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Da Christopher Lasch al suicidio della sinistra positivista

di Lelio Demichelis

spaceship g376302c2d 1920 1536x960Christopher Lasch (1932-1994) è stato certamente un intellettuale scomodo, poco amato dalle sinistre liberal americane, dalle femministe, dagli intellettuali europei. Eppure, è stato autore di opere fondamentali come La cultura del narcisismo, La rivolta delle élite, Il paradiso in terra (tutte pubblicate o ripubblicate da Neri Pozza).

Scomodo, ma quindi necessario. Come Heidegger (facendo le debite proporzioni), che è essenziale per capire cos’è la tecnica, ma che la sinistra si rifiuta di leggere e di capire restando anzi preda di una visione idilliaca – come scriveva, criticandola, Raniero Panzieri settant’anni fa – della tecnologia. O meglio, aggiungiamo, della razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina dalla rivoluzione industriale e che è essenza (andando oltre Heidegger) anche del capitale/capitalismo, poiché basati – tecnologia e capitalismo – sulla stessa logica di accrescimento illimitato e infinito di sé come mercato e profitto, oltre che come sistema tecnico, producendosi appunto quello che chiamiamo tecno-capitalismo e che trova oggi nel totalitarismo del digitale, e nella digitalizzazione delle masse, la sua ultima (per ora) fase storica. E quindi, così come un grande intellettuale di sinistra, Claudio Napoleoni, aveva letto lo scomodo Heidegger per capire cosa sia la tecnica (che non è neutra come ingenuamente credono i marxismi, ma possiede un determinismo proprio – ontologico, teleologico e teologico), così oggi le sinistre dovrebbero rileggere anche lo scomodo Lasch per capire come è cambiato il mondo e recuperare un legame con la realtà da cui si sono dissociate per inseguire lo storytelling tecno-capitalista, cioè confondendo il progresso con la tecnica (con la razionalità strumentale/calcolante-industriale) e infine con il mercato neoliberale.

Leggerlo non significa accettarlo totalmente e così come Heidegger è criticabile su molte cose, così noi critichiamo ad esempio la proposta di Lasch di un populismo repubblicano, non solo perché siamo contro ogni forma di populismo, anche di sinistra, ma soprattutto per la contraddizione che non lo consente; così come contestiamo i suoi richiami al concetto di comunità, per noi sempre chiusa, preferendo una società davvero aperta, plurale, socratica.

E di Lasch riprendiamo un suo testo del 1981 – Contro la cultura di massa – ora contenuto in un agile, pregevole e denso libretto, dallo stesso titolo, pubblicato recentemente da Elèuthera, con la Prefazione di Vittorio Giacopini e testi di Jean-Claude Michéa. E lo facciamo, prendendone gli spunti utili alla nostra riflessione, per ragionare sulla società di oggi e sulla crisi della sinistra, che rischia di essere la fine della (sua) storia.

Una società, quella descritta e criticata da Lasch (ma anche, e peggio, di oggi), dove le masse – perché sì, siamo ancora una società di massa con una incultura di massa, anche se digitalizzate e apparentemente individualiste/individualizzate – hanno ancora di più abbandonato le vecchie sottomissioni pre-moderne per diventare ancora di più vittime consenzienti e felici del mercato e del consumismo, ma oggi soprattutto del feticismo per la tecnologia e la sua essenza positivistica e totalitaria, della sua razionalità irrazionale, antisociale e antidemocratica e soprattutto ecocida e nichilista. Ovvero – è una sequenza che i marxismi positivisti non hanno mai voluto comprendere – è “la crescita di un mercato di massa che distrugge l’intimità [oggi detta privacy], scoraggia lo spirito critico e produce dipendenza dai consumi negli individui, che quindi annulla inevitabilmente le opportunità emancipatorie che la dissoluzione dei vincoli di un tempo imposti all’immaginazione e all’intelletto, lasciava intravedere. Di conseguenza, la libertà da quei vincoli equivale nella pratica alla semplice libertà di scegliere tra merci più o meno indistinguibili”, come oggi di passare liberamente da Facebook a TikTok ma sempre catturati dal tecno-capitalismo e della razionalità strumentale/calcolante-industriale. Cioè i processi di apparente individuazione e di inclusione sono finalizzati unicamente a integrare l’individuo nel mercato dei beni di consumo (Lasch) e oggi nel sistema tecnico. “E nella misura in cui si affida ai mass media [e oggi possiamo aggiungere: alla rete e ai social-media] per trovare esempi di una liberazione personale, si ritrova di fatto confinata, come per qualsiasi altra merce a scegliere tra opinioni preconfezionate e ideologie progettate e commercializzate da opinion maker [oggi la Silicon Valley è anche o soprattutto questo], attenti più al valore di scambio che al valore d’uso”.

Quindi, siamo alla completa assimilazione e sussunzione degli individui e della società alle esigenze del mercato/capitale e del sistema tecnico. Ma in tutti i dibattiti, continuava Lasch, “gli effetti accertati del mercato di massa [noi aggiungiamo, del sistema tecnico di massa] – consolidamento del potere finanziario, standardizzazione dei prodotti, declino delle abilità individuali – si dissolvono in una nuvola di retorica populista” a favore del mercato e dell’impresa, retoriche da tempofatte proprie appunto anche dalle sinistre e dai progressisti. “Ma si tratta” – continuava Lasch – “della stessa strategia argomentativa adottata dai difensori del capitalismo finanziario per dimostrare che le politiche aziendali sono dettate dal consumatore sovrano e che dunque qualsiasi tentativo di regolamentare le pratiche aziendali ostacolerebbe la libertà di scelta del consumatore”: senza capire che è sempre l’offerta a generare la domanda (ovvero: dopo le merci vanno prodotti e ingegnerizzati i consumatori attivando sempre più in loro il desiderio di consumare sempre di più – e la crisi climatica ha proprio in questo meccanismo produttivo/consumativo la sua radice). Le sinistre si sono fatte liberal-libertarie (giusto), ma dimenticando (errore clamoroso) e anzi rimuovendo i diritti sociali e i principi della democrazia, idillicamente credendo alla possibilità liberatrice della tecnologia, in realtà contribuendo all’impoverimento generalizzato e consegnando la vita intera delle persone alle perversioni del capitalismo digitale e della sorveglianza.

E purtroppo – e qui risiede il più grande degli errori della sinistra, marxista rivoluzionaria, riformista o radicale che sia: non avere cioè capito che il tecno-capitalismo non è solo un sistema economico ma che pianifica appunto la vita intera della società secondo le sue esigenze di accrescimento del profitto e del sistema tecnico. Con il paradosso che “se i sociologi liberali sottolineano i successi nell’immediato della cultura di massa e in particolare la promozione dell’individualismo e della libera scelta [appunto, come oggi in rete], i marxisti guardano al futuro, quando il socialismo dissolverà la contraddizione tra le forze di produzione e i rapporti sociali di produzione”. In realtà si è prodotto esattamente il contrario di ciò che immaginava il marxismo e la contraddizione si è aggravata, ma è molto ben mascherata dal sistema che la produce e riproduce.

Di più: la sinistra non ha capito – come invece aveva capito Simone Weil già nel 1934 – che il problema non è la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma la forma organizzativa e gestionale della fabbrica (che è la sublimazione, per noi, della razionalità strumentale) e che è quindi la fabbrica la causa prima – insieme alla correlata religione delle forze produttive (e anche il socialismo, sempre Weil “mette gli uomini al servizio solo del progresso della produzione”) – dell’oppressione sociale. Purtroppo, sia il liberalismo che il marxismo vivono nel mito della fabbrica come modello anche sociale (Marx: il socialismo è la fabbrica meno il capitalismo; Gramsci: la fabbrica come forma perfetta di organizzazione della società socialista; oggi la rete come compimento del general intellect secondo i post-operaisti). Arrivando a una società in cui (Lasch) “il potere politico ed economico è concentrato in una piccola classe di capitalisti, manager e professionisti che ha inventato forme di tecnologia adatte a perpetuare la divisione gerarchica del lavoro”; oggi con la Fabbrica 4.0 e il taylorismo digitale e il capitalismo delle piattaforme – piattaforme che sono appunto la forma digitalizzata delle vecchie fabbriche fisiche.

E ancora Lasch: “La configurazione stessa della tecnologia è espressione di un sistema di gestione e comunicazione a senso unico. Accentra il controllo economico e politico e sempre più anche il controllo culturale, nella mani di una piccola élite di pianificatori, analisti di mercato ed esperti di questioni sociali [oggi, nella Silicon Valley e dintorni]. La tecnologia diviene così essa stessa [qui Lasch riprende le analisi della Scuola di Francoforte e di Marcuse in particolare] uno strumento efficace di controllo sociale”. Dove però i mass-media “mantengono in atto una controrivoluzione preventiva permanente, come ha detto, senza esagerazioni Régis Debray” – ma di cui scriveva anche Marcuse. Da questo punto di vista, continuava Lasch, “i mass media non vanno visti come un semplice vettore dell’ideologia borghese e nemmeno come un mezzo attraverso cui propagandisti borghesi e pubblicitari manipolano l’opinione pubblica, ma come un sistema di comunicazione che mina sistematicamente la possibilità stessa della comunicazione, rendendo in tal modo sempre più anacronistico il concetto stesso di opinione pubblica”. Che sembra essere (che è) la realtà anche della rete e del digitale, una delle forme parossistiche dell’ideologia borghese (come si diceva un tempo…), ma soprattutto di quella che definiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale. E di cui l’ideologia borghese era solo una parte funzionale.

Quale sinistra, allora, oltre la lezione di Lasch? Quella ancora positivista/industrialista che pone l’impresa al centro della società; che accetta il mercato (il capitale) come immodificabile; che crede che la rete sia libertà e democrazia (e non anche o soprattutto totalitarismo tecnico e capitalistico); che cerca di essere anch’essa parte dell’élite/oligarchia; che non vede che è impossibile conciliare capitalismo e transizione verde (sempre per la contraddizione che non lo consente); o che pensa al digitale come a un potente cambio di paradigma non vedendo che è invece tecno-capitalismo e sempre tecno-capitalismo, nella prosecuzione della sua pianificazione sociale e antropologica, con altri mezzi? Oppure, possono davvero la sinistra e i progressisti – davanti alla crisi sociale e climatica – tornare a ragionare di emancipazione e di responsabilità per le future generazioni, quindi e finalmente di uscita dal tecno-capitalismo, cioè dalla (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale?

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