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iltascabile

Francesco, l’ultimo papa

Un bilancio dei primi dieci anni di pontificato di Bergoglio, tra riforme e timori di scisma, innovazioni e limiti

di Roberto Paura

97CEA553 CF6F 4BC5 95AE 15423BC65FEA 1440x708Un “pontificato breve”: così papa Francesco se lo immaginava e lo annunciava all’apertura dell’anno giubilare straordinario del 2015, poco meno di due anni dopo l’elezione. E la scelta di proclamare un giubileo straordinario dedicato al tema della “misericordia” tradiva la convinzione di non poter aspettare il 2025, anno giubilare ordinario. Breve era stato del resto il pontificato di Giovanni XXIII, che pure in meno di cinque anni aveva segnato una discontinuità radicale con il passato e inaugurato quel Concilio che avrebbe cambiato per sempre la Chiesa cattolica. Invece, contro molte aspettative, Francesco varca ora i dieci anni di pontificato: un tagliando importante, di bilanci – se ne leggono molti in giro – che cade in un anno particolare, il primo dopo la morte di Benedetto XVI, che mette fine all’ambigua e polarizzante questione dei “due papi”.

La sua elezione fu una sorpresa per tutti. Dopo essere stato per un paio di giorni il riluttante frontman degli anti-ratzingeriani al conclave del 2005, Bergoglio se ne era tornato in Argentina senza mettere in alcun conto una seconda possibilità. Ma le dimissioni sconcertanti di Benedetto XVI avevano rimesso tutto in discussione. Innanzitutto, si erano verificate talmente “a ciel sereno” – come dichiarerà a bruciapelo un istante dopo allo stesso papa il decano Angelo Sodano – che nessuno era preparato a immaginarne la successione. Lo stesso Ratzinger, che sperava di vedergli succedere Angelo Scola, era troppo esausto in quei giorni per provare a imporlo al collegio cardinalizio. Ma in secondo luogo, e soprattutto, le dimissioni di Benedetto XVI sancirono platealmente la sconfitta della sua linea.

Negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II si era infatti aperta, in modo sotterraneo, la discussione su come affrontare i due grandi temi che il pur energico Wojtyla aveva lasciato in disparte: il primo, il crollo delle vocazioni sacerdotali e l’epocale svuotamento delle chiese in Occidente; il secondo, il dramma degli abusi verso i minori. Non certo due temi secondari, che però il pontificato “politico” e “mediatico” di Giovanni Paolo II era riuscito a nascondere sotto al tappeto. Il programma di Ratzinger era sostanzialmente duplice: porre un freno alle tendenze centrifughe post-conciliari, con un ritorno a quella che per i gruppi conservatori era “la Chiesa di sempre”, rifugio sicuro dalle intemperanze del secolo, in particolare dalla rivoluzione sessantottina che per il prefetto dell’ex Sant’Uffizio era la vera responsabile del diffondersi di costumi morali disinibiti nel clero, inclusa la pedofilia; e bilanciare la perdita di potere politico della Chiesa – che Ratzinger riteneva necessaria secondo il suo concetto di “de-mondizzazione” – con una rinnovata centralità dei temi della morale cattolica, i “valori non negoziabili” relativi a sessualità, aborto, eutanasia, con lo scopo di riconquistare una posizione preminente nel dibattito pubblico. Fu un programma fallimentare: l’esplosione dei casi di abusi sessuali del clero, non più nascosti dall’imperativo del silenzio di Wojtyla, destituì di credibilità la crociata ratzingeriana sulla morale e accelerò l’allontanamento dei fedeli dalle chiese, soprattutto in un continente come quello europeo che per Ratzinger era l’unico che contasse davvero.

Francesco non sarà l’ultimo papa della profezia di Malachia, il Petrus Romanus al quale seguirà il Giudizio finale; ma potrebbe essere l’ultimo papa della Chiesa come la conosciamo.

L’arcivescovo di Buenos Aires rappresentava così la linea politica alternativa, quella della “de-clericalizzazione”: secondo questa posizione, gli abusi sono l’effetto del clericalismo, ossia della sostanziale convinzione del clero di rappresentare una casta di eletti, superiori ai laici e come tali intoccabili e infallibili (il dogma dell’infallibilità papale sancito da Pio IX ne è l’espressione più evidente). Solo attraverso una Chiesa meno clericale, dunque, sarebbe possibile risolvere il problema degli abusi e al tempo stesso non considerare più il calo delle vocazioni sacerdotali come un problema, perché in una Chiesa davvero matura e in linea con gli auspici del Concilio Vaticano II laici e chierici dovrebbero lavorare fianco a fianco. Soluzione non priva di difficoltà: perché da un lato richiede al clero stesso il compito di de-clericalizzarsi, scontrandosi con la naturale reazione corporativa che si scatena in un gruppo che si sente sotto attacco; dall’altro presta il fianco alle ambizioni di quei movimenti laicali nati sulla scia del Concilio trasformatisi a loro volta in corporazioni e gruppi di potere (da Comunione e Liberazione all’Opus Dei, per citare i più influenti), con il rischio di sostituire una casta a un’altra.

 

Un progressista riluttante

In molti nutrivano dubbi sulla possibilità che Jorge Mario Bergoglio fosse la persona giusta per portare avanti un simile programma. Il suo passato era quantomeno ambiguo. Come giovane Superiore dei Gesuiti argentini negli anni Settanta è schierato su posizioni conservatrici e secondo alcuni persino di tacita connivenza con il regime di Videla. È in prima fila nel condannare la discussa “teologia della liberazione”, bollata da Roma come un pericoloso tentativo di unire cristianesimo e marxismo. Un lungo periodo di allontanamento dal potere deciso dai suoi superiori ecclesiastici (a quanto sembra a causa del suo carattere imperioso e decisionista) coincide tuttavia con un processo di riflessione interiore che ne cambia radicalmente le posizioni. In Germania, dove alla fine degli anni Ottanta tenta senza successo di conseguire il dottorato in teologia – di fatto essenziale per ottenere incarichi nella Curia romana – Bergoglio matura l’insofferenza nei confronti della teologia europea di matrice tedesca che giudica troppo concettosa e lontana dai bisogni autentici del popolo di Dio. A Córdoba, dove è inviato come direttore spirituale, sperimenta una forte crisi interiore che lo porta persino a rivolgersi a uno psicologo (la Chiesa a lungo è stata tenacemente ostile alla psicanalisi). Lì ha l’opportunità di riavvicinarsi al pueblo, ai più poveri, che metterà al centro dell’azione pastorale prima come vescovo ausiliare e poi, dal 1998, come arcivescovo di Buenos Aires e primate d’Argentina. Sceglie di abitare in un semplice appartamento e cucinarsi da solo, lontano dal fasto della curia arcivescovile.

Sono gli anni del default argentino, in cui povertà e disuguaglianze si impennano: l’arcivescovo Bergoglio – nominato cardinale nel 2001 – è in prima fila nel condannare le speculazioni finanziarie che hanno dissanguato il paese e nel tentare di rimarginare le ferite dei più poveri: gira nelle periferie, in metropolitana, in autobus, a piedi, e al sollievo della carità materiale unisce quello della carità cristiana. Al dogmatismo della gioventù si è gradualmente sostituita la convinzione (qualcuno direbbe “tipicamente gesuitica”) che il pastore non deve temere di allentare i lacci delle norme canoniche se questo significa andare incontro all’esigenza di misericordia dei peccatori. La Chiesa, dirà in seguito, non è la comunità dei perfetti, ma dei “peccatori salvati”.

L’attenzione di quei gruppi progressisti che nel collegio cardinalizio guardano al dopo-Wojtyla si concentra su di lui solo tardivamente. Bergoglio non si fa vedere quasi mai a Roma, in pochi lo conoscono. Il frontman dei progressisti, il collega gesuita Carlo Maria Martini, non lo considera adeguato a sostituirlo nel ruolo che la malattia lo ha costretto ad abbandonare: troppo distante dai sottili discorsi teologici con cui si cerca di contrastare il pensiero unico imposto da Ratzinger, troppo privo di spessore culturale per poter imbastire quel dialogo con il laicato intellettuale agnostico o persino ateo che Martini considera essenziale (e da cui era scaturita la celebre iniziativa delle “Cattedra dei non credenti” dell’arcivescovo di Milano). Si fa notare però, poche settimane prima della morte di Giovanni Paolo II, con un fulminante discorso all’Assemblea Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il 1° marzo 2005. Lì Bergoglio boccia le bozze predisposte dalla congregazione su cui i vescovi dovrebbero esprimersi riguardo a come celebrare dando giusto risalto alla liturgia, e replica che non servono “tratti di teologia”, né documenti giuridici con “un apparato pesante di note a piè di pagina”, “un collage di brani conciliari o pontifici”, ma un “tono pastorale e spirituale, anzi meditativo”. L’azione pastorale contrapposta a quella teologica e dogmatica: è su questa polarizzazione che si giocherà lo scontro nel conclave da cui uscirà vincitore Benedetto XVI. Ma è proprio a causa della successiva sconfitta della linea ratzingeriana, nel 2013, che si ripartirà da Bergoglio.

Sin dall’iniziale scontro con Ratzinger, Bergoglio contrappone l’azione pastorale a quella teologica e dogmatica.

Nel 2007 si tiene ad Aparecida, in Brasile, la Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. È la quinta di questo genere, ma su di essa come su quelle precedenti incombe lo “spettro” di quella di Medellín, da cui nel 1968 era partita la grande stagione della teologia della liberazione. Obiettivo è quello di ripensare la proclamazione del Vangelo e l’annuncio cristiano nel contesto specifico dell’America latina, con una rinnovata attenzione alle disuguaglianze, agli ultimi e ai popoli indigeni. Bergoglio presiede la commissione per la redazione del documento finale, che gli permette di giocare un ruolo di protagonista. La sua omelia, che è in realtà un discorso programmatico, è l’unica che sarà oggetto di grandi applausi: “Non vogliamo infatti essere una Chiesa autoreferenziale, ma missionaria; non vogliamo essere una Chiesa gnostica, ma una Chiesa che adora e prega”. Bergoglio propone “una Chiesa che arrivi a tutte le periferie umane”. L’analisi delle storture della globalizzazione e delle conseguenze delle disuguaglianze socio-economiche si lega all’obiettivo di trasformare la Chiesa in una comunità missionaria, rivolta innanzitutto ai poveri e agli ultimi, riprendendo così quella “opzione preferenziale per i poveri” espressa a Medellín. Inoltre, la scelta di Bergoglio di redigere il documento a partire da una libera discussione anziché da un testo calato dall’alto – come era accaduto nella conferenza di quindici anni prima a Santo Domingo – rappresenta anch’essa una dichiarazione d’intenti: il rinnovamento della Chiesa si costruisce insieme, dal basso.

 

Programma per un pontificato

Aparecida è la prova generale del futuro papa. I “signori cardinali” che lo andranno a prendere “quasi alla fine del mondo” nel conclave del 2013 decidono di provare a realizzare a livello globale la Chiesa che Bergoglio ha in mente per l’America latina. Lo fanno vescovo di Roma. La Evangelii gaudium, il documento programmatico del pontificato di Francesco pubblicato a novembre del 2013, recepisce quell’obiettivo. È il documento in cui si esprime per la prima volta la famosa formula della “Chiesa in uscita”, una “trasformazione missionaria della Chiesa” che non a caso costituisce il titolo del primo capitolo e che sarà resa concreta nel 2022 dalla Predicate Evangelium, il documento di riforma della Curia romana che alla testa della struttura della Chiesa pone non più il Dicastero per la Dottrina della Fede (quello retto da Ratzinger dal 1981 al 2005) ma il Dicastero per l’Evangelizzazione, a recepire plasticamente il concetto che l’azione pastorale viene prima della riflessione teologica e della definizione dei dogmi. La fede, precisa Francesco nella Evangelii gaudium, è “gioia” (gaudium), un termine che nel documento compare 82 volte (“Gioia”, con la maiuscola, era anche il modo in cui lo scrittore C.S. Lewis indicava l’esperienza romantica ed estatica del contatto con Dio). Dio è “misericordia”, un altro termine frequente (31 volte), che richiama il titolo del libro del teologo e cardinale Walter Kasper che Francesco citò nel primo Angelus del suo pontificato, e che sarebbe ritornato nella scelta di indire il Giubileo straordinario della misericordia: questo significa che il perdono è sempre la strada preferenziale per la conversione, alternativa radicale alla convinzione secolare dell’errore da punire, del torto da vendicare.

L’altro termine ricorrente è “poveri”. “Non dimenticarti dei poveri” era stato l’invito rivolto a Bergoglio dal suo vicino di scranno nella Cappella Sistina, il cardinale brasiliano Claudio Hummes, uno dei più noti esponenti della teologia della liberazione, che avrebbe spinto l’argentino a scegliere come nome pontificale quello di Francesco. Una citazione dalla lettera di Paolo ai Galati, quando l’apostolo ricordava che, nell’atto di lasciare Gerusalemme dove si era recato per conferire con le “colonne” della Chiesa rappresentate da Pietro, Giacomo e Giovanni, questi ultimi lo avevano salutato pregandolo di ricordarsi dei poveri (Gal 2,10). A scelte simboliche come l’indizione della Giornata mondiale dei poveri nel 2017, Francesco affiancherà gesti concreti, a partire dalla scelta di compiere la prima visita apostolica a Lampedusa, che segnerà la scelta di concentrarsi nel suo pontificato sulla condanna all’indifferenza nei confronti delle stragi dei migranti nel Mediterraneo, ribadita nel 2016 con la visita al campo profughi dell’isola greca di Lesbo. Scelte che lo porteranno in rotta di collisione con i movimenti sovranisti che proprio negli anni della grande crisi dei migranti vedono gonfiare i loro consensi in Europa, ma anche con i governi europei che alle ondate migratorie decideranno di rispondere con l’erezione di muri alle frontiere, a cui Francesco replicherà con l’invito a “costruire ponti”, un richiamo al significato letterale del suo ruolo di pontifex.

La lotta al clericalismo rappresenta però la battaglia più difficile. Il primo passo consiste nel ridimensionare l’enfasi sulla morale cattolica che Benedetto XVI aveva posto al centro del pontificato. A partire dalla Controriforma, l’aumento in termini quantitativi e di potere del clero era stato gonfiato dalla crescente interferenza nella vita privata dei laici: attraverso l’uso del confessionale, passaggio obbligatorio per potersi comunicare, pratica che dopo Trento passa da una frequenza di una volta o due l’anno a quasi ogni giorno o perlomeno ogni domenica, il governo delle anime si fa pervasivo e la diffusione dei libri penitenziali, con la loro sistematica disamina di ogni possibile casistica e la relativa penitenza, comporta la trasformazione della religione in precettistica morale e dei preti in confessori che s’insinuano fin dentro al letto coniugale. Ridimensionare l’enfasi sulla morale sessuale significa privare il clero di quell’aspetto residuale di potere sulle anime che ancora detiene, ma per Francesco è un passaggio necessario: se infatti gli abusi sessuali nella Chiesa sono l’effetto dell’abuso di potere del clero, allora todo modo per disarticolare le strutture di potere del clero. Da qui la scelta di spegnere i riflettori sui temi della morale, dopo il costante cicaleccio del pontificato di Benedetto, avviando anzi aperture laddove possibile: innanzitutto nei confronti dell’omosessualità, tema affrontato già nel viaggio di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro nel luglio 2013, quando alle domande dei giornalisti su una “lobby gay” in Vaticano il papa dopo aver fatto spallucce replica: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. Questione ripresa di recente in un’intervista nella quale il papa ha ribadito la necessità di condannare quei governi che perseguono l’omosessualità come crimine, pur ammettendo che il rapporto omosessuale può essere considerato un peccato.

Papa Francesco sceglie da subito di spegnere i riflettori sui temi della morale, dopo il costante cicaleccio del pontificato di Benedetto, avviando anzi aperture laddove possibile.

Ma proprio perché per Francesco il peccato è un tema da affrontare non attraverso condanne dogmatiche ma con la misericordia del perdono, il problema dell’omosessualità tanto centrale negli anni dello scontro tra Vaticano e governo italiano sulle unioni civili è ormai derubricato a questione pastorale. Come dirà in seguito, non sono “i peccati della carne” quelli più gravi, ma quelli connessi al potere, che comportano cioè la “sopraffazione dell’uomo”. Laddove invece c’è solo debolezza, la possibilità di perdono è sempre aperta. Su questa base il pontefice affronta l’altro tema, quello del divorzio, aprendo alla somministrazione della comunione ai divorziati nell’esortazione apostolica Amoris laetitia del 2016 che recepisce le conclusioni dei due sinodi dei vescovi voluti da Francesco nel 2014 e 2015 sul tema della famiglia nel mondo contemporaneo. Apertura costretta in una nota a piè di pagina dalle riserve di molti vescovi conservatori e che sembra abbia prodotto più di un’alzata di sopracciglia da parte del papa emerito Benedetto XVI alla sua lettura. Pur sembrando poca cosa, la possibilità di ammettere all’eucaristia i divorziati rappresenta una picconata alla morale cattolica e il segno della superiorità assegnata da Francesco all’azione pastorale rispetto all’elaborazione dogmatica.

 

Limiti e resistenze

Se la speranza è di riuscire a riportare i fedeli in chiesa, tuttavia, evidentemente si tratta di un fallimento. Non solo: il ridimensionamento della morale cattolica non può che accelerare la diminuzione delle vocazioni sacerdotali. Lo sgonfiarsi del clero è diretta conseguenza della sua perdita di potere, che rende il ruolo del sacerdote non più centrale nella vita pubblica ma lo relega anzi a somministratore di sacramenti e “fundraiser” per i bisognosi locali; tramontati i tempi in cui al prete incontrato per strada ci si inchina, al vescovo si bacia l’anello e davanti al papa portato in giro sulla sedia gestatoria ci si inginocchia (Francesco abolisce tacitamente anche il baciamano), chi mai vorrebbe patire i morsi del celibato, le ristrettezze di una “Chiesa povera per i poveri” e la mediocrità di una vita da parroco di quartiere? Da questa inevitabile trasformazione del clero bisognerebbe trarre come conseguenza la necessità di dare più diretta applicazione alle previsioni del Vaticano II di un maggior coinvolgimento dei laici nell’attività religiosa, non più solo attraverso i “consigli parrocchiali” ridotti a comitati organizzatori di feste e pellegrinaggi, ma prevedendo un ruolo maggiore per il diaconato e magari ipotizzando l’ordinazione sacerdotale di quegli uomini sposati di provata fede, i cosiddetti viri probati; per non parlare della possibilità di aprire il sacerdozio alle donne, così da raddoppiare d’emblée il numero di potenziali sacerdoti. Sono queste le riforme che in molti si aspettano da Francesco, che in effetti nel 2016 istituisce una commissione di studio sul diaconato delle donne: mossa che sembra anticipare un’apertura alle “diaconesse”, che dalle lettere neotestamentarie e altre fonti dei primi secoli sembra siano state presenti nella Chiesa. Significherebbe avere donne che somministrano l’eucaristia, leggono il Vangelo e tengono l’omelia, presiedono la celebrazione dei sacramenti, impartiscono benedizioni. Ma nel 2019 la commissione si scioglie senza raggiungere un consenso, e Bergoglio ammette che “il risultato non è un granché”.

È solo uno dei limiti con cui l’azione riformatrice del papa è costretta ben presto a fare i conti, soprattutto sul versante della lotta al clericalismo. Il tema era stato trattato in modo dettagliato nel documento programmatico Evangelii gaudium, attraverso la definizione di “mondanità spirituale”, che per Francesco si compone di due forme: il “fascino dello gnosticismo”, ossia la riduzione della fede a “una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione”; e il “neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico”, riferimento alla dottrina di Pelagio, condannata dalla Chiesa dei primi secoli per iniziativa di Sant’Agostino, secondo cui il credente può in sostanza salvarsi da solo attraverso la propria azione nel mondo: “È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare”.

Il fronte anti-bergogliano inizia a prendere forma all’indomani della pubblicazione della Amoris leatitia, quando quattro cardinali di spicco pubblicano una serie di perplessità sulla liceità teologica delle conclusioni sinodali.

Francesco non tarderà a dare seguito a queste affermazioni attraverso dure reprimende pubbliche nei confronti del clero, rimozione di vescovi (tra cui quelli cileni considerati conniventi con gli abusi sessuali nel 2018), sostituzione di esponenti della Curia con membri laici, fino a scelte recenti ancora più radicali, come la perdita dei diritti connessi al cardinalato di Angelo Becciu a seguito dello scandalo della compravendita dell’immobile di Londra per 200 milioni di dollari e la riforma che prevede di nominare laici ai vertici dei dicasteri, che lo stesso papa intende completare di qui a breve con la nomina di una donna. Sono tutti gesti che hanno però l’effetto inevitabile di innescare la reazione corporativa del clero.

Il fronte anti-bergogliano inizia a prendere forma all’indomani della pubblicazione della Amoris leatitia. Il 19 settembre 2016 quattro cardinali di spicco – Raymond Burke, Carlo Caffarra, Walter Brandmüller, Joachim Meisner – pubblicano una lettera aperta che elenca una serie di dubia, ossia di perplessità sulla liceità teologica delle conclusioni sinodali. Sono domande molto forti, che tendono a mostrare come la tenue apertura del pontefice abbia come implicazioni il crollo dell’intera impalcatura della Chiesa: è ancora valido, si chiedono i prelati, il principio secondo cui esistono “norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi”? È “ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio, si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale”? È chiaro, dal tono dei dubia, che si tratta non tanto di una richiesta di chiarimento quanto della dimostrazione che Francesco si è posto fuori dalla Chiesa. Non stupisce, di conseguenza, la scelta del papa di non rispondere, nonostante a più riprese nei mesi successivi i cardinali sollecitino in pubblico una sua replica.

È intorno a questo primo gruppo di cardinali che si coagula l’opposizione a Bergoglio. Vi si aggiungono esponenti di punta del clero come l’ex prefetto per la dottrina della fede Gerhard Müller, dimissionato dal papa nel 2017 proprio per le sue latenti perplessità alla svolta morale di Francesco; l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, che ben presto si trasforma in una sorta di “anti-papa” arrivando a definire Francesco come l’Anticristo; un vasto gruppo di vescovi americani ultra-conservatori che, negli anni dell’amministrazione Trump (“benedetta” da Viganò, che lo considera un messia) si schierano su posizioni reazionarie intorno alla bandiera pro-life, prendendo ufficialmente posizione contro Biden – reo di aver promosso leggi a favore dell’aborto – al punto da prevederne l’esclusione dalla comunione, mentre il papa lo accoglie senza riserve in Vaticano. A ciò si aggiunge una pletora di blog su cui vengono pubblicate feroci accuse anonime da dentro e fuori il mondo clericale, tra cui quelli dei vaticanisti conservatori Aldo Maria Valli, Sandro Magister, Antonio Socci e altri come Silere non possum, Messa in latino, Chiesa e postconcilio, che alzeranno il livello dello scontro all’indomani della pubblicazione, nel luglio 2021, della Traditionis custodes, il “motu proprio” con cui Francesco abroga l’apertura di Ratzinger al ripristino della messa tridentina in latino, quella pre-conciliare, feticcio di tutti i conservatori, ora possibile solo previa approvazione del vescovo diocesano.

Se Francesco aveva forse messo in conto le critiche, è certo che ne ha sottovalutato ampiamente la portata, forse sperando nell’effetto trascinante del suo pontificato, la cui spinta innovatrice inizia però con il tempo a incagliarsi.

Se Francesco aveva forse messo in conto le critiche, è certo che ne ha sottovalutato ampiamente la portata, forse sperando nell’effetto trascinante del suo pontificato, la cui spinta innovatrice inizia però con il tempo a incagliarsi. Troppo grandi le aspettative nei confronti di un pontefice che, dopotutto, è egli stesso un membro del clero e come tale ne condivide schemi di pensiero e modus operandi. Ne è espressione, per esempio, una nemmeno troppo taciuta misoginia, da cui derivano uscite tranchant nei confronti, per esempio, delle suore, invitate a tacere perché troppo impegnate in frivoli pettegolezzi o a fare attenzione agli effetti della crisi di mezza età (a cui evidentemente gli uomini sono immuni). La scelta di intitolare l’enciclica licenziata nel 2020 Fratelli tutti – una citazione da San Francesco – appare incongrua a molte teologhe che chiedono pubblicamente di cambiare il titolo in un più equo “sorelle e fratelli tutti”. Ma da quell’orecchio il papa ci sente poco e se c’è un punto che ha voluto chiarire fin dalla Evangelii gaudium è che il sacerdozio femminile non è un’opzione sul tavolo. Francesco ribadisce invece quella dicotomia risalente al grande teologo del Novecento Hans Urs von Balthasar tra “principio petrino” e “principio mariano”, il primo riguardante l’azione di governo e il secondo l’azione spirituale, ma dove il primo resta riservato agli uomini. Anche se non mancano nomine di donne consacrate e laiche all’interno della Curia romana, si tratta nel complesso di poca cosa.

 

La casa brucia

L’impronta maggiore lasciata dal papa “argentino” è nella lettura dei fenomeni sociali attraverso la lente latinoamericana. Il cardinale Bergoglio è stato un feroce critico dell’interferenza statunitense in America latina e da papa dirà che le critiche provenienti dagli americani sono “un onore” per lui. Ha vissuto sulla sua pelle le conseguenze di un capitalismo predatorio e negli incontri con gli altri vescovi latinoamericani ha toccato con mano anche il dramma della distruzione delle risorse e del depauperamento dell’Amazzonia. Se in passato i pontefici hanno trattato questi due temi – la condanna delle storture del capitalismo e il rispetto per l’ambiente – in modo separato (e con enfasi diverse: Giovanni Paolo II non nascose mai la sua simpatia per la globalizzazione), per Francesco si tratta di considerarli insieme, come aveva fatto il santo di cui porta il nome, che alla difesa dei più poveri unì un’inedita (per i tempi) attenzione al rispetto del creato. Da qui prende le mosse il documento più importante del suo pontificato e uno dei testi più influenti degli ultimi decenni, la Laudato si’, la prima enciclica papale (formalmente la seconda, ma la Lumen fidei del 2013 era stata scritta interamente da Ratzinger e semplicemente firmata dal nuovo papa). Obiettivo di Francesco è promuovere una “ecologia integrale” dove la dimensione ambientale, economica e sociale siano tratte in modo strettamente interconnesso. L’uso dell’aggettivo “integrale” non è casuale. Lo si trova molteplici volte nel documento finale della conferenza di Puebla del 1979, quella che seguì Medellín e ne recepì l’innovativa proposta teologica, e dove i vescovi latinoamericani affermarono “la necessità di tutta la chiesa per una opzione preferenziale a favore dei poveri, al fine di raggiungere la loro liberazione integrale”: una liberazione dalla situazione sociale, economica, politica e culturale di cui sono vittime, a cui Francesco aggiunge la dimensione ecologica.

Laudato si’ è un documento densissimo di riflessioni rivoluzionarie per la visione cristiana del mondo, a partire dall’abbandono di quella concezione risalente al Genesi che vede nell’essere umano il pinnacolo della creazione e che trova nell’Apocalisse la sua inesorabile conclusione, quella di una distruzione completa del mondo di cui nulla si salva se non l’Uomo stesso. Ne è espressione l’apertura a una “solidarietà universale” tra tutti gli esseri viventi che invita a instaurare un “sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura”. Obiettivo che passa per l’abbandono della concezione economicista del mondo, dove ogni cosa è pensata solo in funzione strumentale per l’Uomo, a favore di una “conversione ecologica” dell’essere umano, una visione relazionale in cui l’Uomo, benché certamente unica creatura a immagine e somiglianza di Dio, perché riflesso del logos, definisce se stesso attraverso una relazione di amore e simbiosi con tutte le altre creature (a dispetto di quanto si dirà, è una visione che non ha nulla a che vedere con il panteismo, poiché il testo ribadisce che “le cose di questo mondo non possiedono la pienezza di Dio”).

Obiettivo di Francesco è promuovere una “ecologia integrale” dove la dimensione ambientale, economica e sociale siano tratte in modo strettamente interconnesso.

Attraverso l’enciclica, Francesco si fa portavoce di un movimento globale che avrà tra le sue numerose tappe la nascita di una Comunità Laudato si’ per la sperimentazione del modello di vita dell’ecologia integrale, l’istituzione in Vaticano del Dicastero per il servizio umano integrale nel 2017 e la convocazione nel 2020 di un forum periodico per la riforma dell’economia denominato “The Economy of Francesco”. Ma i suoi critici leggono nell’enciclica il tentativo di rinnovare l’agenda cristiana mettendo al centro questioni che nulla hanno a che vedere con il cristianesimo, sostituendo all’enfasi sulla morale quella sull’economia politica. Una “deriva latinoamericana” che la convocazione del Sinodo per l’Amazzonia nel 2019 non fa che enfatizzare: l’obiettivo di Francesco di una “Chiesa dal volto amazzonico e indigeno” unisce i princìpi della Laudato si’, dove si riconosce il ruolo determinante delle comunità indigene per la custodia della natura, con quelli emersi ad Aparecida a favore di una “via latinoamericana” all’evangelizzazione. I nemici di Bergoglio saranno invece scandalizzati dalla benedizione, all’apertura del sinodo in Vaticano, della statua di Pachamama, la “madre terra” della cosmologia incaica, che alcuni integralisti trafugano nottetempo per gettarla nel Tevere. Da allora inizieranno ad apostrofare il papa proprio con il nome della divinità precolombiana, per meglio sottolineare la sua deriva panteista ed eresiarca.

Come conseguenza il sinodo, che per Francesco rappresenta il punto di convergenza delle grandi correnti del suo pontificato, si carica di aspettative e minacce di scisma alimentate da un passaggio dell’Instrumentum laboris – il documento preparatorio del sinodo – in cui si legge che, a fronte delle difficoltà peculiari del clero cattolico in Amazzonia, dove la scarsità di sacerdoti rende impossibile celebrare quotidianamente l’eucarestia, i padri sinodali dovrebbero considerare la possibilità “di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabilire”, nonché di “identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne”. Il cardinale Müller esplicita la convinzione che tutta l’operazione sia solo un pretesto per l’ordinazione dei viri probati e l’apertura al sacerdozio femminile – in via sperimentale in Amazzonia, in attesa di esportare il modello a livello globale.

Le voci di scisma trovano un’eco anche in un oscuro episodio che si verifica alla vigilia dell’attesa pubblicazione della Querida Amazonia, l’esortazione apostolica con cui il papa nel febbraio 2020 tira le file del sinodo. Il cardinale conservatore Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, pubblica un libro intitolato Dal profondo dei nostri cuori che vede Benedetto XVI come co-autore e nel quale si prende apertamente posizione contro l’ipotesi di ordinazione dei viri probati e altri annacquamenti della sacralità del ministero sacerdotale. Il fatto che il testo non solo includa un articolo di Ratzinger ma sia da lui co-firmato appare chiaramente come una chiusura del papa emerito alla linea del suo successore. Nei giorni successivi, dal monastero Mater Ecclesiae dove risiede, nei Giardini Vaticani, arriva la smentita di Georg Gänswein, il braccio destro di Ratzinger, che chiede di ritirare il suo nome dalla copertina del libro, ormai già distribuito in libreria. Poco dopo, lo stesso Gänswein sarà allontanato da tutti gli incarichi di curia e relegato nel monastero a fianco dell’ex papa.

I circoli conservatori sembrano pronti allo scisma nel caso in cui si aprisse all’ordinazione di uomini sposati.

In diversi hanno visto in quest’episodio un avvertimento dei circoli conservatori, pronti allo scisma nel caso in cui la Querida Amazonia avesse aperto all’ordinazione di uomini sposati. L’assenza di ogni riferimento a questa ipotesi e ad altre simili nel documento licenziato da Francesco appare in quest’ottica come una retromarcia, anche se esistono altre interpretazioni. Una di queste suggerisce di leggere la scelta di Francesco nell’ottica della sua politica di de-clericalizzazione, come emergerebbe dal passaggio nel quale il papa contrappone all’istituzione di nuove figure ministeriali l’apertura a una “cultura ecclesiale marcatamente laicale” (corsivo nel testo), che preveda cioè “un incisivo protagonismo dei laici”. La riforma della curia nel 2022, che va esattamente in questa direzione, sembrerebbe confermare tale interpretazione. Ma è un fatto che a partire da allora l’azione riformistica di Bergoglio entra in crisi.

 

La svolta peronista

Una spiegazione potrebbe risiedere in ciò che avviene poco dopo, ossia l’esplodere della pandemia di COVID. Inizialmente il papa è tra i minimizzatori, ma non ci vuole molto perché anche lui si renda conto della drammaticità del momento, enfatizzata da uno degli episodi più iconici del pontificato, quello della messa celebrata in solitudine sul sagrato della basilica di San Pietro la sera del 27 marzo 2020, in una Roma il cui innaturale silenzio è squarciato solo dalle sirene delle ambulanze, mentre mezzo mondo è confinato nelle proprie case per scongiurare la catastrofe. Il COVID non lo colpirà mai (almeno a quanto è dato di sapere), ma lo costringe a un prolungato isolamento. Nel mentre, la sua salute inizia a declinare: dapprima la sciatalgia che lo rende claudicante, poi un’inattesa operazione chirurgica nel luglio 2021 per una stenosi diverticolare che richiede la rimozione di una parte del colon (mentre viene scongiurato il timore di un carcinoma), poco dopo il peggioramento dell’artrosi del ginocchio destro che lo costringe a muoversi in carrozzina, rifiutando tuttavia l’ipotesi di un intervento risolutivo a causa delle conseguenze spiacevoli dell’anestesia generale subita.

Come sempre accade nella storia dei papi, isolamento e declino della salute si associano un incremento dell’autonomia dei membri della curia che ben presto esplode in gravi scandali, come quello del cardinale Becciu reso ancora più grave dalle accuse del cardinale George Pell – inquisito, arrestato ma infine scagionato da ogni accusa di pedofilia – secondo cui proprio Becciu avrebbe distratto fondi vaticani per pagare testimoni con cui incastrarlo a causa di dissidi nella gestione delle finanze. Un caso ancora oscuro che il Tribunale vaticano sta cercando di chiarire, nel corso del primo processo della storia a un cardinale di curia. Le spinte centrifughe aumentano esponenzialmente all’indomani della morte di Benedetto XVI, che spinge i circoli conservatori a rialzare la testa ed esponenti di punta come Gänswein e Müller a pubblicare testi molto duri nei confronti di Francesco, mentre si scopre che un testo firmato “Demos” circolato tra i cardinali nella primavera 2022 e ripreso dai blog conservatori, nel quale si giudicava il pontificato bergogliano “una catastrofe”, era stato scritto dal cardinale Pell, morto improvvisamente nel gennaio 2023. È un testo che riprende i leitmotiv della critica antibergogliana – Pachamama, divieto della messa in latino, rigetto dell’insegnamento cristiano sulla sessualità – aggiungendo accuse circostanziate alla pessima gestione delle finanze vaticane e tracciando le linee-guida del successore di Francesco.

I critici rinfacciano anche a Bergoglio l’indifferenza davanti all’avanzata del protestantesimo pentecostale dappertutto e in particolare in America latina, proprio lì dove il papa avrebbe dovuto essere più incisivo.

Su alcuni punti il testo è nel giusto. Il primo riguarda l’indifferenza della Chiesa all’avanzata del protestantesimo pentecostale dappertutto e in particolare in America latina, proprio lì dove Bergoglio avrebbe dovuto essere più incisivo: la mancanza di riferimenti a questa situazione durante il Sinodo sull’Amazzonia – regione che ricade nel paese più toccato dal dilagare del pentecostalismo, il Brasile – rappresenta per Pell una preoccupante mancanza di consapevolezza, se non addirittura l’espressione di una connivenza di Francesco con il movimento pentecostale (è una tesi sposata anche dal sociologo Marco Marzano). È vero che l’attenzione di Francesco e del suo entourage è piuttosto orientata alla Cina, con la quale nel 2018 viene firmato uno storico accordo segreto per le nomine dell’episcopato cattolico, fortemente criticato dall’amministrazione Trump ma rinnovato nel 2020 e nel 2022: forse nella speranza di fare di quel paese una nuova frontiera di evangelizzazione nel prossimo futuro.

Il secondo punto riguarda l’incremento dei motu proprio, i decreti promossi dallo stesso pontefice per regolamentare questioni urgenti e che sempre più si trasformano in strumenti per promuovere azioni radicali, come la riforma della giustizia vaticana per rendere possibile il processo al cardinale Becciu o il giro di vite sulla messa in latino. Non si contano i commissariamenti decisi da Francesco: i più clamorosi riguardano la comunità monastica di Bose, gestita da Enzo Bianchi, allontanato forzatamente dal commissario papale; la Caritas internazionale, a causa di non precisati “abusi di potere”; i “Memores domini”, l’associazione laicale di Comunione e liberazione; l’Ordine di Malta; la stessa diocesi di Roma, accusata di eccessiva autonomia dal suo vescovo. A ciò si aggiunge la decisione nel 2021 di riformare tutte le associazioni di fedeli imponendo il ricambio dei vertici ogni dieci anni, con l’obiettivo di evitare l’emergere di ingombranti figure carismatiche in grado di creare comunità chiuse e autoreferenziali dove è facile finire preda di abusi di ogni tipo.

L’influente quotidiano cattolico americano Crux ha parlato al riguardo di “papato imperiale” per definire questa nuova fase del pontificato di Bergoglio, con riferimento alla “presidenza imperiale”, concetto coniato dallo storico e politologo Arthur M. Schlesinger negli anni Settanta per designare la trasformazione della presidenza americana sotto Nixon. Più correttamente si potrebbe parlare di una “fase peronista”, poiché da un lato l’interventismo di Francesco non è coinciso con una svolta conservatrice del suo pensiero, dall’altro perché tale interventismo, prendendo di mira le gerarchie ecclesiastiche, rappresenta un’accelerazione del programma di de-clericalizzazione a favore di un rapporto diretto e populista tra il pontefice e i suoi fedeli. Ne sono plateale testimonianza i recenti due decreti emanati a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro con cui il papa dapprima ha ribadito la destinazione pubblica dei beni della Chiesa e ha poi revocato le condizioni ultra-agevolate di affitto degli immobili vaticani per i membri della curia costringendoli ad accettare significativi aumenti del canone o a cercarsi altre sistemazioni. Ma anche la decisione di non avviare processi di evangelizzazione nelle terre di conquista del pentecostalismo può essere letta come una latente simpatia per quei movimenti religiosi che si richiamano allo spontaneismo dei primi cristiani, con l’enfasi sul miracoloso, sull’aspetto popolare della religione e sul protagonismo dei laici a scapito del clero, sebbene l’orientamento politico di questi movimenti sia generalmente vicino al populismo di destra – come dimostra il supporto all’ex presidente brasiliano Bolsonaro – e dunque lontano dalle visioni di Bergoglio.

 

L’ultima crociata: il sinodo universale

Ciò che lascia perplessi è la distanza tra il crescente centralismo papale e l’obiettivo di una Chiesa “decentrata” che Francesco fece proprio sin dalla Evangelii gaudium, quando scrisse: “Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare decentralizzazione”. A questo fine Francesco fin dal 2015, nel discorso per la celebrazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, rilevala la sua convinzione che tali sinodi dovessero diventare sempre più rilevanti per il governo della Chiesa e definire questioni non solo locali ma universali: “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare ‘è più che sentire’. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo”. Con un documento prodotto nel 2018 intitolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa la Commissione Teologica Internazionale individuava i fondamenti scritturali e nella storia della Chiesa del concetto di sinodalità, auspicando per la Chiesa del terzo millennio “l’esercizio del ministero petrino di unità e di guida della Chiesa universale da parte del Vescovo di Roma nella comunione con tutte le Chiese particolari, in sinergia con il ministero collegiale dei Vescovi e il cammino sinodale del Popolo di Dio”.

Oggi c’è una netta distanza tra il crescente centralismo papale e l’obiettivo di una Chiesa “decentrata” che Francesco fece proprio sin dalla Evangelii gaudium.

La rotta era quella tracciata dal cardinale Bergoglio ad Aparecida: una riforma della Chiesa dal basso attraverso l’ascolto delle richieste sia dei laici che dei consacrati riuniti in comunità, dalle parrocchie alle diocesi locali fino agli episcopati nazionali e alla Chiesa universale. Da qui la convocazione nel 2021 di un “sinodo sulla sinodalità” chiamato a dare adempimento a questo obiettivo attraverso una serie di riforme innovative e un processo per tappe che lo stanno gradualmente trasformando nella più grande mobilitazione della Chiesa dai tempi del Concilio Vaticano II, al punto da spingere a parlare di un vero e proprio cripto-concilio, con tutto ciò che ne consegue.

Il cammino sinodale – che qualcuno chiama anche “sinodo universale” – si sta sviluppando in più fasi: una prima, completamente nuova, ha previsto un processo di ascolto all’interno delle parrocchie e poi delle diocesi locali, da cui sono scaturiti sinodi nazionali e infine, a partire dagli inizi del 2023, la “tappa continentale” del sinodo, attraverso cioè la celebrazione di incontri a livello di continente. Nell’ottobre 2023 si terrà quindi la prima assemblea generale in Vaticano; “prima” perché, a differenza di tutti gli altri sinodi dei vescovi, Francesco ha deciso di recente di scindere l’assemblea in due parti, la seconda delle quali si celebrerà a distanza di un anno, nell’ottobre 2024: scelta che sembra imitare quella delle diverse sessioni del Concilio Vaticano II e che forse tradisce l’obiettivo di una fase abbastanza lunga di discernimento qualora l’assemblea del 2023 deragli dai binari predefiniti, come del resto accade proprio nella prima sessione del Vaticano II, quando i padri conciliari rigettarono a sorpresa gli schemi predisposti dalla Curia romana avviando una messa in discussione di tutti gli aspetti della vita cristiana da cui scaturì la grande stagione di rinnovamento conciliare.

Allora come oggi i mal di pancia vengono soprattutto dalla Germania, dove il sinodo nazionale convocato fin dal 2019 ha portato ad assumere posizioni rivoluzionarie, dalla richiesta di riconsiderare il sacerdozio femminile all’abolizione dell’obbligo del celibato ecclesiastico fino all’ammissione di gay dichiarati nel clero. Un terremoto a cui il Vaticano ha risposto in modo energico, costringendo lo stesso Francesco a inviare una lettera alla comunità tedesca chiedendo di reprimere tentazioni di “frammentazione” e “polarizzazione”. Richieste cadute nel vuoto, al punto che nel novembre 2022 i vescovi tedeschi sono stati convocati in Vaticano per una dura reprimenda, alla quale hanno però reagito con fermezza, dichiarandosi indisponibili ad accettare la proposta della Curia di una moratoria del cammino sinodale. Che nel frattempo proseguiva istituendo un “consiglio sinodale permanente”, ossia un’assemblea costituita da rappresentanti laici e religiosi che si è dichiarata autonoma dalla conferenza nazionale dei vescovi, spingendo nuovamente il Vaticano a pubblicare una lettera aperta con un’esplicita richiesta di scioglimento dell’assemblea: richiesta nuovamente respinta al mittente dalla comunità tedesca, ormai decisa ad andare fino in fondo e a portare le proprie istanze a Roma nel sinodo di ottobre. La scelta di Francesco di schierarsi su posizioni di netta chiusura nei confronti del sinodo tedesco destituisce di fondamento le aspettative di quanti nel sinodo universale hanno scorto l’estremo tentativo del pontefice di una riforma radicale della Chiesa “dal basso”, mettendo cioè i vescovi di tutto il mondo con le spalle al muro di fronte ai cahiers de doléances del popolo di Dio. L’obiettivo di una “conversione del papato” auspicato dallo stesso Francesco nella Evangelii gaudium sembra lontano. Pesano, forse, i timori di uno scisma che i conservatori ventilano di fronte alle pretese tedesche, e il desiderio di tenere a galla la barca di Pietro scossa da opposte correnti. Ma c’entra forse anche il fatto che Francesco non intende farsi sorpassare a sinistra nel suo processo di riforma della Chiesa e non abbia alcuna intenzione di vedere aggirati i precisi paletti posti all’inizio del pontificato riguardo cosa si possa e non si possa cambiare.

Sarà il futuro a determinare quale ruolo abbia giocato il pontificato di Francesco per la storia del cristianesimo.

Una delle intuizioni più profonde (e più autenticamente gesuitiche) del pensiero di Bergoglio è contenuta ancora una volta nella Evangelii gaudium. È l’idea secondo cui “il tempo è superiore allo spazio”, che emerge dalla concezione cristiana del tempo presente, sospeso tra celebrazione della salvezza rappresentata dall’avvento di Gesù nel passato e attesa futura dell’avvento del Regno. “Questo principio”, si legge nel documento, “permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone”. Agli spazi di potere si deve invece anteporre il tempo dei processi. “Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi”. È una delle rare frasi evidenziate in corsivo nel testo, a segnalare l’importanza che rappresenta nel pensiero di Bergoglio. Il suo stesso pontificato è nato con questo obiettivo: non portare a termine una riforma della Chiesa (che è semper reformanda), ma avviare un processo di cambiamento senza la pretesa di vederlo portato a compimento. “Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici”.

Il sinodo universale rischia di rendere questa idea molto più concreta di quanto lo stesso Bergoglio si auspicava all’inizio del suo pontificato; perché la storia insegna che è proprio quando un sistema in crisi tenta di riformarsi che è più grande il rischio di un crollo completo: fu così con la Francia dell’ancien régime, con l’Unione sovietica della perestrojka e con la Chiesa stessa alla vigilia della Riforma protestante. Francesco non sarà l’ultimo papa della profezia di Malachia, il Petrus Romanus al quale seguirà il Giudizio finale; ma potrebbe essere l’ultimo papa della Chiesa come la conosciamo, alla quale potrebbe seguire o una Chiesa realmente decentrata, con una forte autonomia delle chiese nazionali, in cui il pontefice è solo primus inter pares, una “Chiesa a due velocità” con una parte più riformista (dove si è abolito il celibato ecclesiastico e il divieto di ordinazione delle donne) e una più conservatrice, ma pur sempre “unita nella diversità” e magari in grado di chiudere anche il millenario Scisma d’Oriente (nel 2025 cattolici e ortodossi potrebbero accordarsi sulla data della Pasqua); oppure un nuovo scisma che potrebbe portare in Vaticano nuovi papi reazionari, forse provenienti dall’Africa – il cui clero è più legato a una morale conservatrice e a una concezione tradizionalista del clero – mentre la parte più progressista andrebbe incontro a una graduale protestantizzazione. Sarà in sostanza il futuro a determinare quale ruolo abbia giocato il pontificato di Francesco per la storia del cristianesimo.


* Giornalista scientifico e culturale, direttore della rivista "Futuri" e vicedirettore di "Quaderni d'Altri Tempi", collabora con diverse testate. Ha conseguito un dottorato in comunicazione della scienza all'Università di Perugia.

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