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sinistra

La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi

di Vittorio Stano

lista 480x512 consiglio2“Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete poveri; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi prenderò di comandarvi.”

Jean Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755)

Negli ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati. Dai birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo (1) con il suo libro “Dominio” ci guida nei luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.

Di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo. La rivolta dall’alto contro il basso ha investito tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia, l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi.

Ha sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito. Insorgere contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci. Il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento. Ma ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.

Questa guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi. Uno degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere: meno male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza in ogni dominio imperiale.

Ma nemmeno l’impressionante rozzezza di questo presidente è riuscita a svegliarci dalla sonnolenza intellettuale in cui ci culliamo. Per rendercene conto basta osservare la sinistra occidentale: quel che ne resta è ormai totalmente thatcheriano, nel senso che ha fatto suo il famoso slogan “TINA” (There Is No Alternative) della Lady di Ferro, visto che ha interiorizzato il capitalismo finanziario globale come unico futuro possibile per il pianeta. È più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo!

Un baratro ci separa dagli anni ’60 quando quasi tutti si definivano “liberal”. Oggi, 60anni dopo la parola “liberal” è diventata un’ingiuria. Una guerra è stata combattuta. Se non ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari non accorgendosi così delle tendenze di lungo periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci nascondono la foresta. La sinistra occidentale si straccia le vesti accusando il proprio retaggio culturale e politico di ideologismo. La destra invece ha mantenuto il proprio retaggio culturale, politico e ideologico. Anzi ha preso dalla sinistra quello che le serviva per iniziare la sua contronarrazione.

Per capire meglio il versante ideologico dello scontro bisogna concentrarsi su tutto ciò che è successo negli Stati Uniti, avendo questo una valenza planetaria. La prima avvisaglia dello scontro la dette il signor John Merril OLIN (1892-1982) proprietario della omonima corporation specializzata in industrie chimiche e belliche, fondata in Illinois e infine atterrata in Missouri. Creata nel 1953 la fondazione Olin rimase praticamente inattiva fino al 1969, anno in cui il magnate fu sdegnato dalla foto di militanti neri che facevano irruzione – fucili in mano e cartucce a bandoliera – nel rettorato dell’ateneo in cui lui aveva studiato da ragazzo, la Cornell University, nel nord dello Stato di New York.

Ricordiamoci di come doveva apparire l’America a un capitalista in quegli anni: università in subbuglio, ghetti neri in rivolta, la guerra in Vietnam indirizzata verso una disonorevole sconfitta, Bob Kennedy e Martin Luther King uccisi l’anno prima. È comprensibile che la foto della Cornell sconvolgesse John Olin e lo inducesse a dotare la fondazione di nuovi e ingenti mezzi e di consacrarla a un unico obiettivo: riportare le università all’ordine.

 

Quel fatale memorandum del 1971

L’azione della Olin Foundation rimase isolata fino al 23.8.1971 data in cui la storiografia ufficiale situa l’inizio della “grande offensiva conservatrice”. Quel giorno Lewis F. Powell Jr. scrisse un memorandum alla Camera di Commercio degli USA intitolato: “Attacco al sistema americano di libera impresa”. Il Memorandum non se la prendeva tanto con gli estremisti, quanto con i moderati. Le voci più inquietanti che si uniscono al coro delle critiche vengono da elementi rispettabili della società: dai campus, dai college, dai pulpiti, i media, le riviste intellettuali e letterarie, le arti, le scienze, i politici.

Come accade a tutti coloro che prevaricano, ai leghisti italiani che si sentono vittime degli immigrati, agli israeliani che si sentono vittime dei palestinesi, anche Powell sente che gli imprenditori americani sono vittime, sono accerchiati e in pericolo d’estinzione (!!). Gli imprenditori devono quindi attrezzarsi a condurre una guerra di guerriglia contro chi fa propaganda prendendo di mira il sistema, cercando insidiosamente e costantemente di sabotarlo. Perciò è essenziale che i portavoce del sistema siano molto più aggressivi che nel passato. E il terreno principale dello scontro sono le università e le idee che esse producono perché è il campus la singola fonte più dinamica dell’attacco al sistema dell’impresa. E perché le idee apprese all’università da questi giovani brillanti saranno poi messe in pratica per cambiare il sistema di cui è stato insegnato loro a diffidare, cercando lavoro nei centri del vero potere e influenza del paese: 1) nei nuovi media, specie la TV; 2) nel governo, come membri del personale o come consulenti a vari livelli; 3) nella politica elettorale; 4) come insegnanti e scrittori; 5) nelle facoltà a vari livelli d’istruzione. E in molti casi questi intellettuali finiscono in agenzie di controllo o in dipartimenti statali che esercitano una grande autorità sul sistema delle imprese in cui non credono.

 

Le idee sono armi

Le idee sono armi, le sole armi con cui altre idee possono essere combattute. Per combattere questa guerra di guerriglia, diceva Powell, il padronato deve imparare la lezione appresa tanto tempo fa dal movimento operaio. Questa lezione è che il potere politico è necessario; che tale potere deve essere coltivato assiduamente e che, quando necessario, deve essere usato anche aggressivamente e con determinazione, senza imbarazzo e reticenza. Una volta stabilito che la forza sta nell’organizzazione, in un’accorta pianificazione e messa in atto a lungo termine nella coerenza dell’azione per un numero indefinito di anni, nella scala del finanziamento disponibile, Powell passa ad articolare l’obiettivo su come riequilibrare le facoltà: attraverso il finanziamento di corsi, di dipartimenti, cattedre, libri di testo, saggi e riviste, e poi si allarga il raggio all’istruzione secondaria, ai media, alla TV, alla pubblicità e alla politica, al rendere a tutti i livelli più amichevole la giustizia verso gli imprenditori. L’appello di Powell fu ascoltato, non proprio nella forma che lui avrebbe voluto: una sorta di partito leninista del padronato. Fu ascoltato da un pugno di miliardari dell’America profonda.

 

Le tappe della riconquista

La strategia che fondazioni come Olin, Bradley, Mellon Scaife, Richardson e Koch adottarono dopo il Memorandum di Powell fu esplicitata nel 1976 dall’allora 25enne Richard Fink (3): …”una concisa direttiva per determinare come l’investimento nella struttura della produzione delle idee può fruttare maggiore progresso economico e sociale quando la struttura è ben sviluppata e ben integrata”. Fink considerava le idee come prodotti di un investimento per una merce da imporre sul mercato: prima da produrre e poi da vendere. Ma come facevano le fondazioni a scegliere a chi dare i soldi quando università, think tanks e gruppi di cittadini competono nel presentarsi come i migliori richiedenti in cui investire risorse? Le università affermano di essere la reale fonte del cambiamento. Generano le grandi idee e forniscono l’impalcatura concettuale per la trasformazione sociale […] I think tanks ritengono di essere i più degni di sostegno perché lavorano su problemi del mondo reale, non su temi astratti […] I movimenti di base affermano di meritare appoggio perché sono i più efficaci nel realizzare gli obiettivi. Loro combattono in trincea, e qui è dove la guerra è vinta o persa. La prima fase è l’investimento nella produzione di input fondamentali che chiamiamo “materie prime”. La fase intermedia converte queste materie prime in prodotti a maggiore valore aggiunto se venduti ai consumatori. L’ultima fase consiste nella confezione, trasformazione e distribuzione del prodotto delle fasi precedenti per consumatori finali.

Applicato alla produzione e vendita di idee, questo modello si traduce in una prima fase che investe in “materie prime intellettuali”, cioè esplora e produce concetti astratti e teorie che, nell’arena pubblica, vengono ancora principalmente dalla ricerca condotta dagli studi nelle università. Queste teorie però sono incomprensibili al pubblico e –seconda fase- per essere efficaci devono essere trasformate in una forma più pratica e maneggevole. Questo è il compito dei think tanks (4). Senza queste organizzazioni la teoria e il pensiero astratto avrebbero meno valore e meno impatto sulla nostra società. Ma mentre i think tanks eccellono nello sviluppare nuove politiche e nell’articolare i loro benefici, sono meno capaci di produrre cambiamento. Movimenti di base sono necessari nell’ultimo stadio per prendere le idee dei think tanks e tradurli in proposte che i cittadini possono capire e su cui possono agire.

…”Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente che deve andare dalla produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica” (Charles Koch)

 

Pensatoi d'assalto

Uno dei più autorevoli think tank conservatori è la Heritage Foundation. Aprì i battenti nel 1973 da un finanziamento di Joe Coors (5). Arrivarono in seguito molte donazioni da parte di diversi magnati, finché all’inizio degli anni ’80 tra i finanziatori di Heritage figuravano le divisioni corazzate del capitalismo USA: Amoco, Amway, Boeing, Chase Manhattan Bank, Chevron, Down Chemical, Exxon, General Motor, Mesa Petroleum, Mobil Oil, Pfizer, Philip Morris, Procter & Gamble, RJ Reynolds, Union Carbide Union Pacific, etc…. È impressionante la somiglianza tra il modo in cui i think tanks conservatori hanno teleguidato Trump e il modo in cui telecomandarono Reagan.

Il 3.7.2020 la Fondazione Heritage nel suo sito web si poteva leggere: <<… La nazione è sotto attacco. Cosa fare per fermare il programma socialista della sinistra?>> Il giorno dopo Trump affermava: … “il paese è sotto assedio da parte del fascismo di sinistra”.

Il think tank è un’entità peculiare il cui uso estensivo risale al dopoguerra. Nel 2019 vengono enumerati 8249 think tanks nel mondo, il 52% si trova in Europa (2219) e Nord America. Dei 2058 think tanks nordamericani, il 91% è statunitense. Louis Althusser, intellettuale francese, negli anni ’80 riteneva il think tank un “apparato ideologico di tipo nuovo”, che si situava a monte degli apparati ideologici tradizionali (scuola, chiesa, indottrinamento militare) o anche più recenti (mass media, soprattutto radio, TV e oggi social network). I think tanks esistevano già nel 1916 ma la novità oggi è la loro non dissimulata faziosità, il loro prendere apertamente partito e perorare le cause più estreme, in uno scontro frontale con il precedente fariseismo bipartisan di facciata. Questi nuovi think tanks da combattimento hanno un ruolo di primo piano nel fornire un arsenale intellettuale alla rivoluzione restauratrice. I più noti think tanks d’assalto sono: il Manhattan Institute for Policy Research (MI), il Cato Institute, la Hoover Institution e l’American Enterprise Institute (Aei). Il Manhattan Institute fu diretto anche da William Casey che ha diretto la CIA dal 1981 al 1987. Tra i finanziatori compaiono oltre ai soliti miliardari conservatori noti, la fondazione di Bill & Melinda Gates. Le loro mani sono rintracciabili in tutte le campagne ideologiche della destra degli ultimi 40anni. Ciò che chiedono, e ottengono, dai politici è la libertà da tutti i vincoli di legge, da tutti i regolamenti, compresi quelli che stabiliscono un salario minimo, limitano gli straordinari, vietano il lavoro minorile, ostacolano i monopoli, combattono l’inquinamento, delimitano lo sfruttamento delle risorse, tutti “lacciuoli” contro cui questi istituti si battono. Hanno fatto propria l’utopia di “Stato minimo” propugnata in quegli anni da R. Nozik (6) e la sua concezione estrema dei diritti individuali (…per Nozik “un sistema libero dovrebbe permettere agli individui di vendersi in schiavitù”). Inoltre fanno campagna contro il welfare state, contro il servizio sanitario, per limitare al massimo il ruolo dello Stato e cioè per ridurre il più possibile le tasse (…per Nozik le tasse sul lavoro non sono altro che “lavoro forzato”), per privatizzare la Social Security, la rete elettrica federale, l’intero apparato scolastico, le poste, la NASA. Sono anche contro l’interventismo USA in politica estera e pretendono sussidi alle grandi corporation finanziati dai contribuenti. Negli ultimi 20anni è diventato più difficile seguire traccia del denaro che porta dalle famiglie miliardarie ai think tanks, ma transitano attraverso enti intermedi, a statuto simile a quello delle fondazioni per quanto riguarda il regime fiscale, ma che hanno il vantaggio di garantire l’anonimato dei contribuenti. Anche i contributi alle campagne elettorali sono diventati irrintracciabili dopo la sentenza della Corte Suprema del 2010 che rese lecite illimitate donazioni anonime.

 

La partita è truccata, però…

Una controffensiva efficace contro la rivoluzione conservatrice non può essere finanziata e alimentata da fondazioni “liberal”, da una ipotetica ala sinistra del capitale. Come se per il capitale ci fossero due squadre in campo e una, quella ultraconservatrice, avesse trovato l’infallibile tattica per vincere. Le fondazioni dell’ultradestra hanno stracciato quelle liberal non perché disponessero di più soldi, né perché attingessero a un serbatoio di menti più intelligenti, ma per la fondamentale asimmetria che in regime capitalistico sbilancia destra e sinistra verso un ipotetico centro. L’asimmetria sta nel fatto che la destra non mette in discussione (né in pericolo) l’ordine capitalistico, il capitalismo come sistema, mentre la sinistra anche non estrema lo mette in discussione (ragion per cui, se messo alle strette, il capitale preferisce sempre la soluzione fascista a quella socialista: non per chissà quale malignità, ma per semplice volontà di sopravvivenza). Questo fa sì che ci possano essere fondazioni capitalistiche di estrema destra ma non di estrema sinistra. La partita è truccata. Le fondazioni di estrema destra pesano di più perché veicolano, con determinazione quasi feroce, un messaggio estremo, utopico di capitalismo radicale, duro, puro, mentre le fondazioni di sinistra, liberal o progressiste, veicolano per forza di cose un messaggio moderato che già di per sé propone un compromesso tra capitale e lavoro. Anche se la partita è truccata bisogna giocarla, altrimenti i padroni della terra vincono mano dopo mano senza che ce ne accorgiamo, come è avvenuto fino a ora. … Non basta un futuro da incubo, e persino la distruzione del futuro stesso, che i neoliberali stanno plasmando non solo per noi bipedi umani, bensì per tutti i viventi di questo pianeta. Non c’è ragione di escludere che credenze irrazionali come quelle per cui i mercati sono arabe fenici che nascono, si autoregolano e si rigenerano da sole, e per cui la convivenza umana è fondata sulla concorrenza (cioè che lo stare insieme è basato sul farsi la guerra!), non possano durare parecchi secoli o millenni, se coloro che le subiscono permettono senza reagire che queste stramberie dispongano delle loro vite.

Già il famoso Memorandum di Powell esortava esplicitamente a imparare le lezioni del movimento operaio e in pratica proponeva di costituire un PARTITO LENINISTA del PADRONATO. E ricordare quel Michael Joyce che diresse la fondazione Olin, secondo Forbes, s’ispirava a GRAMSCI quello dei “Quaderni del carcere”. E tutti i think tanks della destra conservatrice che hanno plagiato i concetti di egemonia, ideologia, hanno usato a proprio vantaggio la nozione di lotta di classe.

A proposito di lotta di classe il miliardario Warren Buffet rispose candidamente a un giornalista del New York Times il 26.11.2006 che gli chiedeva se esistesse ancora la lotta di classe: <<Certo che c’è la guerra di classe ma è la mia classe, la classe ricca, che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo>>. Cinque anni dopo Buffet ribadiva il concetto e affermava che i ricchi questa guerra di classe l’avevano già vinta! E l’opinionista del Washington Post commentava: “se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata ingaggiata “from the top down” (dall’alto contro il basso), per decenni. E i ricchi hanno vinto. Non è un esaltato a parlare di guerra di classe dall’alto contro il basso, è uno dei protagonisti di questa guerra: la loro vittoria è tale per cui loro di questa guerra possono parlare senza ritrosia, MENTRE NOI SOLO A NOMINARLA CI VERGOGNIAMO E SIAMO SUBITO SOSPETTATI DI ESTREMISMO. È stata una guerra ideologica totale. Ha avuto la sua pianificazione, le strategie, la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi. Insomma la counter-intellighentsia dei miliardari ha imparato un sacco dai suoi avversari. Basti pensare che lo storico David Koch aveva commissionato una storia confidenziale delle attività politiche di suo fratello, scrisse di Charles Koch (7): “Non gli bastava essere l’Engels o persino il Marx della rivoluzione libertaria. Voleva essere il Lenin”. Fanno impressione tutti questi capitalisti o cantori del capitalismo che sognano di essere gli Engels, i Marx, i Gramsci, i Lenin del capitale. Non è solo una vaga ispirazione, o non solo modelli da imitare. Sono proprio tattiche da imparare, strategie da riprendere, scelta degli obiettivi da assimilare. Cominciamo dalla controrivoluzione ideologica di maggior successo foraggiata dalle fondazioni, Law and Economics. C’è una precisa ragione storica per cui i miliardari ultraconservatori decisero di finanziare così massicciamente questa disciplina giuridica. E la ragione è che la sinistra, i progressisti, i liberal avevano insegnato alla destra quanto decisiva potesse essere la magistratura nello scontro politico. Gli eventi sono ormai troppo lontani (tra 72 e 45 anni fa) e non li ricordiamo più o non ce ne rendiamo più conto, ma quasi tutte le vittorie conseguite nelle lotte per i diritti civili negli anni ’60 furono certo dovute alla pressione dei movimenti, all’eroismo e allo spirito di sacrificio dei militanti, ma furono sancite, consolidate e rese durature non da atti legislativi del congresso, bensì da sentenze della Corte Suprema, cioè da atti giudiziari.

 

La cruciale importanza dell'ideologia

I neoliberali hanno appreso dai loro avversari la cruciale importanza dell’ideologia. Hanno imparato moltissimo su questo terreno, mentre è diventata una parolaccia per i benpensanti, per i progressisti da quartieri bene. Persino Fogel, lo storico che aveva rivalutato l’economia schiavista, parlando dell’immagine dei neri che avevano gli abolizionisti razzisti, si stupiva di questa eccezionale dimostrazione del potere dell’ideologia di cancellare la realtà. Viene inventata la nozione di “imprenditore ideologico” per poter incorporare l’ideologia all’universo neoliberale, per poter appropriarsene, e usarla. Quello che i neoliberali hanno imparato, assimilato e infine praticato, è l’idea che la società sia governata da un perpetuo scontro di classe, da una guerra tra dominati e dominanti. Così negli ultimi 50anni, nel momento in cui i dominanti formalizzavano e scatenavano lo scontro di classe contro i dominati, uno degli strumenti di questa lotta consisteva nel convincere i sudditi CHE NON CI FOSSE NESSUNO SCONTRO, che le classi fossero una balzana invenzione di qualche esagitato e che, se fossero esistite un tempo, ormai si erano estinte, spazzate via dalla storia, e che tutto quel che sussisteva fosse una MITICA, ONNICOMPRENSIVA, VAGA, FLUTTUANTE “CLASSE MEDIA” e tutt’al più una sottoclasse di poveri immeritevoli. Così mentre loro organizzavano la “guerra delle idee”, i loro avversari si crogiolavano (… e ci crogioliamo ancora) nella beata illusione di una società senza classi, senza conflitti d’interessi, obnubilati dall’immagine del sistema-paese, dell’impresa-Italia, di una concordanza d’ interessi, di un “remare tutti nella stessa direzione”, mentre i vincitori della guerra delle idee accumulavano e accumulano ricchezze e poteri inauditi. La società sta diventando sempre più diseguale, tanto che 10 persone al mondo possiedono un patrimonio superiore a quello di metà del genere umano. La crescita delle disuguaglianze è diventata una litania totalmente disconnessa dal problema del DOMINIO. È anche chic citare i libri di Thomas Piketty sul tema. Ma tutto lascia il tempo che trova. SIAMO DISEGUALI, e allora?

 

Il momento di imparare dagli avversari

Visto che i dominanti hanno tanto imparato dai dominati, è forse giunto il momento che noi dominati impariamo da loro. Per come hanno condotto la loro vittoriosa controrivoluzione, ci hanno mostrato con chiarezza i terreni dello scontro, che abbiamo via via incontrato: l’ideologia, il fisco, la giustizia, l’istruzione, il debito.

Marines e miliardari del Midwest ci hanno fatto capire il ruolo decisivo dell’ideologia, ci hanno insegnato che il primo obiettivo è restituire allo scontro ideologico la dignità, la centralità che i dominati sembrano aver perso come senso comune perché “le idee sono armi” – le sole armi con cui altre possono essere combattute. Nell’era in cui i partiti di sinistra erano egemoni, avevano agito con successo come se capissero il ruolo degli intellettuali. Sia per disegno, sia perché costretti o guidati dalle circostanze, hanno sempre diretto i loro sforzi ad acquisire l’appoggio di questa élite. Per intellettuali F. von Hayek (8) intende i “rivenditori di seconda mano delle idee”, un gruppo che non consiste solo di giornalisti, insegnanti, sacerdoti, conferenzieri, pubblicisti, commentatori radio (Hayek, 1949), narratori, disegnatori di cartoni animati, e artisti e tutti coloro che padroneggiavano la tecnica di trasmettere le idee. Ma oggi si verifica un paradosso inverso a quello rilevato da Hayek che i portavoce delle “masse” conquistassero l’egemonia tirando dalla loro parte le élites. Quando Hayek scriveva la sinistra era elettoralmente sovra rappresentata tra gli strati a infimo reddito, a capitale quasi nullo e a bassissima istruzione. In 70anni la sua base elettorale è progressivamente cambiata finché oggi la sinistra è sovra rappresentata tra gli strati ad alta istruzione e reddito medio-alto e sottorappresentata tra i ceti a reddito esiguo e scarsa istruzione. Per dirla con Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Sinistra bramina contro destra mercante) oggi la sinistra rappresenta i “bramini”, mentre la destra rappresenterebbe i mercanti. Il risultato collaterale di questa evoluzione è che la parte della popolazione a scarso reddito e a bassa istruzione, cioè la plebe, non viene più rappresentata da alcuna forza politica della destra o della sinistra tradizionali. Gli intellettuali sono ritenuti più importanti dei mercanti.

Mentre gli intellettuali della sinistra subiscono una fascinazione irresistibile dal denaro dei mercanti. La faccenda è confusa dal fatto che gli intellettuali di oggi, tutti sostanzialmente conservatori e conformisti al neoliberismo, si sentono di sinistra, proprio come effetto della controrivoluzione ideologica neoliberale che, cancellando le categorie di “lavoro” e di “sfruttamento”, ha fatto sparire le linee del conflitto; ci ha immersi tutti in una sorta di marmellata sociale. Forse dipende anche dal fatto che la sconfitta ideologica è così enorme che la stessa parola “sinistra” non si sa più cosa significhi. Per me stare a sinistra vuol dire sempre e soltanto stare dalla parte dei dominati contro i dominanti, dalla parte dei lavoratori contro i capitalisti.

Il ruolo dell’ideologia, spiegava il generale Petraeus è fondamentale nel ricostruire la distinzione del chi sta con chi. Nel farci prendere coscienza che non stiamo tutti dalla stessa parte. Che non siamo tutti capitalisti del nostro capitale umano, ma che alcuni sono nostri avversari e noi siamo avversari di altri. E questo ce lo hanno insegnato negli ultimi 50anni proprio loro con il loro linguaggio bellico. Il primo passo per rilegittimare i conflitti, le “insurrezioni” (“tumulti” li chiamava Machiavelli) è la lotta contro l’eufemismo. L’eufemismo non è solo ipocrisia. È tecnologia di potere, tecnica di comando. Uno splendido esempio è la parola RIFORMA. Un tempo riforma era tutto ciò che migliorava lo stato delle persone. Oggi riforma è una minaccia che si pronuncia. Il volgo appena sente di riforma delle pensioni, capisce che da vecchio rimarrà in mutande; riforma del welfare significa abolizione progressiva delle protezioni sociali; riforma della sanità significa che moriremo senza essere curati. Allo stesso modo in Occidente “pluralista” è una società in cui tutti hanno le stesse opinioni, dove cioè si deve:

    1. accettare il dogma del libero mercato;
    2. non avere pensieri o intenzioni che non siano moderati;
    3. essere filoamericani in modo incondizionato e denunciare le benché minime tracce di antiamericanismo.

Infatti il capolavoro di eufemismo si manifesta nell’esercizio dell’impero da parte degli Stati Uniti: anzi eufemismo è la forma di impero che hanno imposto al mondo.

 

Il capitale umano

Nel neoliberismo il concetto chiave è la concorrenza. Insita nella concorrenza vi è non l’eguaglianza ma la diseguaglianza, poiché nella concorrenza – nella competizione – c’è un vincitore e un perdente: la concorrenza non solo è basata sulla diseguaglianza, ma la crea. L’individuo è perciò considerato, sì, come operatore del mercato, ma in quanto competitore nella concorrenza. Ma chi è che compete nella concorrenza capitalistica? A concorrere tra loro sono le imprese. In quanto concorrente ogni individuo è considerato un imprenditore, anzi un’impresa di per sé: il manager di sé. Nell’antropologia neoliberale l’unità-individuo è un’unità-impresa e l’individuo è il proprietario di se stesso. Non è certo un’idea che viene spontanea agli esseri umani, quella di entrare in rapporto con se stessi in termini di proprietà. Io personalmente non mi sono mai guardato allo specchio valutando la mia proprietà, o la proprietà di me. Anzi il termine proprietà pare straordinariamente non pertinente se applicato al rapporto del sé con sé. La prima conseguenza di questa impostazione è che SIAMO TUTTI PROPRIETARI, dal bracciante messicano al minatore nero sudafricano, al banchiere di Wall Street. Ma di cosa siamo esattamente proprietari quando per esempio non possediamo denaro né oggetti materiali? SIAMO PROPRIETARI DI NOI STESSI: cioè noi stessi costituiamo il nostro proprio capitale. Ognuno è proprietario di sé, cioè del proprio capitale umano. La specificità del capitale umano è che è parte dell’uomo. È umano perché è incarnato nell’uomo, e capitale perché è fonte di future soddisfazioni, o di futuri guadagni, o ambedue. Il capitale umano sta all’economia come l’anima sta alla religione. Come, secondo le varie fedi ogni persona ha un’anima – non si vede ma c’è -, così in ognuno di noi c’è un capitale invisibile, immateriale, che intride l’individuo imprenditore di sé stesso. SIAMO TUTTI CAPITALISTI quindi, dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.

 

Tecnologia del debito

Se la rivoluzione informatica fornisce gli strumenti tecnologici di controllo a distanza, è la tecnologia del debito ad assicurarne la dimensione economica. È assai recente l’uso sistematico e codificato del debito – sia dei privati, sia degli Stati – come strumento politico e sociale. Fu Marx il primo a capire il ruolo che avrebbe giocato il debito pubblico nel capitalismo moderno. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario.

Il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il gioco di Borsa e la bancocrazia moderna. L’indebitamento dello Stato era interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo 4 o 5 anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Qual è la causa del fatto che il patrimonio dello Stato cade nelle mani dell’alta finanza? È l’indebitamento continuamente crescente dello Stato. E qual è la causa dell’indebitamento dello Stato? È la permanente eccedenza delle spese sulle entrate, sproporzione che è nello stesso tempo la causa e l’effetto del sistema dei prestiti di Stato. Per sfuggire a questo indebitamento lo Stato deve limitare le proprie spese, cioè semplificare l’organismo governativo, ridurlo, governare il meno possibile, impiegare meno personale possibile. Già Marx nel 1850 notava che l’indebitamento pubblico costringe lo Stato a essere “frugale”. È solo nel XX secolo che il debito assurge a vero e proprio strumento di controllo politico. Lo fa innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie, attraverso l’istituzione del “mutuo”. l’Ottocento non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento disciplinatore di intere popolazioni: chi si addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, per due ragioni: 1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria; 2) il mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua (futura) proprietà per anni e decenni a venire. Il mutuo trentennale sulle case garantito dallo Stato del New Deal di F.D. Roosevelt. Ancora oggi negli USA il 68% del debito dei nuclei familiari va sotto la voce “mutuo per la casa”. Ma è dalla seconda guerra mondiale in poi che il debito delle famiglie è esploso negli USA e poi in quasi tutto il mondo. Se il mutuo aveva rappresentato l’innovazione più foriera di conseguenze tra le due guerre mondiali, nei primi decenni del secondo dopoguerra l’innovazione finanziaria più rilevante fu la carta di credito. Mutuo e carte di credito spiegano almeno in parte l’incredibile espansione dei prestiti ai privati. Nel 1950 il debito delle famiglie rappresentava il 23% del PIL mentre oggi costituisce il 67% (95% nel 2008). Se nel 1960 il debito delle famiglie era pari al 60% delle loro entrate annue, nel 1980 era salito al 75%, nel 1995 al 95% e nel 2019 al 120% (Italia 2023: 160%) quando il reddito medio annuo di ognuna dei 128,82 milioni di famiglie americane è di 89.930 dollari, ma il suo indebitamento è di 108.288 dollari. Il debito è diventato la condizione di vita di quasi tutte le famiglie dei paesi sviluppati. Ci si indebita per il mutuo della casa, per l’acquisto della macchina, per studiare all’università, per andare in vacanza, per una protesi dentale.

 

L’indebitamento degli studenti

Ma il caso più illuminante è certo quello del debito di studio, contratto per pagarsi l’università negli Stati Uniti. Nel terzo trimestre del 2019 il suo ammontare totale era di 1500 miliardi di dollari (più del PIL della Spagna). Negli ultimi 10 anni il numero di persone di 60anni e oltre (più di 30 anni dopo aver terminato l’università) che sono ancora debitori per gli studi è quadruplicato passando da 700mila a 2,8 milioni di persone. Tra le molte cause c’è quella delle spese d’iscrizione triplicate. Per le università quadriennali (sia pubbliche che private) l’iscrizione costava in media 7413 dollari per l’anno accademico 1975-76; nel 1985-86 era salita a 12.274 dollari; nel 2016-17 è stata di 26.599 dollari. Nelle università private più quotate (quotate anche in Borsa, ad es. Harvard) nel 2016-17 l’iscrizione annua era di 41.468 dollari. Un mercato del lavoro avviato verso la recessione riduce la possibilità d’assunzione per i nuovi laureati che vengono così avviati verso l’insolvenza, una sorta di bancarotta generazionale. L’indebitamento degli studenti è una manifestazione esemplare della strategia neoliberale messa in campo dagli anni ’70: rimpiazzare i diritti sociali (diritto alla formazione, alla salute, alla pensione) con l’accesso al credito, cioè il “diritto” a contrarre debiti. Per le pensioni, non più una mutualizzazione dei contributi, ma un investimento individuale nei fondi pensione; non più un aumento dei salari, ma crediti al consumo; non più un servizio sanitario nazionale, ma assicurazioni individuali; non più diritto all’alloggio, ma fidi immobiliari… Le spese di formazione, interamente a carico degli studenti, permettono di liberare risorse che lo Stato si affretta a trasferire alle imprese e alle famiglie più ricche, in particolare attraverso la riduzione delle tasse. I veri assistiti non sono i poveri, i disoccupati, i malati, le madri single, MA LE IMPRESE E I RICCHI.


Note:
  1. Marco d’Eramo. È nato a Roma nel 1947. Laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Giornalista, ha lavorato per Paese Sera, Mondoperaio e il Manifesto. Collabora con Micromega, New Left Review, die Tageszeitung. Ha pubblicato diversi libri. Ultimamente “Dominio” con Feltrinelli.
  2. L.F. Powell Jr: ex giudice associato della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.
  3. Richard Fink: è un uomo d’affari e accademico americano. È l’ex vicepresidente esecutivo di Koch Industries, la seconda società privata più grande degli USA.
  4. Think tank: pensatoio, serbatoio di pensiero o centro studi, centro di ricerca,…, è un organismo, un istituto o un gruppo tendenzialmente indipendente dalle forze politiche che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi di settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dall’economia alla scienza e la tecnologia, dalle politiche industriali o commerciali, alle consulenze militari, fino all’arte e alla cultura.
  5. Joe Coors (1917-2003): era il nipote del produttore di birra Adolf Coors e presidente della Coors Brewing Company
  6. R. Nozik (1938-2002): è stato un filosofo e docente statunitense, professore presso l’Università di Harvard.
  7. Charles Koch (1935, vivente): è un imprenditore statunitense, figlio del fondatore delle Koch Industries, una delle aziende private più grandi del mondo. Patrimonio netto 59 miliardi di dollari (Forbes, 2023).
  8. F.von Hayek (Vienna 1889-Friburgo 1992): è stato economista e sociologo austriaco naturalizzato britannico. Pensatore liberale e liberista, è stato uno dei massimi esponenti della scuola austriaca e critico dell’intervento statale in economia. Nel 1974 è stato insignito, insieme a Gunnar Myrdal, del premio Nobel per l’economia. Mise in discussione le tesi di Keynes.

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