quadro, «la comunità, lungi dall’essere ciò che la società avrebbe infranto o perduto, è ciò che ci arriva (domanda, attesa, avvenimento, imperativo) a partire dalla società» e dalla modernità; «La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, molto al di qua di tutti i nostri progetti, delle nostre volontà e delle nostre imprese. In fondo, per noi è impossibile perderla. Per quanto poco la società possa essere comunitaria, nel deserto sociale non può non esserci una qualche comunità, anche se infima, persino inaccessibile»[16]. La comunità sopravvive, quindi, almeno come esperienza liminale dentro la società moderna, fonte di spontaneità o riserva di gratuità relazionali che nutrono l’altra faccia della società, delle regole e dei ruoli formali[17].

 

  1. Una società post-liberale. Teoria politica liberale e teoria politica comunitaria che (talora) convergono

Con il rilancio della prospettiva comunitaria, a partire dagli anni ’80 la teoria politica attraversa un periodo di vivacità e di ricchezza intellettuale. Lo stesso liberalismo contemporaneo dominante non ne è uscito immutato. Le critiche del neocomunitarismo hanno toccato i suoi “nervi scoperti”, portando in evidenza alcuni limiti di fondo delle nostre democrazie liberali (meglio: neoliberali): a) la pretesa che la legittimità dei sistemi democratici dipenda esclusivamente da capacità di calcolo razionale, utilitaristico e dalla soddisfazione economico-materiale dei cittadini; b) l’idea che l’integrazione sociale possa procedere solo sul piano funzionale, dell’aggregazione delle domande e interessi economici individuali, senza considerazione per la dimensione collettiva “olistica”, politico-culturale e identitaria, tanto dei singoli individui quanto dei gruppi e dei loro contesti di appartenenza “densi di vissuto”; c) la convinzione che le questioni pubbliche possono essere del tutto trattate e risolte attraverso procedure formali di comunicazione e di deliberazione basate su un principio di neutralità che svuota i soggetti individuali e collettivi dei valori costitutivi delle loro identità specifiche, particolari, radicate nei “mondi vitali” (Lebenswelt).

Gli stessi pensatori liberali non sono rimasti del tutto sordi al richiamo comunitario sui limiti di fondo delle liberaldemocrazie di massa. La separatezza tra l’orientamento liberale e quello comunitario sembra essersi per più aspetti assottigliata. Anche se perdura una distanza di fondo tra l’etica e la politica comunitarie dei doveri e dell’“impegno di vivere con gli altri”, da una parte, e l’individualismo dei diritti dell’uomo e del cittadino o l’edonismo utilitarista coltivati dal liberalismo, dall’altra.

Il comunitarismo contemporaneo, anche quando sembra ridestare suggestioni nostalgiche per un passato pre- o anti- liberale, in verità nei suoi esponenti di punta non manca lo sforzo di ripensare tali suggestioni all’interno del quadro della società moderna e della liberaldemocrazia di massa. È un ridisegno che procede sia sul piano dei principi normativi, sia su quello delle pratiche sociali e dell’operato concreto delle istituzioni. Lo sguardo critico neocomunitario più avveduto non punta tanto verso soluzioni antiliberali, quanto piuttosto post-liberali e comunque democratiche, sfrondate da tentazioni integraliste, organiciste o neo-totalitarie. Il fuoco neocomunitaria cade su programmi di rivalorizzazione di strutture o corpi intermedi tra individui e Stato, sull’attenzione pubblica verso responsabilità e doveri civici del “convivere, tra diversi, con gli altri”. Ciò vale tanto per il comunitarismo più spinto (Mac Intyre o Sandel), quanto per quello più moderato (Taylor, Walzer o Bellah). Ma vale anche per alcune versioni europee del neocomunitarismo, come in Francia con il pensiero di André Gorz[18], intellettuale della sinistra critica, che rilancia la comunità («comunità associative») come sfera (“calda”) delle relazioni sottratte alle logiche (verticali e orizzontali) del potere e del denaro eretto a misura di ogni valore e a fine primario di ogni mercato e di ogni scambio[19]. Pur riconoscendo che l’esistenza di una sfera di “relazioni liberate” resta limitata dentro ristretti spazi sociali non istituzionalizzati, Gorz sottolinea nondimeno come tali esperienze si annidino all’interno dei sistemi (“freddi”) di relazioni sociali istituzionalizzate e codificate, anonime e “spaesate”, e come tali esperienze rappresentino un potenziale motore di in cambiamento post-liberale, a patto che siano prese sul serio.

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, anche l’orientamento liberale rivede e sfuma alcune sue posizioni. Dworkin, un filosofo marcatamente liberale, se non iper-liberale, delinea un “liberalismo politico integrazionista”, teorizza una società “community-friendly”, argomenta a favore di una “comunità liberale” tramite cui recuperare il valore dell’integrazione sociale-comunitaria senza per questo perdere di vista i valori liberali di tolleranza e autonomia, le libertà e i diritti dell’individuo, o la stessa neutralità delle istituzioni pubbliche: una sorta di “repubblicanesimo mite” con venature libertarie, così lo definirei, che non irregimenta la sfera della vita e delle scelte private degli individui. Nozick rivede esplicitamente le tesi che lo hanno identificato come esponente di spicco del turbo-liberalismo e del turbo-libertarianismo affermatisi a fine Novecento: «La posizione libertaria che ho propugnato in passato ora mi sembra seriamente inadeguata, anche perché non teneva abbastanza conto del lato umano delle cose»; infatti, continua Nozick, opporsi «all’espressione pubblica e collettiva di interesse e solidarietà… ci costringerebbe a vergognarci di una società in cui la voce pubblica dell’interesse per gli altri tace»; insomma, i valori che ci stanno a cuore e ci tengono legati insieme devono trovare espressione anche nel funzionamento delle istituzioni pubbliche liberaldemocratiche[20].

Lo stesso Rawls[21], con la sua concezione del “consenso per intersezione” (overlapping consensus) mostra un’apertura di accento comunitario verso un soggetto “pieno-e-situato” (l’encumbered self), allontanandosi con ciò dal modello di soggetto e di razionalità decontestualizzati che aveva caratterizzato la sua teoria della giustizia e il principio di neutralità sub specie “posizione originaria”. Da parte sua, Larmore arriva a sostenere che «le concezioni kantiane e milliane del liberalismo non sono soluzioni adeguate al problema politico del disaccordo ragionevole riguardo alla buona vita», essendo «Esse stesse diventate semplicemente un’altra parte del problema»; per converso, sottolinea che «l’entusiasmo romantico verso la tradizione e l’appartenenza è divenuto una componente permanente e influente della cultura occidentale», al pari degli stessi ideali di individualità e autonomia affermati dal liberalismo ottocentesco[22]. Su queste basi Larmore afferma un concetto che pare preso pari pari da un Mac Intyre o da un Taylor: un «modo di vita» diventa il «nostro modo di vita» non per scelta, ma perché eredità di un’appartenenza collettiva; in quanto tale è esso stesso a fondare le nostre scelte: nella misura in cui è espressione di un’identità comune, che, per quanto minima, di fatto tiene insieme i soggetti, le loro specificità e i loro contrasti, in una società pluralistica.

Correnti del comunitarismo e del liberalismo contemporaneo convergono così verso un’idea di “comunità democratica” ovvero di “società post-liberale”. Arrivano a tratteggiare i contorni di un repubblicanesimo dove la dottrina politica del liberalismo e quella del comunitarismo trovano motivi di convergenza significativa e talora sorprendente[23].

La critica neocomunitaria alla concezione liberale standard e la reazione “aperta all’apprendimento” da parte di settori importanti della teoria politica liberale rappresentano un capitolo virtuoso di storia intellettuale, di filosofia e politica, di cultura politica al quale vale la pena dedicare ancora attenzione ed energia pubbliche. Almeno se siamo ancora interessati ad analizzare, diagnosticare e a cercare risposte al malessere dei cittadini nei confronti delle società di massa liberaldemocratiche[24], anche se (devo sottolinearlo) tale malessere pare essere andato non poco in sordina sotto il Regno del Covid, della paura e del clima emergenziale degli ultimi anni. Qui emerge il compito che attende la riflessione e l’opinione pubblica critica, prima che la massa dei cittadini arrivi a perdere la percezione del malessere che grava sulle nostre società e, impotente e immiserito, finisca per scivolare in una auto-colpevolizzazione collettiva dove i fallimenti individuali nulla avrebbero a che vedere con la vita che si svolge nell’incolpevole “migliore dei mondi possibili”.

Ma sono i nostri tempi, sono gli uomini, le donne e i giovani in particolare, desiderosi e in grado di lavorare per una società basata sull’idea di una strong democracy[25], che nutra di vitalità la partecipazione politica e civica, e che rigeneri i meccanismi dell’autogoverno di cittadini impegnati a convivere con gli altri e nella convivenza tra diversi?

 

  1. Oltre la funzione gregaria della democrazia-linguaggio nella neo-lingua liberale dell’iper-modernità. Tra lanternini, lanternoni, caverne e luci abbaglianti

È bene fugare ogni equivoco. Una comunità politica centralizzata, onnipervasiva e onnicompetente, che coltiva individui atomizzati e omogenei, una tale comunità distruggerebbe ogni immunitas democratica e autonomia individuale o collettiva; farebbe terra bruciata di ogni fonte, spazio o capacità di libertà dei singoli, dei gruppi o dei territori. Quella così ritratta è l’immagine di una comunità totalitaria o totalizzante rispetto alla quale avvedutamente mette in guardia la tradizione politico-culturale più genuinamente liberale. Tuttavia, l’accoglimento di questa immagine in maniera unilaterale e acritica può facilmente portare a compiere un tipico errore: semplificando ed estremizzando le cose, essa induce a buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.

Una conseguenza importante di questa immagine in bianco e nero è che non ci fa rendere conto e ci aiuta a valutare quanto la crisi o i guasti della società contemporanea (correlati alle le odierne trasformazioni trasfiguranti la loro democraticità) siano riconducibili a una “perdita fondamentale”: la perdita di quella base di esperienza umana concreta, calata in una democrazia di prossimità che agevoli gli individui e i gruppi a non ritrovarsi isolati e disarmati di fronte alla centralizzazione, burocratizzazione e tecnicizzazione di società, di governi e di regolazioni della vita sociale: tendenze, queste, che nell’attuale epoca di neo-liberalismo turbo-tecnocratico vanno penetrando fin dentro le pieghe (private e pubbliche) delle pratiche e del pensiero. Trasformare il grappolo di problemi legato a queste tendenze in una guerra tra progressisti e conservatori o reazionari, tra destra, sinistra e chissà cosa, in salsa ora populista o liberale, ora europeista o sovranista, è sostanzialmente sbagliato, non porta lontano e fa perdere di vista la posta in gioco: non semina nulla di buono nel con-vivere con gli altro e nel con-vivere tra diversi.

Il linguaggio dominante del nostro tempo è, più o meno, “politicamente corretto”: identifica nell’auto-determinazione dell’individuo singolo, autonomo, autosufficiente e stabile, e nel fagottino delle sue volizioni, la chiave di quel progresso umano e sociale che ha consentito l’emancipazione di individui e società dalle condizioni tiranniche, di sudditanza, oscurantiste o irrazionali del passato. Un progresso, si aggiunge, che non poteva non andare di pari passo con lo sradicamento di costumi opprimenti, dei legami collettivi (familiari, clanistici o di vicinato), ovvero con la disintegrazione di villaggi, quartieri e città, di luoghi e relazioni di lavoro, dei “legami paesani” e della socialità. Un progresso, questo, concepito e declinato all’insegna del calcolo utilitaristico-egoistico, della massimizzazione degli interessi e del piacere soggettivi, della competizione e della corsa o lotta per l’auto-affermazione.

Ma questo progresso emancipativo si è storicamente rivelato tutt’altro che rose e fiori. Anzi: è arrivato ad alimentare il suo rovesciamento, con tanto di “fuga dalla libertà” e di ripudio della “con-vivere tra diversi”: veri frutti avvelenati della “dialettica dell’illuminismo”[26], giunti a maturazione tra Otto e Novecento, ma che inesorabili hanno presa anche nel secolo in corso.

La democrazia come “il governo del popolo, dal popolo e per il popolo”, secondo una fortunata formula retoricamente efficace di Abraham Lincoln[27], conserva una sua pregnanza come cifra ideale. Tuttavia, questa definizione di democrazia rivela tutta la sua irrilevanza in “società del dispotismo dolce”, governate da sistemi di potere la cui legittimità fa tesoro della “fuga della libertà”, dalla “fuga dalla connivenza tra diversi”, dalla fuga dall’autogoverno, e capitalizza l’acquiescenza diffusa tra la massa di cittadini sempre più disarticolata e conformista. Parlo delle società occidentali, convenzionalmente nominate anche democratiche, dove l’ideologia dominante neoliberale si è fatta “senso comune”[28]. Qui, grazie a un uso “scientifico”, ben oleato, di potenti mezzi di comunicazione e di tecniche di propaganda/pubblicità, variamente differenziati ma calibrati nel penetrare e “colonizzare” gli spazi della coscienza degli individui, del discorso pubblico e della partecipazione democratica.

Davvero non è il caso di interrogarsi su quali siano, nel mondo contemporaneo, i criteri tramite i quali si possano distinguere le società libere non solo da quelle non-libere, ma anche da quelle semi-libere o in “libertà vigilata”? Forse ormai ci manca persino il linguaggio per dare forma a domande del genere. Forse lo stesso vocabolario della modernità politica e democratica si è così consunto e sfilacciato per l’abuso che se ne è fatto, tanto da non svolgere altro che una funzione gregaria, decorativa e superficialmente legittimatoria dell’ordine e dei poteri costituiti tipici della politica pro-sistema[29]. Ma perché ancora ci sfugge questa funzione della neo-lingua dell’iper-modernità neoliberale e postdemocratica? La domanda è giunta a maturità[30].

Nelle (così anche definite dalla politologia contemporanea) democrazia consolidate, sotto la giustificazione di una crisi o di una incombente minaccia o l’altra, non passa stagione senza assistere a violazioni o al degrado dei diritti delle “minoranze di pensiero” non accreditate dalla cultura del “politicamente corretto”, a limitazioni dei diritti di associazione, di manifestazioni o di sciopero, della libertà di opinione e di parola, del diritto al lavoro e dei diritti dei lavoratori, e via discorrendo. L’incedere spedito, fluido, invisibile ai più, di queste lesioni dei valori democratico-liberali, avviene (spesso) nel nome del popolo o dei cittadini, nel nome dei diritti dell’uomo, nel nome della giustizia o dei bene comune. E così, ogni volta, si arriva a manomettere il senso di democrazia o della “convivenza tra diversi” (il che è lo stesso) al fine di salvare la democrazia, di difenderla contro la guerra, contro nemici esterni o interni, contro l’ignoranza e le fake news, contro un virus e untori oscurantisti, negazionisti o criminali. Regimi politici e società di questa fattispecie possono a poco costo auto-definirsi democratici, liberali e umanitari. Del resto, quale regime o persona non lo fa? Il fatto è che siamo impigliati nel pensiero e nel linguaggio. E diventa molto difficile trovare modo, forza o coraggio per aprire seriamente un discorso pubblico sul “totalitarismo democratico” senza perdere credito sociale e culturale presso uno o l’altro ambiente che ci circonda e in cui viviamo. E allora si preferisce, è più comodo o meno costoso, evitare di fare i conti fino in fondo con la sindrome del Grande Inquisitore di Dostoevskij[31], che citiamo solo per civetteria salottiera o come tappezzeria culturale.

Il “senso di comunità” c’entra, eccome, nell’attuale avventura sventurata della democrazia. Ma anche in questo caso, alla fine si tratta distinguere, individualmente e collettivamente, il grano dal loglio. E con questo ritorniamo alla difficilissima arte del con-vivere insieme agli altri e della convivenza tra diversi, muovendoci tra i lanternini e i lanternoni di Pirandello. Ma se cadiamo sotto la luce di un potente faro, restiamo abbagliati, e accecati fatichiamo a vedere intorno. Il mito della caverna di Platone è potentissimo e seduttivo. Ma fuorviante: ci rendiamo di essere stati chiusi nella caverna solo quando ve ne usciamo. Ma attenti: nulla ci dice che questa esperienza capiti solo una volta, né quando è che siamo (o saremo) usciti dall’ultima caverna e che ci troviamo finalmente sotto la luce del sole. E senza essere abbagliati.


NOTE
[1] Vedi S. N. Eisenstadt, Paradossi di democrazia, il Mulino, Bologna, 2002; J. Dunn, Il mito degli uguali, Università Bocconi, Milano, 2006; G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare, in “Sociologia del Diritto”, 1, 2018; Id., Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazioni, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in Movimento, Mimesis, Milano, 2022.
[2] Vedi in questo sito: Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica: Prima parte (10 novembre 2022); Seconda parte (18 novembre 2022); Terza parte (21 gennaio 2023).
[3] Per motivi che si comprenderanno, utilizzo le nozioni di “società calda” e di “società fredda” in un’accezione rovesciata rispetto a quella resa nota da Claude Lévi-Strauss.
[4] Vedi N. Elias, La società degli individui, il mulino, Bologna, 1990.
[5] Si pensi, ad esempio, alla logica affettiva, alla logica del dono, alla logica espressiva di cui trattano filoni della filosofia sociale, dell’antropologia culturale o della sociologia.
[6] A questo riguardo, le indicazioni offerte da Aldo Capitini non sono solo suggestive o utopiche, ma anche meritevoli di essere portate al centro della riflessione politica e del dibattito culturale sulle forme organizzative di una democrazia della prossimità. Vedi A. Capitini, Attraverso due terzi del secolo. Omnicrazia: il potere di tutti, Il Ponte Editore, Firenze, 2016; ma anche Id., Religione aperta, Laterza, Roma-Bari, 2011. Per una lettura critica ma non liquidatoria rimando al mio Ripensare la democrazia. Con un occhio ad Aldo Capitini, pubblicato su questo sito il 18 ottobre 2019 e che riprende alcuni passaggi di una mia relazione a un convegno svoltosi a Bolzano il 5 ottobre 2019 e dedicato al tema dell’omnicrazia di Capitini.
[7] Alla concezione dominante che declina la modernità al singolare è andata via via contrapponendosi quella che la identifica al plurale. Vedi S.N. Eisenstadt, Multiple Modernity, Routledge, Londra, 2002.
[8] Vedi A. de Benoit, Identità e comunità, Guida Napoli, 2005.
[9] “Tipo ideale” nel senso analitico-metodologico, di strumento euristico, reso noto da Max Weber,
[10] Sul punto vedi ad esempio R.A, Pielke jr., Scienza e politica. Lotta per il consenso, Laterza, Roma-bari, 2005.
[11] Per una difesa di questa tradizione della razionalità vedi G. E. Rusconi, Cosa resta dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[12] Per usare il linguaggio della post-modernità reso noto e accreditato negli anni ’70 del Novecento da F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 2002.
[13] Si pensi, solo per fare i nomi pioneristici e più noti, a Einstein, Heisenberg e Bohr.
[14] Vedi ad esempio, M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali, Einaudi, Torino, 2020; per altri aspetti: V. Grassi, La società del noi. Comunità del noi nell’era della globalizzazione, Angeli, Milano, 2018; F. Brezzi, M.T. Russo (a cura di), Oltre la società degli individui, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
[15] Su questi concetti della teoria dell’identità rinvio a G. Nevola, Democrazia, Costituzione, Identità, De Agostini- Utet, Novara, 2007.
[16] J.L. Nancy, La communauté dèseouvrè, Bourgeois, Parigi, 1986 pp. 34 e 87.
[17] Vedi V. Turner, Simboli e momenti della comunità, Morcelliana, Brescia, 1976.
[18] Vedi A, Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma, 1998.
[19] Guidati da tali logiche, potremmo dire che «Al giorno d’oggi la gente sa il prezzo di tutto e non conosce il valore di niente», come leggiamo ne Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.
[20] R. Nozick, La vita pensata, Mondadori, Milano, 1990, pp. 315-18 passim.
[21] Vedi J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York, 1993.
[22] Ch. Larmore, Political liberalism, in “Political Theory”, 3, 1990, p. 177.
[23] Vedi ad esempio anche Ph. Selznick, Dworkin’s Unfineshed Tasc, in “California Law Review”, 3, 1989; M. Walzer, Due specie di universalismo, In “MicroMega. Almanacco di Filosofia”, 1, 1991; Id., Communitarian Critique of Liberalism, in “Political Theory”, 1, 1990; W. Kersting, Liberalismo, comunitarismo e democrazia, in “Filosofia Politica”, 2, 1995; Ph. Pettit, Repubblicanesimo, Feltrinelli, Milano, 2000.
[24] Vedi G. Nevola, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’“incantesimo democratico”, in “Il Politico”, 1, 2007.
[25] Vedi B. Barber, Strong Democracy. Participatory Politics for a New Age, University of California Press, Berkeley, 1984.
[26] Su queste tre sindromi vedi E. Fromm, Fuga dalla libertà, Comunità, Milano, 1981 (ed. or. 1941); G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare, cit.; M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966 (ed. or. 1947).
[27] Usata nel celebre discorso pubblico pronunciato dal presidente degli Stati Uniti a Gettysburg nel 1863.
[28] Nel senso di cui in P. Allum, Democrazie reali, Liviana, Padova, 1991.
[29] Alla politica pro-sistema e a quella anti-sistema sono dedicati diversi interventi presenti in questo sito.
[30] Già negli anni ’50 dello scorso secolo, ad esempio, il sociologo Nisbet osservava: «Il fatto è che oggi non abbiamo alcun insieme di termini evocativi che corrisponda alle nostre realtà nella stessa misura in cui», invece, corrispondeva «alle realtà e alle aspirazioni» care al liberalismo dell’età dell’oro. R.A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Comunità, Milano, 1957, p. 381.
[31] Vedi in questo sito Dialogo tra Potere e Libertà. Lo sguardo del vecchio russo sui nostri tempi (21 dicembre 2021); ma anche Pane e libertà. O della cugina povera rimasta vedova (27 agosto 2022).

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