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gasparenevola

Democrazia, parola fatata. In festa tra Presa della Bastiglia e Crollo del Muro

Polittico, con stella e convitato di pietra

di Gaspare Nevola

bastiglia«Non pensate quello che io so che state pensando… Io lo so che state pensando…
Se vi ho adunato qua, c’è una ragione..
Eh… la democrazia… La democrazia…
Questa parola, questa parola fatata…
Questa parola di luce… questa parola alluminta…
Questo lampadario di parola
Che il mondo dice…
Uomini con tanto di barba che parlano di questa democrazia…
Cos’è? Eh… Cos’è questa democrazia?
Questa democrazia, dice…
No… non è vero… Sì… dice…
Eh, io capisco… voi adesso dite, adesso tu perché sei… e noi siamo… sai
Eh no, cari amici»
(Peppino de Filippo, I casi sono due. Scena: “La democrazia”. Autore: Armando Curcio. Portata in teatro da Peppino de Filippo dal 1945. Edizione televisiva del 1959)

PANNELLO I

Il 1989 e il “crollo” del Muro di Berlino sono simboli del nostro tempo. Simboli di una trasformazione del mondo e di una modernità politica incerta e disorientata. Il 1989 e il “crollo del Muro” sono eventi che, invero, si inscrivono in un lungo processo storico e nei suoi effetti, i quali hanno disegnato il mondo in cui viviamo. Sebbene la cultura politica dominante fatichi tutt’ora a coglierne significato e portata politica, con le debite proporzioni il 1989 richiama un’altra data simbolica che solitamente ci viene alla mente quando pensiamo alla politica nelle società moderne-contemporanee: una data giusto di due secoli più vecchia, il 1789 della Rivoluzione francese e della travagliata nascita della “democrazia dei moderni” –-quella rivoluzione alla luce della quale (nel bene e nel male) definiamo le democrazie contemporanee come “liberal-democrazie costituzionali rappresentative di massa”.

Ma richiama anche l’attenzione su quanta acqua è passata sotto il ponte della politica.

Gli effetti del 1989 hanno cambiato il volto politico dell’Occidente e dell’Europa. Possiamo distinguerli analiticamente in due principali macro-categorie (peraltro fittamente interconnesse): da un lato, effetti generali, di portata “globale”, in ambito internazionale ed europeo; dall’altro, effetti specifici all’interno dei singoli Stati, relativi alla politica e alla democrazia e molto profondi per la Repubblica italiana, che ne risente da subito nel modo più evidente e clamoroso, data la presenza del PCI: il partito comunista più forte di consenso elettorale e di legittimazione storica operante in Europa occidentale, una forza politica ed ideologica di primo piano dell’“arco costituzionale” repubblicano e della democrazia antifascista italiana[1] .

Effetti generali del 1989. Sono quelli che hanno inciso sulla politica a livello globale e un po’ in tutti i Paesi europei, sebbene secondo le peculiarità dei diversi casi: fine del mondo e delle ideologie bipolari del Novecento (“mondo libero delle democrazie occidentali” versus “mondo totalitario delle dittature sovietiche”); affermarsi della centralità di nuovi orientamenti contrapposti (globalismo ed europeismo vs. comunitarismo territoriale e neonazionalismo o sovranismo); accelerazione dell’integrazione e dell’allargamento dell’Unione Europea e, in reazione, crescita di sentimenti nazionali o di scetticismo e delusione verso il progetto europeistico[2]; accelerazione dell’integrazione e dell’allargamento internazionale/transnazionale/sovranazionale dei mercati e delle istituzioni globali-occidentali americanocentriche, di tipo finanziario (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio), ma anche di tipo militare (come nel caso saliente della Nato); indebolimento dello Stato come fonte primaria di autorità e di diritto, come regolatore dell’economia e del welfare[3]; profonda trasformazione della democrazia, dei suoi equilibri istituzionali e della sua cultura politica (ideali e sentimenti politici inclusi)[4]; incremento dei flussi migratori verso e dentro l’Europa e politicizzazione della questione migratoria.

Effetti specifici del1989. Sono quelli che si sono manifestati in particolare in Italia. Tra questi, ad esempio, un’accelerazione dell’appannamento della cultura antifascista e il diffondersi di spinte critiche o “revisioniste” che hanno finito per logorare l’antifascismo come “mito fondatore” della Repubblica italiana nata nel secondo dopoguerra[5]. Ma gli effetti che più direttamente hanno scosso la politica in Italia sono stati quelli riguardanti i partiti. Più precisamente, la “destrutturazione” del sistema dei partiti ha messo in crisi e trasformato la democrazia italiana, portando al tramonto della “Prima Repubblica”. A partire dal voto del 1992 (anche come conseguenza combinata con le inchieste giudiziarie e il clamore pubblico di Mani Pulite) registriamo risultati elettorali inattesi, veri apristrada della tanto agognata alternanza di governo. Con i risultati delle elezioni del 1994, per la prima volta nella storia repubblicana vanno al governo partiti non appartenenti allo storico “arco costituzionale” antifascista: partiti nuovi (Forza Italia, Lega Nord) o deliberatamente esclusi dall’arco costituzionale (il neo- o post-fascista MSI, trasformatosi in Alleanza Nazionale), e talora persino sostenitori della rottura dell’unità nazionale (la Lega secessionista di Bossi). In questa congiuntura, inoltre, i partiti storici mutano profondamente la loro identità politica e forma organizzativa, e nel volgere di pochi anni cambiano più volte anche nome, con ripetute scissioni e ricomposizioni (DC, PCI); altri partiti escono praticamente dalla scena politica (primo tra tutti il PSI, ma anche PSDI, PRI, PLI) e vedono il grosso del loro ceto politico e seguito elettorale ricollocarsi dentro i partiti sopravvissuti o comparsi in quegli anni. A tutto questo si associa un progressivo ricambio della classe politica e un grande successo politico “uomini nuovi” (per tutti: Silvio Berlusconi, ma anche lo stesso Umberto Bossi), così come l’emergere un nuovo e decisivo ruolo politico dei presidenti della Repubblica (segnatamente da Oscar Luigi Scalfaro in poi).

Tutti questi mutamenti della politica italiana trovano una sintesi impressionante nel fatto che già alle elezioni del 1994 i partiti dell’arco costituzionale (ridenominati o meno nel corso degli anni, o i loro eredi) nell’insieme non arrivano a raccogliere nemmeno la metà del consenso elettorale (45% dei voti espressi), mentre in precedenza avevano raccolto sempre oltre l’80% del consenso elettorale, talora oltre il 90% (eccezion fatta per le elezioni del 1992, che costituiscono la prima avvisaglia del cambiamento politico-elettorale del post-1989). Detto per inciso, i risultati del 1994 avevano come base popolare un’affluenza alle urne che superava l’80% degli aventi diritto: un percentuale in calo rispetto a quella dei precedenti decenni repubblicani (quando si arrivava a superare il 90%), ma ben superiore ai tassi calanti che seguiranno e che arriveranno al 64% avutosi alle elezioni del 2022.–

VIDEO

La democrazia (Peppino de Filippo)

https://youtu.be/hTPH7jrxqKY

 

PANNELLO II

Ma l’effetto forse più palpabile della “caduta” del Muro di Berlino sulla politica e sulle società europeo-occidentali è stato di aver sollecitato il protagonismo di una “società civile” da tempo sopita (dove più dove meno). Pure su questo versante l’Italia si rivela apripista di un fenomeno che nel corso di pochi anni interesserà anche gli altri Paesi europei. In altri termini, nella congiuntura storica dell’immediato post-1989 emerge la “democrazia dei cittadini” contro la “democrazia dei partiti”, una tendenza che viene pubblicamente e mediaticamente osannata. Nasce la “democrazia del pubblico”[6], dove prende forma un’esasperata personalizzazione e leaderizzazione della politica, e una fragilizzazione dei partiti come corpi intermedi. È il portato di una trasformazione della democrazia che si accompagnerà, come oggi risulta più evidente, da un lato, all’appannamento della tradizionale distinzione tra destra e sinistra, dall’altro, all’emergere di quelli che nel linguaggio corrente sono definiti i populismi (o neo-populismi). Le tendenze “populiste” già allora rimandavano a istanze e a forze politiche trasversali rispetto all’asse ideologico destra/sinistra, caratterizzandosi per un’energia politica di sapore anti-sistema – e che all’epoca, diversamente da oggi, l’opinione pubblica dominante e le scienze socio-politiche qualificano come fenomeni di rinascita democratica e non già di regressione democratica. Del resto, non dimentichiamolo, lo slogan che nella Germania del crollo del Muro e della “rivoluzione democratica” guidava le mobilitazioni contro il regime sovietico era “Wir sind das Volk” (Noi siamo il popolo). Ma quella che nel 1989 esplode a Berlino e scuote la scena politica di numerosi Paesi est-europei è (ed era) codificabile dentro lo schema politica anti-sistema contro politica pro-sistema. E non sfugga che anche in quella congiuntura storica la politica pro-sistema si pone a difesa dell’ordine costituito (nella fattispecie l’ordine sovietico): un ordine che sarà travolto. Ed era una politica anti-sistema pure quella che in Italia si mobilita contro la “repubblica dei partiti”, contro la “partitocrazia”, con l’aperto sostegno del PCI-che-diventa-PDS-e-che-diventerà-DS-e-infine-PDS.

Nel “mondo nuovo del post-1989”, la dialettica radicata nella storia tra politica pro-sistema e anti-sistema (riaggiornata ai tempi) è un seme gettato in terre d’Europa e che le popolerà di alberi. Questo rifacimento della politica racchiude “un’altra faccia” della caduta del Muro: una faccia che all’epoca sfugge ai più; una faccia che non viene in luce nemmeno nelle celebrazioni nel corso dei decenni degli anniversari del 1989. Questa faccia del rivolgimento del 1989 fa da subito dell’Italia, come già rilevato, l’apristrada di trasformazioni che non tarderanno a interessare un po’ tutti i Paesi europei, con tanto di frammentazione dei loro sistemi partitici.

 

PANNELLO III

In Italia, con la caduta del Muro di Berlino viene travolto l’universo politico-identitario comunista, storicamente legato all’URSS. Ma vengono altresì travolti i rifermenti ideali e valoriali del socialismo europeo-occidentale e sepolto per sempre il laboratorio di quell’“euro-comunismo” di cui il PCI è forza trainante occidentale. Tuttavia, la tempesta investe pure l’universo identitario democristiano, i suoi correlati politici, l’atlantismo e il legame privilegiato con gli Stati Uniti: del resto, il successo e la tenuta nel tempo dell’universo democristiano erano alimentati non poco dal fatto di rappresentarsi come l’argine contro la “minaccia comunista”. All’indomani del crollo del Muro e della fine dell’impero sovietico accade però che gli Stati Uniti non considereranno più l’Europa (soprattutto quella “occidentale”) e l’Italia come tessere cruciali nello scacchiere geo-strategico e geo-ideologico internazionale, almeno fino a quando la “crisi ucraino-russa” non diventerà catalizzatrice di una crisi internazionale, rieditando schemi da “guerra fredda” alimentati dalle strategie di allargamento dei confini politici della Nato verso l’est europeo e verso la Russia nonché dalle reazioni di Mosca: una guerra fredda che in ultimo si è fatta anche “calda”.

Come conseguenza del mutato del quadro geo-ideologico, geo-economico e geo-politico associato al “terremoto 1989”, nei regimi liberali-democratici occidentali (e non solo in Italia) si acuisce lo sfibramento anche della distinzione politica destra-sinistra come fattore di identità collettive, tanto da diventare difficile da riconoscere. I partiti e le culture politiche diventano dei patchwork identitari. In Italia persino la ben radicata distinzione tra cattolici e laici si assottiglia fino a perdere la sua espressione politica-partitica (DC). Su gran parte dei cittadini cala la nebbia del disorientamento ideologico e della mancanza di saldi punti di riferimento ideale e valoriale: tramontano quelli tradizionali, faticano a maturarne di nuovi, con la parziale eccezione dei legami identitari centrati sui territori, sul localismo (in Italia, il leghismo guidato da Umberto Bossi). A trionfare nel “dopo 1989” è soprattutto un generico individualismo identitario, nutrito di diritti civili e di beni di consumo: ci si identifica con cause sempre più settoriali e frammentate, guadagna spazio la politicizzazione di identità collettive che rimandano a stili di vita o a minoranze culturali. I cittadini si trovano davanti partiti di centro-sinistra e di centro-destra che convergono sui valori della società e dell’economia neoliberale: partiti con un basso profilo ideologico-identitario, con orientamenti fluidi e che operano come “partiti piglia-tutto”, come macchine o cartelli elettorali; partiti sempre più autoreferenziali, poco presenti nella quotidianità della vita sociale, e sempre meno orientati e attrezzati per operare quali luoghi e riferimenti di socializzazione politica[7]; partiti che per raccogliere il consenso fanno crescentemente leva su campagne elettorali permanenti, aggiungendo al canale televisivo, in ultimo, la propaganda via internet, social media e influencer “invetrinati” all’uopo. E, non a caso, nel corso degli anni cresceranno a dismisura astensionismo, volatilità elettorale e propensione degli elettori verso il “nuovismo” in politica.

 

PANNELLO IV

La breccia che ha aperto il Muro di Berlino e che ha sgretolato quello che rappresentava il simbolo politico di un limite ha avuto conseguenze perduranti sulla politica, sulle identità politiche e sulla democrazia nell’Europa e nell’Italia dei decenni che portano a noi. È tuttavia tutt’ora difficile valutare in quali forma e misura tutto questo abbia avuto recezione e sistemazione nella consapevolezza e nelle memorie collettive. A questo riguardo, l’aspetto probabilmente più importante, e anche sorprendente, se vogliamo, è che al di là dell’attenzione ritualistica che suscita la ricorrenza del 1989, l’impressione è che, soprattutto in un Paese come l’Italia (patria del partito comunista più votato in tutta l’Europa occidentale dal secondo dopoguerra), la caduta del Muro non abbia avuto un’effettiva presa sulla memoria collettiva, né una rielaborazione nella cultura politica generale. D’altra parte, gli studi socio-politologici non si sono adeguatamente impegnati a mettere a fuoco il significato e l’eredità politico-culturali del 1989 per i regimi liberaldemocratici europei: la salienza dell’impatto politico-identitario del 1989 si è infatti eclissata per lo più dentro o dietro temi quali l’europeismo, la globalizzazione, l’economia dei mercati aperti o dei diritti umani e civili. Guidati da questi frames interpretativi, pubblici e accademici, si è finito per perdere di vista il fatto che quanto è accaduto attorno al 1989 ha influito profondamente sulla trasformazione della democrazia: per meglio dire, ha influito sulla trasformazione dell’immagine e delle pratiche della democrazia, delle idee, dei valori ideali e dei meccanismi relativi al funzionamento delle istituzioni implicate in tutto quell’universo politico a cui continuiamo a riferirci con il “nome di democrazia”. Il punto decisivo, che tende ancora a sfuggire, è che quel momento ha fortemente accelerato e alimentato, in modo particolare, la trasformazione della “cosa democrazia”.

L’ultimo capitolo di questa prolungata disattenzione/incomprensione riguardo al significato del 1989 si è manifestato nella crisi covidiana (2020-oggi, con particolare incisività in Italia): nel disorientamento di tutti e nella presa di consapevolezza di alcuni che ormai “la cosa” democrazia riflette poco “il nome” tramite cui la pensiamo, la immaginiamo e la viviamo. Verrebbe anche da aggiungere che, per un verso, sotto il regno del Covid qualche segmento minoritario della cultura politica europea è arrivato a “scoprire l’acqua calda”; per l’altro verso, la gran parte dell’opinione pubblica non si è tuttavia mostrata granché interessata a questa scoperta, liquidandola come una pedestre bufala o assurdo negazionismo del fatto che la democrazia esistente fosse rimasta sana a dispetto di tutti i mali che le si vorrebbe addossare. Ma anche questo è un segno del tempo e delle sue culture e identità politiche.

Tanta “disattenzione” rimanda anche a un altro diffuso fenomeno, che non è marginale nel quadro generale. Vale a dire: per una parte non irrisoria di quella cultura politica italiana che continua a “guardare a sinistra”, dopotutto, con il crollo del Muro di Berlino è stato travolto anche un mondo di valori e di ideali, senza che sia seguita un’elaborazione del “lutto ideologico”, bensì solo una drastica “rimozione della perdita”. Questo fenomeno si è verificato all’interno di uno scenario politico-culturale dove sugli occhi di molti “orfani” rimbalza lo sguardo altrui: lo sguardo beffardo e saputello di chi dice loro: “Ah, che abbaglio avete preso, compagni!”. Ma i “compagni” a cui, a partire dagli anni ’90 così ci si rivolge, erano invero spariti ben prima che i liberali fukuyamiani se ne accorgessero. Sia come sia, in questa storia a uscirne parecchio malmessa (e inaspettatamente per i miopi o i distratti), è proprio quella (sedicente) democrazia liberale che va per la maggiore nel nostro pezzo di mondo. Con l’esito che oggigiorno la democrazia liberale stessa risulta tutta calata e sfigurata nei fumi della confusione delle parole e della recrudescenza di ideologie otto-novecentesche in vesti sempre più irrigidite e superficiali, ma molto pop e molto social malgrado lo scolorimento dei panni.

 

PANNELLO V

Ma torniamo al 1989. Al crollo del Muro, alle sue macerie e all’implosione dell’impero URSS. A considerare la “bocciatura all’esame di democrazia” in cui incorre una buona parte degli Stati dell’ex blocco europeo-sovietico[8], dove a seguito del crollo del Muro di Berlino è stata “importata/esportata la democrazia”[9], è lecito concludere che le loro “rivoluzioni democratiche del 1989” e la loro attrazione verso l’Occidente liberaldemocratico siano state catalizzate essenzialmente dal desiderio di accedere ad un mondo ricco e promettente, fatto di sviluppo economico, di mercati redditizi, di benessere e beni privati, di stili di vita e di consumo “liberati” (e qui, di per sé, non c’è da eccepire più di tanto): è naturale che gli uomini siano sensibili a cose del genere. Tuttavia, c’è dell’altro che merita di essere rilevato e valutato. In quella parte di Europa già sovietica, vagliando le cose con più sobrio realismo[10], assai meno ambìte erano, con ogni probabilità, altre mete: un’equa e dignitosa distribuzione delle risorse o l’interesse per i beni comuni e pubblici, né erano tanto forti il desiderio e la volontà di appropriarsi dei valori della democrazia liberale, di seminare e coltivare libertà, pluralismo politico, emancipazione politica della cittadinanza e le correlate pratiche e soluzioni politico-istituzionali.

Su quest’ultimo lato della questione, nuoce alla qualità dell’analisi omettere quanto segue: buona parte delle responsabilità dell’“equivoco” e dell’“esito perverso” delle rivoluzioni democratiche del 1989 è da imputare proprio all’Occidente, alle sue classi dirigenti e alle associate campagne mediatiche (ora puramente propagandiste, ora facilone), come pure a una generalizzata incultura politica diffusa tra i comuni cittadini occidentali. Si potrebbe anche dire così: un po’ tutti si sono lasciati prendere la mano da superficiali entusiasmi per la “liberazione democratica” e, consapevolmente o meno, si sono mossi come mercanti (grandi e piccoli) e come “governatori del mondo” o come loro cortigiani e impiegati tutti al lavoro per piazzare le loro mercanzie e per rincorrere i loro interessi (piccoli o grandi) nel mare aperto di mercati nuovi e fertili. E, così operando, non si è andati tanto per il sottile nell’inserire e mescolare nei cataloghi dei beni di consumo da commerciare la libertà, la tolleranza, il pluralismo, i diritti, la tutela delle minoranze, la democrazia. Qualcuno l’ha fatto con la sincera convinzione di farlo a favore di tali valori; molti altri con più o meno lucido senso strumentale degli affari – economici, politici, ideologici, ossia di potere. Di fronte alla caduta del Muro ci si è mossi con troppa precipitosità e tra troppi equivoci o raggiri.

La storia procede anche così. Ma poi è restia a fare sconti. Il bicchiere è quasi sempre mezzo pieno e mezzo vuoto, a seconda di come si vedono le cose, a seconda delle condizioni socio-economico-culturali di ciascuno (individuo o gruppo). Morale: esportare o importare la democrazia è cosa molto, molto complicata[11].

Nel “mondo nuovo” del post-1989 la delusione, anno dopo anno, ha preso il sopravvento sull’entusiasmo inziale. Sia tra gli esportatori sia tra gli importatori di democrazia, la delusione si tinge di frustrazioni, disincanto, ripensamenti. Si apre così un “vaso di pandora”, dove ciascuno trova la “sua” democrazia. Sia tra coloro che sposano il “mondo nuovo” (si tratti di élite economico-sociali, di leadership politiche, di semplici cittadini); sia tra le frange dei nostalgici del socialismo o del comunismo. Il fatto è che dopo l’iniziale euforia, ancora una volta nella storia, ci si trova a dover a fare i conti con le “promesse non mantenute della democrazia” di cui parlava Bobbio: i nobili, generosi e “poetici” valori ideali vengono ridotti a malpartito dalle grette, taccagne e “prosaiche” pratiche concrete incorporate nelle istituzioni e nella vita quotidiana. In modo analogo è (stato) chiamato a fare i conti con le “promesse non mantenute” anche il socialismo reale, quello sovietico – si vorrebbe osservare. Sta di fatto, però, nell’applicare questa dura lex sed lex della politica, Bobbio (e molti con lui) usa due pesi e due misure nel giudicare le cose: mentre si evidenziano i guasti delle “democrazie reali” (o le “promesse non mantenute”) e ciò tuttavia induce rarissimamente a sconfessare la bontà ideale della democrazia, nel caso dei guasti del “socialismo reale”, le “promesse non mantenute” hanno invece portano in massa a sconfessare quasi automaticamente la bontà degli stessi ideali del socialismo.

Anche questo “doppiopesismo” che corre sul binario “piano ideale – piano reale”) altro non è che un sintomo di come e quanto l’etichetta “democrazia” sia davvero “elastica”; ma è anche un sintomo di come la democrazia contrassegni un “campo politico”[12]: un campo aperto dove si lotta per il potere[13]. In tale campo una parte della posta in gioco è che il regime reale che perde la partita contro un altro tipo di regime reale sia per ciò stesso qualificato anche sul piano ideale: dopotutto è non poco diffusa l’idea secondo cui chi vince, il più forte, ha comunque sempre ragione, ed è pertanto (necessariamente o implicitamente) anche moralmente ed idealmente accettabile e da difendere. Il perdente, invece, è il cattivo. E quando capita che il vincitore sia assalito dal dubbio che le cose non stiano esattamente (e sempre) così, o si provvede a rimuovere o ad edulcorare certe pagine di storia oppure ci si cimenta con pratiche (pseudo)risarcitorie o “espiative”. Nel frattempo, però, la storia è andata avanti e non si torna indietro rispetto alle sentenze rilasciate dai conflitti reali e dai giudizi ideali: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato… La vita, anche quella politica, procede sempre, kunderianamente, in diretta, come a teatro: non è, cioè, come girare un film dove si dice: “Questa no. Così non va. Rifacciamo la scena. Ciak 2… Ciak 3… Ciak, si rigira…”, fino a quando non si è soddisfatti. No, nella vita politica ogni scena resta, vale comunque e produce conseguenze.

 

PANNELLO VI

“Fine delle ideologie” è una tesi da tempo assai corrente nel discorso pubblico e nelle scienze sociali. Ma è una tesi che significa poco e niente. Riflette, piuttosto, una mancata comprensione di cosa siano le ideologie o “visioni del mondo” (che siano intese nella chiave di Marx o Gramsci oppure in quella di Max Weber o Karl Mannheim). Oltretutto, la tesi della fine delle ideologie rudimentalizza e fraintende i fenomeni a cui si riferivano Alain Touraine e Daniel Bell, i due principali sociologi che negli anni ’60 del Novecento hanno portato l’idea verso quel successo a cui è giunta infine ai nostri tempi: entrambi, infatti, si riferivano alla fine delle grandi ideologie politiche otto-novecentesche (comunismo, nazionalismo, liberalismo). Allo stesso modo, tale tesi fraintende anche l’immagine della società post-moderna delineata da François Lyotard e che mette in risalto la “fine delle grandi narrazioni”, ma non delle narrazioni tout-court, tanto che da alcuni decenni viviamo immersi nel paradigma narrativo, secondo il quale tutto e ogni cosa è “narrazione” (piccola o grande che sia). Sia detto per inciso: mythos (mito) sta proprio per racconto, narrazione.

È bene qui fermare un punto. La vita collettiva vive di ideologie o, se vogliamo, di narrazioni, di “immagini del mondo” le quali definiscono/costituiscono, rappresentano, raccontano e spiegano “il mondo” e i suoi risvolti, secondo schemi più o meno sistematici, elaborati o di grande respiro[14]. Per renderci conto della circostanza che “il mondo” (la vita collettiva e individuale) sia fatto di “volontà e rappresentazione” (al plurale), di poteri e di idee che interagiscono, convergono o divergono, e confliggono, non dovremmo aver bisogno di studiare Nietzsche, Schopenhauer o la teoria dei quanta (anche se studiare non farebbe male). Basterebbe soffermarsi su come procede la micro-quotidianità della vita sociale e collettiva o la “microfisica del potere”. Ma lasciamo da parte la filosofia (politica), la teoria (della conoscenza) e la vita quotidiana. Torniamo alle ideologie otto-novecentesche.

Nei decenni successivi alla seconda Guerra Mondiale, in effetti il nazionalismo tramonta, perlomeno in Europa, a vantaggio dell’internazionalismo, del cosmopolitismo, del globalismo, dell’europeismo. Con il 1989 tramonta anche il socialismo comunista. Sulla scena resiste il liberalismo, che prorompe in chiave di neoliberalismo affiancato al mercato, e che sovrappone liberismo e libertaniarismo, divenendo di fatto ideologia egemonica e senza alternative[15]. Ai nostri giorni, mentre sulla scena politica, culturale ed economica si riaffacciano nuove forme di nazionalismi o sovranismi e un neo-populismo tutti screditati dalla cultura dominante, il neoliberalismo si è fatto “senso comune”, nella misura in cui è riuscito a fare accettare ai più che le sue prassi e idee siano “naturali”, ovvero che “il mondo è come deve essere perché non può essere altrimenti”. In tal modo, il «senso comune dà forma ai calcoli della vita di tutti i giorni e appare naturale come l’aria che respiriamo»[16]. A questa altezza, l’ideologia incontra l’egemonia. E il neoliberalismo diventa ideologia egemonica – per riprendere una feconda idea a suo modo formulata da Gramsci. Corollario illuminante è che tutto ciò, paradossalmente, riguarda proprio quella cultura politica che proclama la “fine delle ideologie” e che non ammette di essere essa stessa un’ideologia o visione del mondo, fosse pure la migliore o l’unica accettabile: oggi riguarda, cioè, il neoliberalismo. E a questo punto emergono i problemi con la democrazia dei tempi correnti. In estrema sintesi, il tema può essere formulato nei termini seguenti[17].

 

PANNELLO VII

Con la delegittimazione, la debolezza o l’assenza di alternative ideologiche nel campo del “politicamente accettabile”[18], a soffrirne è la stessa democrazia: o, meglio, la qualità demo-politica delle odierne democrazie reali (neoliberali). Non a caso, oggi, le democrazie storiche[19] delle società occidentali non godono di buona salute: le istituzioni e i governi liberaldemocratici arrancano, non rispondono ai bisogni e alle aspettative di vaste parti della cittadinanza; faticano a formare governi rappresentativi coesi e maggioritari; i parlamenti, nel corso dell’ultimo trentennio circa, risultano sempre più svuotati dei poteri previsti per loro dalle costituzioni; le democrazie liberali si trincerano e si irrigidiscono crescentemente, rappresentandosi come “democrazie sotto assedio” e impegnate ad affrontare (una va l’altra viene) “crisi in sequenza”, e che sono presentate e vissute come “minacce all’ordine e ai valori democratici”, al punto che la difesa di tale ordine e di tali valori spinge le democrazie costituite a sospendere diritti costituzionali e principi liberali-democratici, ma anche ad alleggerire il paniere di diritti di cittadinanza che sembravano storicamente acquisti. In ultimo, la difesa dell’ordine costituito porta le democrazie reali a trasformarsi, “paradossalmente”, in democrazie militanti contro la democrazia, se non in “emergenziali dittature costituzionali”.

L’orizzonte di policrisi in cui ormai viviamo fa dell’emergenza e dell’eccezione la condizione permanente della nuova fisiologia delle democrazie costituite (una condizione peraltro forse non così nuova, bensì oggi solo un po’ più visibile o percepita rispetto al passato). Sotto questo profilo, populismi, sovranismi, fascismi, negazionismi, astensionismi elettorali ecc., sui quali cade lo stigma “politicamente invalidante” fatto valere dalla cultura egemonica e sui quali solitamente si scarica “colpa” o responsabilità della crisi democratica odierna, in realtà sono solo i sintomi di un profondo, variegato e perdurante “malessere democratico”[20] che investe le democrazie costituite, sono la febbre che segnala la malattia; o, forse, i sintomi di un malessere ancora più profondo ed epocale, provocato da una “mutazione del gene democrazia”. La causa, o almeno una causa saliente, del malessere, della malattia o della mutazione vanno invece rintracciate, da un lato, nel “fatto politico” che le forze e gli orientamenti ideologici di destra e sinistra faticano a rappresentare quelle opzioni alternative nel campo del pluralismo che nel lungo periodo, se non nel breve, mantengono vitale la democrazia, le sue trasformazioni politiche e il credo democratico; dall’altro, nel “fatto politico” che il linguaggio politico in termini di destra-sinistra non è più adeguato per cogliere la natura e le dinamiche dei processi socio-culturali e politici che attengono alla sfera del governo delle società e alla sfera del potere. Questo accade per la semplice ragione che per molti aspetti di primario rilievo le differenze tra destra e sinistra fanno ben poca differenza: a proposito del modello di società da perseguire, a proposito dei modelli di produzione e distribuzione delle risorse economiche, così come dei modelli di produzione e di distribuzione dello status sociale e di cittadinanza, dei modelli di produzione e di distribuzione delle libertà, dei diritti e dei doveri, le differenze tra destra e sinistra si sono tanto assottigliate da perdere rilevanza politica. Specie quando le forze politiche di destra o di sinistra cercano di diventare forze di governo durevoli. Con l’esito che una larga parte della cittadinanza si ritrova a non essere rappresentata nelle istituzioni.

Le democrazie reali hanno un debito con il “nome” che portano (demos-kratia). E ciò anche se “il nome della cosa”, storicamente, è collocato nella sfera ideale e valoriale, prima ancora che nelle sue pratiche effettive sociali ed istituzionali. È il “credo democratico”, sottolineato persino dal “realista” Schumpeter[21], che in fondo ha fatto la fortuna o ha dato manforte al successo storico delle stesse democrazie reali o empiriche, ovvero delle “poliarchie”, come ha suggerito di chiamarle Dahl per distinguerle dalle democrazie ideali[22]. Questo “credo democratico” per rimanere vitale ha bisogno dell’esistenza, nel campo del pluralismo politico, di “alternative che fanno differenza”. Gli ideali e i valori democratici sono essi stessi un interesse della democrazia, e si nutrono della “sfida tra le alternative fondamentali”, anche antagonistiche. La vita di una democrazia necessita, cioè, di sfidanti che tengano aperti gli orizzonti del futuro, che riescano a suscitare passioni politiche e a mantenere in vita quel processo (che chiamiamo democratico) fatto di confronto/scontro tra visioni alternative di società, di economia, tra prospettive differenti di futuro in competizione e lotta tra loro. Se il campo della politica democratica è tutto occupato da TINA (There Is No Alternative), allora il “mito democratico” (che in ultima istanza è la forza motrice della “democrazia reale”), gli ideali e la qualità di una democrazia si immiseriscono. Scatenano malessere politico. E prima o poi, cala il “sol dell’avvenire democratico”. Affonda la “cosa”, anche se sopravvive il “nome”. Anche se noi contemporanei non ce ne accorgiamo. E così la luce che vediamo è quella di una stella lontana che è già spenta e morta.

 

PANNELLO VIII

Con la caduta del Muro di Berlino si è imposto il “sogno neoliberale”. Ma questo sogno si è presto rivelato poco lieto per molte parti delle società democratiche occidentali (per non dire altrove): ha partorito quelle che, con imbarazzante ed equivoco neologismo, siamo ormai soliti chiamare postdemocrazie. Il mondo disincantato, iper-pragmatico, iper-utilitarista e mono-ideologico perseguito dal neoliberalismo, alla fine ci ha portato a demo-oligarchie, più o meno problematiche, paternaliste; ci ha portato a democrazie stanche e malinconiche, afflitte da aumento delle diseguaglianze economiche e delle marginalità sociali e culturali, dai limiti ambientali e sociali dello sviluppo; ci ha portato al prorompere del contrasto tra “mondo dell’alto” e “mondo del basso” o tra “inclusi” ed “esclusi”, tra centri e periferie; ci ha portato a “democrazie di emergenza permanente”, dove lo “stato di eccezione” si abbraccia alla “dittatura costituzionale”. Invero, la democrazia kelseniana è ancora di gran moda, ma troppi fenomeni e atteggiamenti sociali ci dicono che ormai è poco più di un abito di gala indossato per confondere o per rendere accettabile una politica di marca schmittiana che, se denudata, offenderebbe l’imperante cultura democraticistica “politicamente corretta” che piace ed è comoda a tanti.

Se la democrazia vuole restare the only game in the town e allo stesso tempo dare risposte dignitose ai problemi che caratterizzano le nostre società e la “convivenza tra diversi”, forse è il caso di prendere sul serio la sfida delle sfide, ossia la sfida della vitalità democratica: mettersi alla ricerca di alternative allo status quo e delle energie intellettuali e politiche, tra “teoria e prassi”. Forse è il caso di prendere sul serio il fatto che abbiamo bisogno di disporre di pretendenti legittimi (istanze e forze sociali-politiche) allo scettro democratico, e non omologabili tra loro. Alla fine, volens nolens, il démodé e urticante Carl Schmitt ci è di aiuto a comprendere anche quella “cosa”che porta il “nome” di democrazia. Con buona pace dei suoi detrattori liberaldemocratici e delle tante anime belle del nostro tempo.

E qui termina il nostro piccolo viaggio nel “mondo nuovo” ereditato dalla festa per il crollo del Muro che ha soppiantato la festa per la presa della Bastiglia. Con una lezione che può confondere, disturbare o irritare i più: al gran salone della democrazia, Locke troneggia come officiante, è la stella di riguardo, blandita e ossequiata. Bene. Come negargli meriti ed onori? Ma nel salone della festa, Rousseau è il convitato di pietra, che tutti conoscono, anche quando non lo riconoscono, un convitato che inquieta e che dà da pensare. Ebbene, la festa democratica rischia davvero di spengersi ogni giorno sempre di più, quasi impercettibilmente nel volteggiare di cicisbei incipriati e di moine ingioiellate, magari sotto le note del “politicamente corretto”. Questo è il nostro scenario. Se non si vuole o non si sa comprendere che senza Rousseau lo stesso Locke immalinconisce e si eclissa. E la democrazia si svuota della sua natura politica: diventa solo amministrazione di uomini-oggetto. Il resto, chiedo scusa, è bla-bla.


NOTE
[1] Vedi G. Nevola (a cura di), Una patria per gli Italiani? La questione nazionale oggi tra storia, cultura e politica, Carocci, 2003.
[2] Vedi G. Nevola, Democrazia Costituzione Identità. Prospettive e limiti dell’integrazione europea, Liviana-De Agostini, 2007.
[3] Vedi S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?, Il Mulino, 1996; G. Corm, Il nuovo governo del mondo, Vita e Pensiero, 2013.
[4] Vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.
[5] Per un’analisi critica e non convenzionale vedi G. Nevola, Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica, Carocci, 2022.
[6] Vedi B. Manin, La democrazia dei moderni, Anabasi, 1992, parte II, cap.IV: “La democrazia del pubblico”; con riferimento all’Italia: G. Nevola, Quale patria per gli Italiani? Dalla “repubblica dei partiti” alla pedagogia civico-nazionale di Ciampi, in Id. (a cura di), Una patria per gli Italiani?, Carocci, 2003.
[7] Sul PCI e la cultura politica “rossa” vedi M. Caciagli, Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, Carocci, 2007.
[8] Inclusi i Länder dell’ex Germania dell’Est confluiti nella Germania unita. Per il resto le cronache quotidiane tengono in evidenza casi come quelli dell’Ungheria o della Polonia, solo per citare gli esempi più rilevanti.
[9] Vedi gli “indici di democrazia” nel mondo che da anni vengono stilati da numerosi think tank, organizzazioni indipendenti, studiosi di scienza politica occidentali, ad esempio i numerosi reports prodotti negli anni dalla Bertelsmann Stiftung, dall’Economist Index of Democracy, dalla Freedom House, dall’Eurobarometro. Un’analisi politologica sistematica dei dati sulle tendenze temporali è offerta da L. Diamond, Facing up to the Democratic Recession, in “Journal of Democracy, 1, 2015. Qui lasciamo da parte la questione se la definizione e gli indicatori utilizzati siano esaurienti e rappresentativi delle molteplici dimensioni e criteri che la teoria politica e democratica hanno messo a punto secondo tradizioni culturali e prospettive analitiche molteplici, talora convergenti e talora divergenti. E lasciamo pure da parte la qualità della base empirica che sorregge le misurazioni e le valutazioni tanto dei regimi “bocciati” dell’Europa ex sovietica, quanto dei regimi dell’Europa occidentale o tout-court occidentali. Ci limitiamo a ricordare come la letteratura e le misurazioni correnti siano andati via via sottolineando, dopo la stagione di euforia democratica provocata del crollo del Muro, la crescente “involuzione” anti-liberaldemocratica nell’Europa post-sovietica. Per una differente analisi e chiave di lettura vedi il mio Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.
[10] E cioè tarando l’entusiasmo e la retorica con cui si sono a lungo letti gli eventi e le società in rifacimento in un’epoca che il sociologo Lepenies definì “inaudita”. Vedi W. Lepenies, Conseguenze di un evento inaudito, il Mulino, 1993.
[11] Lo dimostrano, con solidi argomenti, anche le analisi di un fervido sostenitore del trionfo della democrazia liberale eretta a destino universale. Vedi F. Fukuyama, Esportare la democrazia, Lindau, 2005.
[12] La nozione è mutuata da Pierre Bourdieu.
[13] Per approfondimenti vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.
[14] Vedi ad esempio T. A. van Dijk, Ideologie, Carocci, 2004.
[15] Di questo fenomeno ho trattato nell’ambito del mio Sulla comunità nell’epoca liberal-democratica, in “Sinistrainrete”, 29 gennaio 2023 e (suddiviso in quattro parti) pubblicato anche in “Tempi difficili”.
[16] S. Hall, The Road to Renewal, Verso, 1988, p. 8.
[17] Per approfondimenti rimando a G. Nevola, Socialismo e democrazia? Mito della Rivoluzione d’Ottobre e disincanto democratico, in “Rivista di Politica”, 4, 2018; Id., Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022; relativamente al caso italiano: Id., Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica, Carocci, 2022.
[18] Quale, in una qualche misura, era ad esempio progressivamente diventata l’“alternativa socialista/comunista”.
[19] Ovvero le “democrazie consolidate”, come vengono definite dalla scienza politica convenzionale.
[20] Al riguardo rimando a G. Nevola, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’“incantesimo democratico”, in “Il Politico”, 1, 2007.
[21] Vedi J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas, 1994 (ed. or. 1942).
[22] Vedi R.A. Dahl, Who Governs, Yale University Press, 1961; Id., Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Angeli, 1981 (ed. or. 1971).

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