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partizan2017

Ricostruire il programma socialista, rompere la gabbia dell’Euro

di Fabio Nobile, Domenico Moro

occupPremessa. Il presente elaborato non si propone di contenere tutte le variegate problematiche della società capitalistica contemporanea. Sceglie di focalizzarsi sugli elementi, a nostro parere, prioritari per ricostruire, qui e ora, le basi di ripartenza del movimento comunista italiano. Il nostro auspicio è che questo approccio aiuti a raggiungere, in un contesto molto difficile e di grave arretramento del partito e dell’insieme del movimento comunista in Italia, la necessaria chiarezza sulle scelte da fare, facilitando la lettura e favorendo una ampia discussione.

 

  1. I comunisti tra passato e presente

L’obiettivo di questo congresso del Partito della Rifondazione comunista è la definizione di una prospettiva socialista valida per il XXI secolo. A questo scopo è necessario definire un progetto adeguato alla fase in corso, che richiede una analisi della nuova fase storica del capitalismo e un chiarimento sul passato del movimento comunista italiano e internazionale. Il movimento comunista nasce dalla rottura con la socialdemocrazia sulla guerra e sull’imperialismo e si consolida con la Rivoluzione d’Ottobre. La Rivoluzione d’Ottobre, di cui quest’anno ricorre il centenario, rappresenta il primo tentativo di successo, nella storia umana, di rovesciare la classe dominante per fondare il potere politico sulle classi subalterne.

L’Urss rappresenta il vero primo stato operaio della Storia, se si eccettua la Comune di Parigi, esperienza durata qualche mese e limitata alla sola capitale francese. L’esistenza dell’Urss è stata decisiva per la vittoria contro il nazifascismo, per la decolonizzazione, per la realizzazione di rapporti di forza favorevoli alla classe operaia e salariata nell’Europa occidentale, che hanno contribuito alla realizzazione del welfare state. L’Urss, soprattutto, ha frenato l’imperialismo ed è stato fattore di mantenimento della pace per quasi mezzo secolo. Viceversa, il crollo dell’Urss ha contribuito al drastico peggioramento dei rapporti di forza tra classe lavoratrice e capitale in Europa occidentale, portando al peggioramento delle condizioni  dei lavoratori, e tra imperialismo e Paesi periferici, portando a un aumento delle guerre e a una destabilizzazione internazionale sempre più grave.

Certamente la storia dell’Urss e dei suoi gruppi dirigenti è stata caratterizzata da gravi errori soggettivi che, insieme alla incessante lotta condotta dal capitale contro di essa, ne hanno determinato il crollo. L’esperienza sovietica va letta oggettivamente, anche nei momenti più dolorosi, come fenomeno storico-sociale, secondo il metodo della scienza sociale marxista. L’Urss ha rappresentato un gigantesco esperimento di costruzione concreta di rapporti di produzione socialisti. Tale esperimento è avvenuto in un contesto di relativa arretratezza dei rapporti di produzione capitalistici, di isolamento economico e di continua aggressione politico-militare internazionale e, da ultimo ma non per importanza, in assenza sia di riferimenti storici precedenti sia di una teoria matura del socialismo. Sono anche queste le ragioni per cui l’Urss non è riuscita a superare lo stato emergenziale in cui nasce. Il rapporto tra classe, partito e stato ne risulta influenzato negativamente, indebolendo la partecipazione delle masse e, di conseguenza, anche l’esecuzione del piano economico, troppo condizionato da alcuni settori industriali.  Non c’è, però, dubbio che i rapporti di produzione vigenti in Urss, per quanto rimasti a un livello immaturo, siano stati di tipo socialista. Il loro mancato sviluppo e l’espansione globale dei rapporti di produzione capitalistici sono la base materiale e oggettiva su cui matura il crollo, innescato da fattori più immediati e soggettivi.

Oggi, noi siamo nella condizione, proprio grazie all’analisi dell’economia e dello Stato nell’Urss, di definire una adeguata e migliore proposta socialista per il futuro. Bisogna superare vecchie divisioni che rappresentano il passato e che ci precludono la piena comprensione dei veri punti critici della storia sovietica. Abbiamo bisogno di un nuovo approccio al socialismo, che, però, non si basi sulla negazione o sulla rimozione, che getta via anche il bambino insieme all’acqua sporca, bensì sull’elaborazione critica di quello che è, comunque, il nostro passato.

 

  1. Il quadro economico generale del capitalismo: dalla redistribuzione della ricchezza alla lotta contro i rapporti di produzione capitalistici

Un proposta di socialismo deve essere adeguata alla realtà. Pertanto, si deve basare, oltre che sull’elaborazione critica del passato, sulla comprensione di che cosa oggi è il capitalismo, passato, a cavallo degli anni ’90, dalla forma monopolistica di stato a quella di capitalismo globalizzato. Nella presente fase storica di accumulazione capitalistica la questione non è soltanto quella della redistribuzione equa della ricchezza prodotta, classico tema della politica socialdemocratica, e della redistribuzione del lavoro (riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario), storico cavallo di battaglia del movimento operaio. Questi due temi, così come il tema della inclusione dei migranti nella società europea, non possono prescindere dall’affrontare il tema della produzione della ricchezza e quindi dei rapporti di produzione e del rapporto sta Stato e economia, che diventano la priorità per i comunisti e il tema centrale di lotta politica.

La crisi attuale è di natura e profondità diversa da quelle che si sono verificate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, determinando una crisi della globalizzazione stessa. Si tratta di una crisi che è manifestazione di una sovraccumulazione di capitale (cioè di un eccesso di investimenti di capitale sotto forma di mezzi di produzione) senza precedenti, e irrisolvibile nell’ambito dell’attuale quadro di rapporti economici e politici se non mediante massicce distruzioni di capacità produttiva e capacità lavorative.  Brevemente, ciò che caratterizza oggi il modo di produzione capitalistico, nei suoi punti centrali, è la separazione tra accumulazione (produzione di profitto) e crescita economica. In sostanza la crescita economica, e in particolare del Pil, non è più condizione necessaria alla tenuta del saggio e della massa dei profitti. I profitti sono realizzati mediante esportazioni di capitale all’estero e mediante la riduzione, a livello globale, dei costi sia di quelli relativi al personale sia di quelli relativi agli investimenti fissi, che, pregiudicando l’innovazione, hanno e avranno sempre di più un impatto negativo sullo sviluppo futuro del nostro Paese. Il crollo degli investimenti fissi è stato senza precedenti in Europa e la performance dell’Italia, peggiore anche rispetto al resto d’Europa, è ricollegabile alla ancora maggiore contrazione degli investimenti.

Il modo di produzione capitalistico, a differenza di quanto accadde in Europa occidentale e in Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, non è più fattore di sviluppo, per quanto ineguale e squilibrato, delle forze produttive sociali e dell’occupazione. Oggi, il capitalismo, nella maggior parte dei Paesi cosiddetti a “capitalismo avanzato”, è fattore di distruzione delle forze produttive. Nei Paesi dell’Europa occidentale si assiste alla deindustrializzazione e alla delocalizzazione in Paesi periferici delle attività produttive, il nostro Paese, in particolare, ha perso tra il 20 e il 25% della capacità produttiva manifatturiera.

La contrazione della base produttiva ha determinato la contrazione drastica del Pil che, sempre nel nostro Paese, dopo otto anni non ha raggiunto ancora i livelli precedenti allo scoppio della crisi. La contrazione del Pilha condotto alla riduzione della base imponibile e all’aumento del debito, che è calcolato in percentuale sul Pil, e soprattutto ha determinato la contrazione assoluta dell’occupazione. Oggi, in quasi tutta L’Europa non si riesce a produrre posti di lavoro sufficienti a rispondere alla domanda occupazionale dei giovani e, aspetto decisivo, per la prima volta da molto tempo si è ridotto il numero degli occupati assoluti (15-64 anni), contrattisi tra 2008 e 2015 di 726mila unità in Italia e di quasi 4 milioni nella Ue. Quindi, il problema principale che ci si pone, come comunisti, è la lotta contro la disoccupazione di massa e i suoi naturali compagni, la sottoccupazione, il precariato e i salari di sussistenza o persino al di sotto della sussistenza.

A questo scopo, non basta la redistribuzione della ricchezza, come poteva essere nel periodo d’oro della crescita capitalistica, i <>. Né possiamo cavarcela semplicemente dicendo che “i soldi ci sono”, perché la semplice redistribuzione, in una situazione di contrazione delle basi produttive, non solo non basta, ma non coglie il problema fondamentale che è la crisi dei rapporti di produzione su cui si basa il capitale. Tanto meno, come fanno altri, si può ricondurre tutto alla corruzione e ai costi e all’inefficienza della politica. Né si può risolvere il problema della mancanza di reddito con formule come il salario di cittadinanza, che, in questa situazione, rappresenterebbe la redistribuzione della povertà tra gli occupati e i disoccupati e un fattore di passivizzazione piuttosto che di partecipazione al lavoro e alla vita e al conflitto sociale.

L’obiettivo decisivo è, invece, la costruzione di nuovi posti di lavoro, soprattutto di buoni posti di lavoro, a tempo pieno e in settori non “poveri” sul piano del valore aggiunto prodotto e del contenuto tecnologico, cioè nell’industria e nel terziario avanzato. Ma, per farlo, vanno ricostruite le basi della produzione e della crescita. Il che richiede, a sua volta, la ripresa degli investimenti fissi. La crescita del Pil e gli investimenti non deve, però, essere confusa con la riedizione del vecchio produttivismo, basato sulla crescita indiscriminata, del resto impraticabile in una fase di decrescita imposta dal capitale. La crescita che ci interessa una crescita che incrementi l’utilità sociale della produzione e minimizzi sprechi e rifiuti, riciclando materiali e risparmiando energia, terra e risorse minerarie. La crescita del Pil non necessariamente deve derivare dalla crescita della quantità di merci prodotte e dall’aumento di consumi privati superflui, bensì dalla crescita dei consumi collettivi e dalla ripresa dello sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, che permetta, fra l’altro, la riduzione dell’orario di lavoro.

Del resto, la crescita del Pil può derivare proprio dal lavoro di messa in sicurezza del territorio da frane e inondazioni e dal riadeguamento del vecchio patrimonio abitativo a criteri antisismici e da un nuovo programma di edilizia popolare. Inoltre, la crescita può derivare non solo dall’incremento delle infrastrutture stradali, ferroviarie e aeroportuali, ormai inadeguate e spesso in stato di abbandono, ma soprattutto dalla loro manutenzione, riparazione, ammodernamento e riadeguamento alle nuove necessità. Infine, la crescita non può prescindere dallo sviluppo della manifattura, fondamentale per la bilancia dei pagamenti e spina dorsale di qualsiasi economia. Sviluppo della manifattura vuol dire sia ammodernamento tecnologico, anche dal punto di vista della sicurezza del lavoro, della prevenzione dell’inquinamento e della gestione dei rifiuti, dei settori maturi (siderurgia, mezzi di trasporto, agroalimentare, ecc.) che mantengono una loro importanza strategica per il Paese, sia sviluppo dei nuovi settori ad alta tecnologia e ad alto valore aggiunto in cui la presenza dell’Italia va rafforzata (biotecnologie e farmaceutica, nuovi materiali, aeronautica e droni civili, energie alternative, ecc.).

La crescita della produzione richiede, però, un livello tale di investimenti che il privato non è intenzionato a fare perché la caduta del saggio di profitto e i processi di internazionalizzazione lo spingono alla razionalizzazione della base produttiva in Italia e a dirigere gli investimenti all’estero o in attività di carattere monopolistico, come le utilities. Solo lo Stato può fare gli investimenti che sono necessari alla ripresa economica e dell’occupazione. Quindi, c’è bisogno del ritorno dello Stato nell’economia, non solo nelle necessarie vesti di regolatore, controllore e prestatore di ultima istanza, ma soprattutto come soggetto attivo, cioè nella veste di stato imprenditore. Tale aspetto contempla anche le ripubblicizzazioni di imprese e banche e le reinternalizzazioni di servizi pubblici locali a fronte del completo fallimento del mercato come dimostra la vicenda della siderurgia nella manifattura.

Tutto ciò comporta la definizione di una politica economico-industriale che, a differenza del classico riformismo socialdemocratico, assuma un carattere radicale e di rottura con gli equilibri economici e politici del capitalismo globalizzato.  Ciò, in primo luogo, perché, oggi tale riformismo entra automaticamente in rotta di collisione con i meccanismi dell’accumulazione del capitale globalizzato, implicando l’inversione della tendenza neoliberista in atto negli ultimi trent’anni. E, in secondo luogo, a differenza dell’intervento statale odierno (funzionale al rialzo del saggio di profitto e indirizzato soltanto alla socializzazione delle perdite), contiene in sé i germi, la prefigurazione della trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista.

 

  1. Il contesto politico italiano e europeo e la natura dei partiti.

Se questo è il quadro generale, si deve provare a costruire una proposta politica che sia all’altezza della sfida in Italia ed in Europa. La vittoria del NO al Referendum costituzionale se rappresenta una battuta d’arresto pesante di Renzi ed il segnale che le élites fanno fatica ad esercitare con continuità la loro egemonia anche nel nostro Paese, allo stesso tempo palesa un vuoto di alternativa che rischia di essere riempita di nuovo dall’establishment.

Il dato del voto al NO è significativo in questo senso. Una quota rilevante di coloro che si astengono al voto da anni in occasioni come questa fanno sentire la loro voce come era già successo con il Referendum in difesa dell’acqua pubblica. L’80% dei giovani, il Sud, i settori più in difficoltà nel nostro Paese hanno dato un segnale chiaro. Ma l’assenza di un progetto politico alternativo credibile rischia di far rifluire questa spinta con il rischio che venga derubricata ad un episodio come purtroppo è stato ad oggi per il Referendum sull’acqua pubblica.

Il Movimento5stelle manifesta con la vicenda di Roma tutta la sua debolezza ed incertezza nel praticare un progetto oggettivamente fumoso con al cuore la questione della lotta alla “casta”. Un aspetto questo cruciale per capire i limiti insuperabili di questo movimento. Tali limiti hanno fino ad oggi rappresentato la sua forza. Lo hanno messo al centro del superamento del berlusconismo con una capacità onnivora in grado di pescare consensi in tutti gli strati sociali e conseguentemente in tutte le aree politiche. L’indicare “la casta” quale nemico principale da contrastare ha al fondo il principio che con l’eliminazione del ceto politico contingente è possibile sic et simpliciter il cambiamento. Un concetto, questo, molto funzionale alle classi dominanti quale strumento di superamento delle continue crisi di egemonia a cui sono sottoposte in questa fase. Questo principio mette in secondo piano i nodi strutturali dello scontro. E non è un caso che la Giunta romana sia impelagata da quando si è insediata attorno a questioni “morali”. Al tramonto della prima repubblica un fenomeno simile fu rappresentato dall’Idv di Di Pietro. Come si ricorderà in una notte quel partito si è dissolto. Non è dato conoscere la forza che saprà esprimere il Movimento5stelle nei prossimi tempi, in particolare alle prossime elezioni politiche, quello che si può dire per certo è che strategicamente rappresenta un ostacolo alla ricostruzione di un’opzione politica a sinistra. Il Movimento5stelle sul terreno della casta riesce ad attrarre, come sua base di massa, anche settori proletari ma resta ideologicamente espressione di quella parte di borghesia che non regge la competizione della parte vincente del Capitale più internazionalizzato. Il nemico principale per il Movimento5stelle è, come abbiamo detto, la casta. Per Salvini gli immigrati. Poi ci sono i banchieri, i faccendieri ed altro. Ma in politica gli accenti sono fondamentali e sono le campagne contro “i nemici principali” che determinano la forza di massa di questi movimenti.

In Italia il Partito che si è posto a garanzia della attuazione delle politiche imposte dalla UE e dell’euro è il PD. Il PD, prima con Veltroni e Bersani e poi con il “partito della nazione” di Renzi, ha adeguato sé stesso alle esigenze del capitale transnazionale, oggi sempre più sganciate dalle esigenze di crescita nazionali. La sconfitta di Renzi, e l’immediato insediamento di Gentiloni, sostenuto da tutto il PD, non hanno modificato l’asse strategico su cui oggi si basa il PD e di cui l’europeismo e l’euro sono i principi-cardine fondamentali. Il Pd nella fase della lunga campagna referendaria ha cercato di interpretare, ovviamente per ragioni di consenso, le contraddizioni e la crisi della globalizzazione accentuando la critica all’austerità ma nella sostanza continuando ad essere il perno a difesa della UE e dell’Euro in Italia.

Forza Italia prova a dare un senso alla propria esistenza con la sconfitta di Renzi, ma lo spazio politico di garante della stabilità è ancora in mano al PD e lo spazio politico a destra è in mano a Salvini. E’ chiaro che questo è frutto della polarizzazione sociale a cui corrisponde una radicalizzazione anche a destra. E questo non è un fenomeno solo italiano.

La crisi economica ha di fatto portato al superamento del bipolarismo nei paesi Europei principali e alla nascita di terze e quarte forze che esprimono in forme diverse la scomposizione del blocco sociale su cui si basava la stabilità politica della fase precedente. Tale crisi del bipolarismo non ha portato ad un’automatica ripresa delle forze politiche di classe. Una parte della crisi della sinistra di questo scorcio d’inizio secolo deriva dalla non sufficiente comprensione prima del processo di unificazione europea e successivamente della natura dell’euro e della sua centralità nell’attacco neoliberista. La vicenda greca evidenzia, infatti, non solo l’irriformabilità dell’Eurozona e l’assoluta impermeabilità di questa alla sovranità popolare, ma anche i limiti politici d’impostazione generale della sinistra europea, che non è stata in grado di reagire alle imposizioni della UE ma soltanto di registrare quanto accaduto. Dopo la “normalizzazione” della Grecia non è un caso abbiano ripreso  peso le forze populista di destra.

La sinistra che si colloca al di fuori del PSE, in primo luogo il Partito della Sinistra Europea, evidentemente  non ha una strategia sufficiente che colleghi l’azione nei singoli stati nazionali sulla base di un piano generale in particolare in relazione al posizionamento sull’Eurozona. Eppure ora tale dibattito sta comunque attraversando i comunisti e la stessa  Sinistra in Europa. Le stesse posizioni delle singole forze politiche che compongono la Sinistra Europea stanno evolvendo o quantomeno aggiornandosi sulla base di quanto sta avvenendo nel vecchio continente, basti pensare a tutto il confronto di posizioni che c’è’ stato sul cosiddetto “piano b” che ha coinvolto anche personalità che potremmo definire della sinistra socialdemocratica. Tale dialettica soggettiva deve approdare con più forza anche in Italia per ridare vigore ad una battaglia di cambiamento.

Dunque, a sinistra esiste un vuoto di strategia e proposta preoccupante. In Italia il Referendum apre sicuramente degli spazi, ma senza una chiarezza d’impostazione si possono chiudere nuovamente con grande rapidità. La battaglia referendaria ha visto al nostro fianco i padri fondatori del Partito Democratico, paladini del maggioritario e dell’introduzione del pareggio di bilancio, coloro che, come Bersani, sono stati i sostenitori principali del governo di Mario Monti, di fatto all’epoca il commissario della Bce e della Commissione europea. Costoro non possono essere interlocutori né di Rifondazione Comunista né di una vera sinistra che intenda ricostruire sé stessa. Ogni cedimento su questo piano riduce ogni margine di credibilità odierna e futura, oltre a riproporre scenari politicisti logori e inservibili.

E’ necessario impostare il ragionamento in modo molto chiaro. In primo luogo, la Costituzione, peraltro depotenziata dall’art.81 (obbligo di pareggio di bilancio), è, nella sua versione originale, incompatibile con i trattati e l’intera architettura della moneta unica. In secondo luogo, la Costituzione e lo stesso meccanismo di governo parlamentare sono stati bypassati, negli ultimi anni, grazie all’integrazione economica e valutaria europea. Di conseguenza non esiste alcuna possibilità di applicare la Costituzione all’interno dei vincoli imposti e delle dinamiche innescate dall’Euro.

Solo se portata nella direzione di una lotta contro l’euro la potenzialità espressa nel referendum può trasformarsi in una battaglia politico-strategica che ridia forza ad un una idea di cambiamento complessivo dell’ordine economico, sociale e politico.
Ciò che serve, quindi, a sinistra è una proposta di rottura, senza tentennamenti o alchimie tatticiste che fino ad oggi hanno portato all’immobilismo e alla quasi dissoluzione – nella percezione di massa – di un’ipotesi organicamente e chiaramente alternativa. Il tema è dunque la piattaforma politica e solo con questa possono definirsi i “confini”, alla nostra destra e alla nostra sinistra. E’ da una piattaforma politica chiara, aperta ma determinata che si può riscontrare un percorso efficace. Senza tale chiarezza è possibile che si costituiscano aggregazioni anche larghe ma con una caratterizzazione politicista che ne minerebbe in partenza ogni credibilità. Non è un caso che la stessa Sinistra Europea e i partiti che la compongono sono attraversati da questo dibattito. Un dibattito che, laddove non è risolto, costituisce un ostacolo allo sviluppo dell’iniziativa politica.

 

  1. Per un programma di unificazione delle lotte parziali sulla base della fuoriuscita dalla gabbia dell’euro e di un intervento economico pubblico di tipo nuovo

Da quanto abbiamo detto si impone, quindi, l’individuazione di cinque principali punti programmatici sui quali i comunisti devono impegnarsi:

a) La progressiva eliminazione del mercato autoregolato mediante l’introduzione di elementi di pianificazione della produzione e di controllo sui capitali, e l’allargamento del perimetro della produzione pubblica di beni e servizi. A questo scopo va ripresa l’esperienza di intervento statale post-bellica, soprattutto quella avvenuta negli anni ’60 e ’70, basata sulla Programmazione economica e le Partecipazioni statali, in cui gli investimenti pubblici non erano subordinati alla sola efficienza economica ma erano diretti a scopi di sviluppo generale del Paese e di convergenza tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. Tale ripresa va, però, svolta in modo critico, individuando i forti limiti che impedirono la realizzazione di una effettiva programmazione, sostituendola con la contrattazione degli investimenti tra lobby politiche nazionali e locali, da una parte, e il management di singole imprese statali, dall’altra. La perdita da parte dello Stato proprietario del coordinamento e del controllo sulle attività delle imprese e delle banche di cui era azionista, e l’esclusione del Parlamento dalla supervisione delle attività economiche pubbliche finirono per condurre alla crisi del sistema delle Partecipazioni statali, che, pur potendo essere risolta e malgrado i successi economici di molte imprese statali, fu utilizzato per smantellare il settore pubblico e svenderlo al capitale privato e per trasformarne le imprese ancora a controllo pubblico in imprese orientate a criteri pienamente privatistici.

b) L’integrazione europea, con i suoi vincoli di bilancio e il regime di cambi fissi, accentua la stagnazione interna e la tendenza espansiva dei capitali verso l’estero. Il programma di investimenti ideato da Junker è del tutto insufficiente mentre l’espansione monetaria, unico strumento adottato dalla Bce di Draghi, non ha sortito effetti positivi sull’occupazione. Investimenti di entità massiccia e ripresa dell’intervento statale diretto in economia non possono neanche essere concepiti senza lo scardinamento dei vincoli di bilancio europeo e senza il superamento delle normative europee. Ciò, a sua volta, richiede il superamento della integrazione valutaria, chiave di volta dell’integrazione europea. L’integrazione valutaria è stata lo strumento principale per l’applicazione delle politiche neoliberiste e la riorganizzazione dello sfruttamento capitalistico in Europa. Ciò è avvenuto, in primo luogo, spostando il centro del controllo sulle scelte economiche e sui bilanci pubblici dai parlamenti nazionali a organismi sovrannazionali. In secondo luogo, favorendo, mediante l’introduzione di cambi fissi, l’applicazione all’area euro del modello mercantilista tedesco, basato sull’export di merci e capitali, sulla riduzione del salario diretto e indiretto (welfare) e sulla contrazione della domanda interna. Fuoriuscire dall’euro, reinternalizzando le funzioni statali delegate alla Bce e alla Commissione europea, non significa cedere al nazionalismo. È, invece, proprio l’euro ad aver resuscitato il nazionalismo e la xenofobia, incrementando il divario economico tra Stati e i divari sociali all’interno di essi. Uscire dall’euro significa rendere di nuovo disponibili gli strumenti di contrasto alla crisi, come il controllo sulla valuta e l’acquisto di titoli di Stato, insieme al ruolo di prestatore di ultima istanza, da parte della Banca d’Italia. Uscire dall’euro significa restituire alla classe lavoratrice condizioni più favorevoli per lottare nel proprio Paese, ristabilendo le condizioni materiali per un nuovo ed effettivo internazionalismo. Significa, in sintesi, ristabilire le condizioni per praticare la sovranità popolare e democratica, mettendo in atto lo spirito della Costituzione italiana. Proprio perché siamo in un epoca di internazionalizzazione della produzione e di mobilità dei capitali, che riducono la capacità di lotta del movimento operaio, sarebbe assurdo continuare a consentire alla classe capitalistica transnazionale pieno campo libero anche sul piano politico-istituzionale.

c) La contrazione della base produttiva domestica e la crisi della globalizzazione accentuano, conseguentemente alle tendenze economiche espansive, la tendenza imperialista e alla guerra dei Paesi europei. La lotta contro l’imperialismo e contro la tendenza alla guerra è uno dei punti principali all’ordine del giorno. Una guerra che si combatte su più livelli e che vede protagonisti potenze globali e regionali in un intreccio d’interessi contraddittorio e plurale. Si delinea cionondimeno una frattura principale: quella tra le economie emergenti (Cina in primo luogo) e il capitale euro-atlantico, che è pur attraversato da fortissime tensioni interne (Ue vs Usa e tra gli stessi paesi Ue). Il terrorismo è prodotto anche delle guerre per procura scatenate dall’imperialismo occidentale nel tentativo di arginare gli emergenti. La lotta contro la tendenza alla guerra è tanto più efficace quanto più è condotta sul piano materiale, cioè contrastando la tendenza alla contrazione della base produttiva domestica e soprattutto la tendenza al crollo della domanda interna e quindi scardinando l’austerity e l’architettura dell’euro. In tale contesto, va definita una proposta non “moralistica” nei confronti dei grandi fenomeni migratori che crisi e guerra hanno innescato. La guerra tra poveri si combatte non solo invocando la solidarietà ma ponendo sul tappeto proposte materiali universali che rispondano all’imponenza del fenomeno e che producano risposte in termini di sicurezza sociale per indigeni e migranti. Va evidenziata la contraddizione tra l’esigenza oggettiva del Capitale di avere disponibile forza-lavoro migrante e i vincoli economici che rendono l’accoglienza insostenibile per migranti ed indigeni.

d) Tutto questo pone la questione della natura non neutrale dello Stato, della sua forma e del rapporto che i comunisti devono avere con esso. Infatti, lo Stato non può più essere inteso come la stanza dei bottoni in cui entrare e da cui poi magicamente modificare la realtà. Lo Stato è una macchina burocratica organizzata per la difesa dei rapporti di produzione capitalistici, che, nel migliore dei casi, può realizzare una mediazione momentanea favorevole alle forze antagoniste al capitale. Dunque, non è possibile mettere in discussione i rapporti di produzione e introdurre programmazione economica e elementi di pianificazione senza porsi nella prospettiva di condizionare prima, e poi in prospettiva, trasformare internamente lo Stato stesso, mediante una pressione dall’esterno, cioè da parte del movimento di lotta complessivo. Le vicende della Grecia di Tsipras ci dimostrano che vincere le elezioni e conquistare il governo non equivale a conquistare il potere effettivo.

e) Siamo, quindi, arrivati alla politica. Il recupero di una prospettiva politica strategica e di ampio respiro è la precondizione anche per l’ottenimento di risultati parziali e tattici, di riforme anche limitate che migliorino le condizioni dei lavoratori dopo tanti arretramenti. La lotta politica è ricomposizione delle lotte parziali –  economiche, sociali, per la pace, ecologiche, di genere  – in una dimensione complessiva di critica alla classe capitalistica nel suo complesso e allo Stato al fine di costruire rapporti di forza migliori tra capitale, da una parte, e lavoro salariato e classi subalterne, dall’altra all’interno di un percorso di trasformazione generale dei rapporti di produzione e sociali in senso socialista.

 

  1. Il Partito della Rifondazione Comunista e la sinistra in Italia

Per il Partito della Rifondazione Comunista sotto il profilo strategico il socialismo deve tornare ad essere un obiettivo dichiarato e non una suggestione culturale a cui richiamarsi. Il terreno della rappresentanza, unica bussola che purtroppo ha orientato la sinistra nelle scelte politiche degli ultimi venti anni, deve essere concepito come una parte dell’azione politica. Non può certamente essere il tutto, ma d’altra parte non si può pensare di delegarlo ad altri sic et simpliciter. In Europa anche le esperienze più unitarie a sinistra, in cui siano presenti i comunisti, vedono un perno: il partito comunista. Queste stesse esperienze altresì dimostrano, nel bene o nel male, che non è di per sé la forma a determinare la bontà di un progetto, bensì i contenuti della proposta politica a cui la forma è dialetticamente conseguente. Ciò che deve essere chiaro è il mantenimento di un ruolo politico complessivo dei comunisti, perché indispensabile alla costruzione di una strategia di cambiamento e trasformazione. Il partito comunista, dunque, deve rimane il soggetto agente e organizzato della politica. Esso non può essere ridotto a mero strumento della rappresentanza, né tantomeno deve essere relegato a luogo di mera riflessione ideologica, delegando ad altri soggetti organizzati il ruolo della politica. Il partito è sintesi di tutto ciò e in questa direzione va costruito: il partito è quindi sintesi di tattica e strategia.

In questo senso il Partito della Rifondazione Comunista pratica contestualmente l’obiettivo di rilanciare la formazione di un Partito comunista adeguato al XXI secolo e allo stesso tempo di costruire le condizioni per realizzare una coalizione a sinistra in grado di sostenere lo scontro politico nel Paese ed essere riferimento largo dei percorsi di unificazione delle lotte parziali. Tale coalizione deve tenersi assieme e delimitare il suo perimetro a partire da proposte chiare e condivise. Non è sufficiente un mero richiamo “morale” all’unità della sinistra, è necessario un confronto pubblico sui contenuti e sul posizionamento politico, scegliendo i vincoli politici e programmatici che tengano assieme la coalizione. Tale proposta va rivolta ai soggetti politici concretamente esistenti, ai movimenti, alle realtà sociali e alle personalità che sono a sinistra del Pd, senza preclusioni settarie, ma a patto che condividano i contenuti per noi discriminanti e ineludibili.

1) L’alternatività al Partito Democratico e la indisponibilità a qualsiasi forma di alleanza o desistenza elettorale con questo partito.

2) La rottura dell’unione monetaria europea, incompatibile con la Costituzione nata dalla Resistenza, e la ricostituzione e allargamento della sovranità democratica e popolare, mediante la riconduzione sotto il controllo degli stati nazionali dei gangli vitali della vita economica dei singoli paesi.

3) Il superamento delle politiche esclusivamente redistributive e la costruzione di una critica materiale ai rapporti di produzione capitalistici, mediante politiche massicce di investimento statale e l’allargamento del perimetro dell’attività produttiva e bancaria pubblica (ripubblicizzazioni) allo scopo di creare posti di lavoro e di introdurre elementi di programmazione economica.

4) Il rifiuto italiano alla partecipazione alle missioni militari della NATO, vero braccio armato degli interessi transnazionali euro-atlantici. L’esistenza stessa della NATO ha perso qualsiasi giustificazione e va sostituita con alleanze internazionali, adeguate alla nuova fase storica e funzionali a un ruolo di stabilizzazione e pacificazione internazionale dell’Italia. Tale approccio è indispensabile per affrontare in maniera razionale le diverse questioni aperte nello scenario mondiale. La stessa questione del terrorismo internazionale va, infatti, inserita nella dinamica complessa dello scontro tra potenze mondiali e regionali, accanto alla disastrosa politica d’integrazione dei migranti che i Paesi d’approdo hanno e stanno mettendo in campo.

5) Rispondere alla contraddizione tra flussi migratori e impoverimento complessivo delle popolazioni residenti mediante la rottura dei vincoli di bilancio statali che impediscono di costruire risposte in termini di welfare e soprattutto di creare occasioni di lavoro per indigeni e migranti.

Tale approccio richiede uno sforzo di riorganizzazione e di profonde trasformazioni del modo di essere del Partito. E’ necessario prendere atto dell’indebolimento numerico e del peso “sociale” del partito. Così come è necessario prendere atto dell’assenza di un pensiero forte condiviso. A partire da queste semplici constatazioni il PRC deve impegnarsi a costruire un percorso di autoformazione ed una politica di reinsediamento sociale e sindacale, che può avvenire solo se, in quanto Partito, agisce e orienta con continuità i propri iscritti e militanti. Se si connette la proposta politica con l’azione concreta. Se la presenza nelle lotte parziali diviene lievito e concretizzazione della necessità di unificazione attorno agli obiettivi generali che il partito si dà. Se lo stesso lavoro di aggregazione che i compagni praticano, ad esempio sul terreno del mutualismo, rientra all’interno di un progetto generale. Se non si riesce a fare tutto ciò, il partito rimane una somma e non una sintesi delle sue articolazioni organizzative, determinando un’assoluta impercettibilità del senso della sua azione. Solo con la definizione di un profilo chiaro, di un’organizzazione adeguata alle attuali forze e costruita attorno alle sue potenzialità, e di una capacità di orientare ad un unitaria dialettica tra teoria, dibattito politico e prassi è possibile aprire il partito in maniera efficace a percorsi politici funzionali a rimettere all’ordine del giorno la questione della trasformazione politica e sociale in Italia ed Europa.

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