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effimera

Lotte di classe in Francia

di Maurizio Lazzarato

Pubblichiamo un articolo di Maurizio Lazzarato sulle mobilitazioni scoppiate in Francia a seguito della riforma del governo Macron sulle pensioni. L’analisi condotta da Lazzarato si muove lungo due direzioni: da un lato ci parla delle forme di espressione conflittuale, nel rapporto con il ciclo di lotte dei Gilet Jaunes, delle potenzialità ricompositive e dei limiti del movimento; dall’altro, ricomprende il ciclo di mobilitazioni nello scenario più ampio di ridefinizione degli equilibri tra le superpotenze a livello mondiale

rivoluzionevtghAndiamo subito al cuore del problema: dopo le enormi manifestazioni contro la «riforma» delle pensioni, il presidente Macron decide di «passare con la forza» (passer en force) esautorando il parlamento e imponendo la decisione sovrana di approvare la legge che porta da 62 a 64 l’età pensionabile. Nelle manifestazioni si è immediatamente risposto «anche noi passiamo con la forza». Tra volontà opposte, quella sovrana della macchina Stato-Capitale e quella di classe, decide la forza. Il compromesso capitale-lavoro è saltato dagli anni ‘70, ma la crisi finanziaria e la guerra, hanno ancora radicalizzato le condizioni dello scontro.

Cerchiamo di analizzare successivamente i due poli di questa relazione di potere fondata sulla forza nelle condizioni politiche successive al 2008 e al 2022.

 

Il marzo francese

Il movimento sembra aver colto il cambiamento di fase politica determinato prima dalla crisi finanziaria del 2008 e poi dalla guerra. Ha utilizzato molte delle forme di lotta che il proletariato francese ha sviluppato negli ultimi anni, tenendole insieme, articolando e legittimando di fatto le loro differenze. Alle lotte sindacali, con i loro cortei pacifici che si sono via via modificati, integrando componenti non salariali (il 23 marzo la presenza di giovani, di studenti universitari e liceali è stata massiccia), si sono aggiunte le manifestazioni «selvagge» che per giorni si sono sviluppate al calar della notte nelle strade della capitale e di altre grandi città (dove sono state anche più intense).

Questa strategia di agire per gruppi che si spostano in continuazione da una parte all’altra della città seminando i flics, è una chiara eredità delle forme di lotta dei Gilets jaunes che hanno cominciato a «terrorizzare» i borghesi, quando invece di sfilare tranquillamente tra République e Nation, hanno portato il «fuoco» nei quartieri dei ricchi nell’ovest parigino. La notte del 23 marzo sono stati contati 923 «départs de feu» solo a Parigi. I flics dichiarano che le notti «selvagge» si sono assestate a un livello superiore delle «scorribande» dei Gilets jaunes.

Nessun sindacato, neanche il più filo-presidenziale (CFDT) ha condannato le manifestazioni «selvagge». I media, tutti, senza eccezione, di proprietà di oligarchi, che aspettavano con ansia, dopo le prime «violenze», un capovolgimento dell’opinione pubblica, sono stati delusi: 2/3 dei francesi continuavano ad appoggiare la rivolta. Il «sovrano» aveva rifiutato di ricevere i sindacati significando chiaramente la sua volontà di scontro diretto, senza mediazioni. Tutti ne avevano dedotto che la strategia da adottare era una sola, articolare diverse forme di lotta, senza imbarazzarsi della distinzione «violenza/pacifismo».

La massificazione e differenziazione delle componenti presenti nei cortei si ritrova anche nei picchetti di sciopero che sono importanti se non di più, delle manifestazioni. Probabilmente la scelta di Macron è stata anche suggerita dal blocco non del tutto riuscito dello sciopero generale del 7 marzo (l’8 la situazione era diventata quasi normale!). Ma quello che Macron non aveva previsto è stata l’accelerazione impressa al movimento dopo la decisione di applicare il 49.3.

Il solo movimento che non è stato integrato nella lotta è quello della rivolta delle banlieues. La congiunzione tra «petits blancs» (le fette più povere del proletariato bianco) e «barbares» (i figli francesi di immigrati, gli «indigeni della repubblica») non è avvenuta neanche questa volta. La cosa non è di poco conto, come si vedrà in seguito perché qui è in gioco la possibile rivoluzione mondiale, la congiunzione Nord/Sud.

C’è stata di fatto e accettata da tutti un’articolazione tra le lotte di massa e lotte di una parte minoritaria che si è dedicata a prolungare il conflitto la notte utilizzando le poubelles (pattumiere) accumulate ai lati delle strade a causa dello sciopero degli spazzini, per bloccare la polizia e mettere lo zbeul (casino, dall’arabo magrebino zebla, immondizia). Per il momento chiamiamola «avanguardia» perché non so come definirla altrimenti, sperando che i soliti cretini non gridino al leninismo. Qui non si tratta di portare la coscienza al proletariato che ne è sprovvisto, né di funzioni di direzione politica, ma di articolare la lotta contro il braccio di ferro imposta dal potere costituito. Il rapporto masse/minoranze attive è presente in tutti i movimenti rivoluzionari. Si tratta di ripensarlo nelle nuove condizioni e non di rimuoverlo.

Prima delle grandi mobilitazioni di questi giorni esistevano differenze e divisioni che percorrevano il proletariato francese indebolendo la sua forza d’urto. Qui le possiamo solo riassumere: i sindacati e i partiti istituzionali della sinistra (con l’eccezione della France Insoumise), non ha mai capito il movimento dei Gilets Jaunes, né la natura, né le rivendicazioni di questi lavoratori che non rientrano negli standard classici del salariato. Hanno mostrato indifferenza, se non ostilità, nei confronti delle loro lotte. Aperta inimicizia invece hanno espresso verso i «barbari» delle banlieues (con l’eccezione della France Insoumise), a cui si sono aggiunte parti del movimento femminista, quando sono tutti caduti succubi delle campagne razziste lanciate dal potere e dai media contro il «velo islamico». Dal canto loro né i primi, né i secondi sono stati capaci di sviluppare forme di organizzazione autonome e indipendenti, in grado di portare il loro punto di vista che ne i sindacati né i partiti chiusi su una base che continua a ridursi non vogliono neanche prendere in considerazione. All’interno dei «barbari» si è sviluppata una teoria decoloniale di cui si possono condividere molte prese di posizione, ma che non è mai riuscita a radicarsi nei quartieri e darsi un’organizzazione di massa. Il movimento femminista è invece ben organizzato e ha sviluppato lucide e approfondite analisi, esprimendo posizioni radicali che però non porta dentro rotture politiche di questa portata. Non dà battaglia politica dentro le lotte incorso anche se le donne sono sicuramente le più colpite dalle «riforme». Per cui il proletariato francese era frammentato dal razzismo, dal sessismo e dalle nuove forme del lavoro precario.

Il movimento in corso ha fatto bouger les lignes come dicono i francesi, cioè ha smosso le linee di divisione, ricomponendo parzialmente le differenze. Anche le azioni ecologiche hanno trovato forza e risorse dentro le lotte. Gli scontri a Sainte-Soline contro la costruzione di grandi bacini per raccogliere l’acqua per l’industria agro-alimentare, dove la polizia ha fatto uso di armi da guerra, hanno suscitato sdegno e mobilizzazione nei giorni successivi con la ripresa delle manifestazioni «selvagge», anche se di minore entità.

Un salto nelle ricomposizioni? Forse è troppo presto per dirlo, in ogni modo i vari movimenti che hanno attraversato la Francia in questi anni si sono innestati sulla mobilizzazione sindacale dandole via via un’altra immagine e sostanza: la sfida con il potere e con il capitale.  In due mesi hanno bruciato Macron e messo in una strada senza via di uscita sua presidenza.

Quando il sistema politico dei paesi occidentali diventa oligarchico e quando il consenso non può più essere assicurato da salari, redditi e consumi, continuamente bloccati o tagliati, la polizia diventa l’asse fondamentale di «governance». Macron ha gestito le lotte sociali della sua presidenza solo tramite la polizia.

La brutalità degli interventi è oggi in cuore della strategia francese dell’ordine pubblico. La Francia non ha solo una grande tradizione rivoluzionaria, ma anche una tradizione di esercizio della violenza contro-rivoluzionaria, inaudita nelle colonie e proporzionata al pericolo che il potere corre nella metropoli (in cui ha fatto intervenire come nel 1848 l’esercito coloniale, l’Armée d’Afrique che aveva conquistato l’Algeria, per reprimere la rivoluzione).

Ormai la posta in gioco del movimento non è riducibile soltanto al lavoro e al suo rifiuto, ma è l’avvenire del capitalismo stesso e del suo Stato, come sempre succede quando si scatenano guerre tra imperialismi!

L’insegnamento che possiamo trarre da due mesi di lotta è l’urgenza di ripensare e riconfigurare il problema della forza, della sua organizzazione, del suo uso. La tattica e la strategia sono ridiventate delle necessità politiche di cui i movimenti si sono poco occupati, concentrati quasi esclusivamente sulla specificità della loro relazione di potere (sessista, razzista, ecologica, salariale). E, nonostante ciò, hanno alzato il livello dello scontro muovendosi oggettivamente insieme, in mancanza di una coordinazione soggettiva, destrutturando il potere costituito. O si ripone il problema della rottura con il capitalismo con tutto ciò che implica o si continuerà ad agire solo sulla difensiva. Ciò che emerge quando la guerra tra imperialismi si impone è sempre, storicamente, la possibilità del suo «crollo» (da cui può anche emergere una nuova divisione del potere sul mercato mondiale e un nuovo ciclo d’accumulazione). Gli USA, la Cina, la Russia hanno la completa consapevolezza della posta in gioco. Che la lotta di classe possa elevarsi a questo livello dello scontro è ancora in dubbio.

 

L’autocrazia occidentale

La costituzione francese prevede sempre la possibilità per il «sovrano» di decidere all’interno di istituzioni cosiddette democratiche, da cui l’invenzione del 49.3 che permette legiferare senza passare per il parlamento. Si tratta dell’iscrizione nella costituzione della continuità dei processi di centralizzazione politica cominciati molto prima della nascita del capitalismo. La centralizzazione della forza militare (monopolio legittimo del suo esercizio), anche lei antecedente al capitalismo, costituisce l’altra indispensabile condizione dell’emergere della macchina Stato-Capitale, che a sua volta procederà immediatamente a una centralizzazione della forza economica costituendo dei monopoli e degli oligopoli che non hanno fatto altro che aumentare di taglia e di peso economico e politico lungo tutta la storia del capitalismo.

Una grande parte del pensiero politico ha ignorato il capitalismo realmente esistente, rimuovendo i suoi processi di centralizzazione «sovrana» aprendo così la strada ai concetti di «governamentalità» (Foucault), «governo» (Agamben che si è molto agitato durante la pandemia, ma è sparito con la guerra tra imperialismi molto poco biopolitica), «governance».

Le affermazioni di Foucault a questo proposito sono significative del clima teorico della contro-rivoluzione: «L’economia è una disciplina senza totalità, l’economia è una disciplina che comincia a manifestare non soltanto l’inutilità, ma l’impossibilità di un punto di vista sovrano». I monopoli sono i «sovrani» dell’economia che non faranno che accrescere la loro volontà di totalizzazione coniugandosi con il potere «sovrano» del sistema politico e con il potere «sovrano» dell’esercito e della polizia.

Il capitalismo non è identico né al liberalismo, né al neoliberalismo. Le due cose sono radicalmente differenti ed è stata una sciocchezza descrivere lo sviluppo della macchina Stato-capitale come un passaggio dalla società sovrane, alle società disciplinari e alla società del controllo. Le tre centralizzazioni si integrano comandando sempre e comunque le forme di governamentalità (liberale o neoliberale), utilizzandole e abbandonandole quando lo scontro di classe si radicalizza.

Gli enormi squilibri e polarizzazioni tra Stati e tra classi che le centralizzazioni determinano conducono direttamente alla guerra che esprime ancora una volta la verità del capitalismo (lo scontro tra imperialismi) le cui ricadute politiche sono immediate, soprattutto sui piccoli stati europei. Mentre il presidente francese afferma la sovranità contro la sua «popolazione», ne ha perso, da buon vassallo, un altro bel pezzo a favore degli USA che hanno rimpiazzato, grazie alla guerra contro l’«oligarca russo», l’asse franco-tedesco, con l’asse Usa, Gran Bretagna e i paesi dell’est al centro dei quali gli americani hanno installato il più reazionario, sessista, clericale, omofobo, anti-operaio e guerrafondaio dei paesi europei, la Polonia. Ormai non solo l’ipotesi federale è un’utopia, ma anche l’Europa delle nazioni. Il futuro sarà dei nazionalismi e dei nuovi fascismi. Se mai qualcuno volesse far risorgere il progetto europeo dopo l’ulteriore servile consenso alla logica dell’imperialismo del dollaro, dovrebbe prima ingaggiare una lotta di liberazione dal colonialismo yankee.

Sullo scacchiere internazionale, la Francia conta ancora meno di quanto contasse prima della guerra, ma come tutti i signorotti marginali, Macron riversa tutto il suo livore e la sua impotenza sui propri «sudditi» a chi riserva il trattamento della sua polizia.

Secondo il Financial Times del 25 marzo 2023, «La Francia ha il regime che, tra i paesi più sviluppati, si avvicina di più a una dittatura autocratica». È divertente leggere la stampa internazionale del capitale che si allarma (Wall Street Journal) perché «la marcia forzata di Macron per trasformare l’economia francese in un ambiente pro-business si fa a scapito della coesione sociale». La loro vera preoccupazione non sono le condizioni di vita di milioni di proletari ma il pericolo «populista» che rischierebbe di mettere in discussione l’Alleanza Atlantica, la Nato Globale e quindi gli Usa che la comandano: la «ribellione parlamentare» e il «caos che si sviluppa in tutto il paese pongono delle domande inquietanti per il futuro del paese a tutti quelli che sperano che la Francia resti con forza ancora al campo liberale, pro-UE, pro-Nato» (Politico). Il Financial Times teme che la Francia «segua gli americani, i britannici, gli italiani e opti per il voto populista». Non si capisce se sono ipocriti o irresponsabili. Vorrebbero avere due cose contemporaneamente: la rendita finanziaria e la rendita da monopolio e la coesione sociale, la democrazia e la dittatura del capitale, le imprese esonerate dalle tasse, lautamente finanziate da un welfare completamente stravolto in loro favore e la pace sociale. Der Spiegel parla di «deficit democratico» di «democrazia stessa in pericolo», quando sono le politiche economiche che difendono quotidianamente le cause dell’autocrazia occidentale che non ha niente, ma proprio niente, da invidiare a quella orientale.

 

Il ciclo di lotte mondiale dopo il 2011

Quello che si comincia solo a intravedere nelle lotte in Francia, la sfida al potere e al capitale, è ciò che le lotte nel Sud globale hanno immediatamente raggiunto già a partire dal 2011.

Il grande Sud ha giocato una funzione strategica determinante, più ancora che le lotte in Occidente, già nel Novecento. La dimensione internazionale dei rapporti di forza è un nodo decisivo per poter riprendere l’iniziativa. La crisi del 2008 non ha aperto solo la possibilità della guerra (puntualmente arrivata), ma anche la possibilità di rotture rivoluzionarie (la realtà delle lotte si muove, è costretta a muoversi verso questa direzione se non vuole essere spazzata via dall’azione congiunta della guerra e dei nuovi fascismi).

L’ultima mondializzazione non si è limitata a scavare differenze, ma ha anche creato dei Nord nel Sud e impiantato dei Sud nel Nord. Da questo non si deve assolutamente dedurre un’omogeneità dei comportamenti politici e dei processi di soggettivazione tra le due diverse frazioni. La polarizzazione centro-periferia è immanente al capitalismo e deve essere imperativamente e continuamente riprodotta. Senza la predazione del «Sud», senza l’imposizione di uno sviluppo «lumpen» e di uno «scambio ineguale» (Samir Amin), il saggio di profitto è destinato a cadere inesorabilmente, malgrado tutte le innovazioni, le tecnologie, le invenzioni che il Nord possa produrre sotto il controllo del più grande imprenditore tecnico-scientifico, il Pentagono americano.  È la ragione di fondo della guerra in corso. Il grande Sud vuole uscire da questa relazione di subordinazione, ne è già parzialmente uscito, ed è questa volontà politica che minaccia l’egemonia finanziaria e monetaria americana e la sua supremazia produttiva e politica.

Ci sono almeno due importanti differenze politiche che permangono tra l’Occidente e il resto del mondo. La non integrazione dei «barbari» delle periferie francesi nelle lotte attuali, pur costituendo uno degli strati più poveri e sfruttati del proletariato francese, è già un sintomo, interno ai paesi occidentali, delle difficoltà di superare la «frattura coloniale» di cui i bianchi hanno a lungo profittato.

Dentro il ciclo di lotte iniziato nel 2011 si è prodotta una differenziazione simile a quella verificatasi nel XX secolo. All’epoca avevamo rivoluzioni socialiste o di liberazione nazionale (con tinte comunque socialiste) in tutto il grande Sud e lotte di massa, anche molte dure, incapaci però di sfociare in processi rivoluzionari vincenti in Occidente. Oggi abbiamo grandi scioperi in Europa (Francia, Gran Bretagna, Spagna e anche Germania) e invece vere e proprie rivolte, insurrezioni, apertura di processi rivoluzionari nel grande Sud.

Prendiamo in considerazione solo qualche esempio, l’Egitto e la Tunisia che hanno inaugurato il ciclo nel 2011, il Cile e l’Iran, più recentemente, per sottolineare le differenze e le possibili convergenze.

Difficile paragonare l’insurrezione delle primavere arabe con «Occupy Wall Street» anche se c’è stata una circolazione delle forme di lotta: destituzione del potere costituito, milioni di persone mobilizzate, sistemi politici scossi dalle fondamenta, repressione con centinaia di morti, possibilità di aprire un vero processo rivoluzionario, subito abortito perché come recitava un cartello al Cairo durante la rivolta, «half revolution, no revolution». Occupy Wall Street non ha mai messo in campo rapporti di forza di queste dimensioni ne ha prodotto, anche se per brevi periodi, «vuoti», destrutturazioni, delegittimazioni dei dispositivi di potere come le insurrezioni nel Sud periodicamente determinano. Ed è ancora il Sud che apre e promuove nuovi cicli di lotta (vedi anche il femminismo sudamericano) che si riproducono con intensità e forza minori nel Nord.

Il Cile, dove il «neoliberalismo» era nato, dopo che l’azione della macchina Stato-Capitale aveva distrutto fisicamente i processi rivoluzionari in corso e aveva chiamato Hayek e Friedman a costruire sul massacro mercato, concorrenza e capitale umano (mai confondere, il neoliberalismo con l’imperialismo e con il capitalismo, bisogna distinguerli sempre accuratamente!), è un altra tipologia di insurrezione, da cui si possono tirare altri insegnamenti, anche se, come in Africa del Nord, si tratta di sconfitte politiche.

In Cile, in modo diverso dall’Egitto, una molteplicità di movimenti (significativa l’importanza del movimento femminista e indigeno) si è espressa nella rivolta. Ma a un certo punto della lotta tra le classi ci si confronta con un potere che non è più solo il potere patriarcale o eterosessuale, non è più solo il potere razzista, non è più solo il potere del padrone, ma è il potere generale della macchina Stato-Capitale che li ingloba, li riorganizza e nello stesso tempo li deborda. Il nemico non è nemmeno soltanto il potere nazionale, la sovranità di uno Stato come quello cileno. In queste situazioni ci si confronta direttamente con le politiche imperialistiche perché eventuali rotture politiche, come in Egitto (più che in Tunisia) o in Cile o in Iran, rischiano di mettere in discussione i rapporti di forza sul mercato mondiale, l’organizzazione globale del potere: tanto l’insurrezione cilena quanto quella egiziana sono state seguite molto da vicino dagli Stati Uniti che non si sono fatti pregare per intervenire con la loro «ingerenza strategica». Una situazione simile si è prodotta anche in Francia: lo sviluppo delle lotte si trova, a partire da una lotta «sindacale», di fronte alla totalità della macchina Stato-Capitale.

Dentro questi momenti di lotta si arriva a un punto di non ritorno per entrambi i contendenti, perché non è possibile consolidare delle forme stabili di contropotere, degli spazi o territori «liberati» se non per brevi periodi. La soluzione zapatista non è generalizzabile, né riproducibile (come, del resto, hanno sempre affermato gli zapatisti stessi). Non si capisce come si possa impiantare un duraturo «doppio potere» nelle condizioni attuali del capitalismo. Nello stesso tempo la presa del potere non sembra costituire, dal 68, una priorità. La situazione si configura come un rompicapo!

Malgrado le differenze politiche tra Nord e Sud, emergono problemi trasversali: quale soggetto politico costruire che sia capace, nello stesso tempo, di organizzare la molteplicità delle forme di lotta e dei punti di vista e di porre la questione del dualismo di potere e dell’organizzazione della forza.

Le rivolte, le insurrezioni (ma anche, se in maniera diversa, le lotte in Francia), producono una serie di rompicapi: impossibilità di totalizzare e di sintetizzare le lotte e impossibilità di restare nella dispersione e nella sola differenza; impossibilità di non rivoltarsi destrutturando il potere e quella di prendere il potere; impossibilità di organizzare il passaggio dalla molteplicità al dualismo di potere comunque imposto dal nemico e impossibilità di restare nella sola molteplicità e nella differenza; impossibilità della centralizzazione e impossibilità di affrontare il nemico senza centralizzazione. Cozzare contro questi rompicapi è la condizione per creare il possibile della rivoluzione. Solo a queste condizioni, superando queste impossibilità, l’impossibile diventa possibile.

La seconda grande differenza tra Nord e Sud concerne la guerra in corso e l’imperialismo. L’imperialismo definisce il salto di qualità operato nel processo di integrazione dei tre processi di centralizzazione economica, politica e militare che la prima guerra mondiale sancisce e che hanno raggiunto il loro punto più alto durante il «neoliberalismo» – alla faccia della libera concorrenza, della libera iniziativa, della lotta contro ogni concentrazione di potere che falsi la competizione, ecc. – fino ad imporre, come stanno facendo oggi, l’inflazione da profitti («pricing power», il potere di fissare il prezzo in barba al sedicente neoliberalismo) non contenti della predazione che operano a livello globale e della riorganizzazione del welfare che hanno imposto a loro favore.

Il movimento francese non si è espresso sulla guerra tra imperialismi. La lotta contro la riforma delle pensioni avviene in questo quadro, anche se il problema non è mai stato posto. Il fatto che l’Europa sia in guerra e che l’Occidente stia riorganizzando il welfare in warfare, cambia notevolmente la situazione politica. Forse è meglio così, anche se si tratta di un evidente limite politico. Se l’avesse fatto sarebbero emerse probabilmente posizioni politiche differenti e anche opposte.

Nel Sud globale il giudizio sulla guerra è invece chiaro e unanime: si tratta di una guerra tra imperialismi alla cui origine c’è però l’imperialismo americano a cui aderiscono le suicidarie classi politiche europee. Il Sud si divide soltanto tra Stati che sono per la neutralità e altri schierati con la Russia, ma tutti rifiutano le sanzioni e la fornitura di armi.[1]

Nel Sud la categoria di imperialismo non è mai stata messa in discussione come è stato fatto in Occidente. Il grande abbaglio preso da Negri e Hardt con «Impero», la cui formazione sovranazionale non è mai neanche cominciata, è significativo di una differenza di analisi e di sensibilità politica che li ha portati ad affermare, nell’ultimo volume della loro trilogia, l’impossibile Impero avrebbe optato per la finanza dopo aver testato la guerra. Esattamente il contrario di cioè che è successo: la finanza americana avendo prodotto e continuando a produrre crisi a ripetizione – che mettono continuamente il capitalismo sull’orlo del crollo, salvato esclusivamente dall’intervento della sovranità degli Stati, primo fra tutti quello americano – obbliga gli USA alla guerra. L’imperialismo contemporaneo il cui concetto potrebbe essere sintetizzato (semplificandolo notevolmente) dalla triangolazione monopoli/moneta/guerra getta una luce anche sui limiti delle teorie che l’hanno ignorato e ci impone di assumere il punto di vista del Sud che non l’ha mai abbandonato perché ce l’ha ancora sul groppone. Come del resto noi, ma preferiamo far finta di niente!

 

Come uscire dalla controrivoluzione?

Si è giustamente ammirati dalle lotte del proletariato francese. Entusiasmano perché si riconoscono tratti delle rivoluzioni del XIX secolo (e anche della grande rivoluzione) che danno sempre del filo da torcere alla controrivoluzione con una continuità e intensità che non si vede in nessun altro paese occidentale. Bisogna però restare vigilanti. Se i proletari francesi insorgono con regolarità impressionante contro le «riforme», riescono soltanto, almeno fino ad oggi, a ritardare la loro applicazione o a modificarle al margine, producendo e sedimentando, per contro, processi di soggettivazione inediti che si cumulano come nelle lotte in corso (dalle lotte contro la legge sul lavoro ai Gilets jaunes passando per le ZAD). Le lotte però sono state tutte, almeno fino ad oggi, difensive il cui senso reattivo può essere sicuramente rovesciato, ma resta comunque un handicap di partenza notevole.

Per spiegare ciò che dobbiamo chiamare, malgrado le grandi resistenze espresse, «sconfitte», occorre, forse, risalire a come le conquiste salariali, sociali, politiche sono state imposte. Se nell’Ottocento le prime vittorie erano il frutto delle lotte delle classi operaie europee, nel Novecento il Sud ha giocato un ruolo strategico sempre più importante.  Sono le rivoluzioni, paventate nel Nord e vincenti nel Sud, che hanno inceppato la macchina Stato-Capitale obbligandola a delle concessioni. Ciò che faceva paura erano l’autonomia e l’indipendenza del punto di vista proletario che vi si esprimeva. Il congiungersi delle rivoluzioni contadine nel Sud con le lotte operaie del Nord ha determinato un fronte oggettivo di lotte trasversale alla «linea di colore» che ha imposto aumenti salariali, welfare al Nord e rottura della divisione coloniale che regnava da quattro secoli nel grande Sud. è questo il frutto più importante della rivoluzione sovietica (Lenin non è mai andato a Londra, né a Detroit, ma si è visto invece dalle parti di Pechino, Hanoi, Algeri, ecc.) che è stata prolungata solo dai «popoli oppressi».

Come è impossibile il socialismo in un solo paese, così è impossibile imporre delle condizioni alla macchina Stato-Capitale a partire da una nazione.

Le classi operaie occidentali erano state battute dall’avvento della Prima guerra mondiale, quando la stragrande maggioranza del movimento operaio aveva accettato di mandarle al macello per la gloria delle rispettive borghesie nazionali. Quando sia la classe che il movimento operaio si sono riscattati con l’antifascismo, l’iniziativa era già in mano alle rivoluzioni «contadine» la cui forza ha fatto derivare i centri del capitalismo verso est. Oramai, le classi operaie occidentali erano state integrate nello sviluppo e anche quando si ribelleranno non saranno mai in grado di minacciare veramente la macchina Stato-Capitale. Nello stesso periodo le rivoluzioni del grande Sud si sono trasformate in macchine di produzione o in Stati Nazione.

Sparita la minaccia della rivoluzione al Nord e la sua presenza reale al Sud, il rapporto di forza si è radicalmente rovesciato: abbiamo cominciato a perdere e continuiamo a perdere, un pezzo alla volta, tutto quello che era stato conquistato (il passaggio dell’età pensionabile da 60 anni a 67, setti anni di vita catturati in un colpo solo dal capitale, è forse il segno più evidente della sconfitta). Fino alla controrivoluzione cominciata negli anni ‘70, anche quando si era sconfitti politicamente, si avanzava economicamente, socialmente. Oggi si perde su entrambi i fronti. Ora, dopo la crisi del 2008, esplodono dappertutto lotte significative (il marzo francese è una di queste) ma se non si ritesse la rete delle insurrezioni e delle lotte su scala globale, soggettivamente questa volta, dubito che si possa rompere la gabbia della controrivoluzione.

Uomini di buona volontà si propongono di civilizzare la guerra di classe all’origine delle guerre tra stati. Auguriamo loro, buona fortuna. In un solo secolo (1914-2022) i diversi imperialismi hanno portato quattro volte l’umanità al bordo dell’abisso: Prima e Seconda guerra mondiale con l’apice nazista, la guerra fredda in cui si è attualizzata per la prima volta la possibilità della fine nucleare dell’umanità. La guerra attuale, di cui l’Ucraina non sarà che un episodio, potrebbe rilanciare quest’ultima eventualità.

Rispetto a questa tragica, ricorrente, ripetizione delle guerre tra imperialismi (le altre non le contiamo nemmeno) si tratta di ricostruire rapporti di forza internazionali e di elaborare un concetto di guerra (di strategia) adeguato a questa nuova situazione. Il «Manifesto del partito comunista» ne dava una definizione ancora attualissima anche se rimossa o caduta nell’oblio della pacificazione: «guerra ininterrotta, talvolta dissimulata, talvolta aperta. Dissimulata o aperta, richiede sempre e comunque un sapere dei rapporti di forza e una strategia e un’arte della rottura, adeguata a questi rapporti. La guerra, storicamente, ma sembra ancora il caso oggi, può dar luogo a una trasformazione rivoluzionaria» o una nuova accumulazione di capitale su scala mondiale. Un’altra possibilità che il Manifesto di Marx e Engels prendeva in considerazione è all’ordine del giorno, aggravata dal disastro ecologico in corso, «la distruzione» non solo «delle due classi in lotta», ma anche dell’umanità.


NOTE
[1] Laura Richardson, responsabile del comando militare sud degli USA (che comprende anche tutti i paesi dell’America Latina, tranne il Messico) ha proposto un “affare” alla Colombia alleata storica dell’imperialismo prima del cambio di governo. Se il paese accettava di mettere a disposizione dell’esercito ucraino i suoi cinquanta vecchi elicotteri Mi-8 e Mi-17 di fabbricazione sovietica, Washington li avrebbe rimpiazzati con materiale nuovo. La risposta del presidente Gustavo Petro è stata tagliente e si differenzia dalla vergognosa e controproducente sottomissione delle élite europee: “Conserveremo queste armi, anche se dovessimo trasformarle in ferraglia (…) Noi non siamo in un campo o in un altro,  siamo in quello della pace.”

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