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ilpungolorosso

Riparte il movimento delle donne, internazionale e di massa

di redazione “Il cuneo rosso”

632327964.0E’ davvero difficile sopravvalutare l’importanza della giornata mondiale di lotta dell’8 marzo 2017 proclamata dal movimento delle donne dell’Argentina e degli Stati Uniti e la sua evidente valenza internazionalista – specie in tempi come questi di crescenti intossicazioni nazionaliste di destra e di funesto nazionalismo di sinistra.

È altrettanto importante che questo magnifico appello a scioperare, manifestare, protestare, venga sull’onda di mobilitazioni di massa, talvolta molto imponenti, con centinaia di migliaia di manifestanti (non solo donne), avvenute nei mesi scorsi nel Nord e nel Sud America, in Polonia e in Sud Corea, in Irlanda, in Italia e altrove. I documenti che hanno promosso questo evento internazionale, inoltre, anche questo è notevole, hanno preso nettamente le distanze in modo polemico dal ‘femminismo delle donne in carriera’, in nome di un “femminismo del 99%” delle donne, che fa riferimento alle lavoratrici del mercato formale, alle donne che lavorano nella sfera della riproduzione sociale e della cura, alle donne disoccupate, alle donne precarie. E hanno annunciato un nuovo movimento femminista internazionale caratterizzato da “un’agenda inclusiva allo stesso tempo anti-razzista, anti-imperialista, anti-eterosessista, anti-liberista”.

In questo modo l’8 marzo, da giorno istituzionale dei rametti di mimosa avvolti nel cellophane, dei rituali inchini alle ‘regine di un solo giorno’, è ricondotto al suo autentico significato storico: giornata di lotta, di sciopero, di auto-attivazione delle donne contro tutti i meccanismi, i contesti, i poteri che pesano sul loro lavoro domestico ed extra-domestico e sulla vita della grandissima maggioranza di loro.

Negli Stati Uniti, una forte spinta alla mobilitazione l’ha data l’elezione di quel bel campione del suprematismo maschile, bianco e miliardario che è Trump, e l’ha ingrandita anche la necessità degli sconfitti democratici e delle galoppine di Killary Clinton e del suo ‘femminismo’ imperialista, di cavalcare furbamente e cercare di capitalizzare il diffuso sentimento anti-Trump.

Ma si farebbe un grave torto alle piazze statunitensi del 21 gennaio se non si cogliesse che il loro messaggio è andato molto al di là di questo. Pur in un quadro eterogeneo e non privo di aspetti e presenze respingenti, da quelle piazze è arrivata la denuncia di una stretta in atto sulle donne di tipo patriarcale (sia del patriarcalismo individuale che di quello collettivo) insieme con il chiaro invito alla lotta al razzismo e all’islamofobìa (qui da noi praticamente assente ovunque, specie all’estrema sinistra), e con la denuncia, nelle frange più radicali, del sistema capitalistico in quanto tale.

Vi sembra poco che le promotrici dell’8 marzo negli Stati Uniti dichiarino di “prendere ispirazione dalla coalizione argentina Ni Una Menos” e dalla sua vibrante denuncia delle molte facce della violenza contro le donne: “violenza domestica, ma anche violenza del mercato, del debito, dei rapporti di proprietà capitalistici e dello stato”, e delle molte forme delle politiche discriminatorie e repressive contro le differenti figure di donne? Certo, in Sud America le forze socialdemocratiche disarcionate dal ritorno al potere delle destre ultra-reazionarie hanno l’interesse a dare una sponda momentanea alla ripresa di quelle mobilitazioni che quando erano al governo, avevano cercato in ogni modo di contenere. Ma l’ampiezza e il fuoco delle dimostrazioni argentine nate per rivolta contro il feroce assassinio di Lucía Pérez, lo sciopero del 19 ottobre contro la violenza patriarcale e la sua sotto-struttura materiale, il primo sciopero delle donne nella storia del paese, hanno manifestato una forza che sarà difficile disperdere con i giochini elettorali. Perché esprime un profondo bisogno di masse di lavoratrici, giovani e meno giovani, di tornare a essere protagoniste e artefici del proprio destino, nella società e dentro le mura domestiche, e il rifiuto istintivo, più o meno sistematizzato, delle compatibilità strangolatorie del sistema capitalistico.

Sotto queste eruzioni, e dietro la ricomparsa del movimento delle donne in Polonia e in Sud Corea, ci sono quarant’anni di arretramento delle condizioni delle donne, in particolare delle donne che vivono del proprio lavoro. Ci sono decenni di politiche neoliberiste, a cui si sono sommati gli effetti della crisi e delle misure adottate per contrastarla, radicalmente anti-proletarie e sessiste.

L’arretramento è avvenuto su tutti i fronti, a cominciare dal lavoro. Le donne sono state ovunque le più colpite, anche se in maniera differenziata nei paesi del Nord e del Sud del mondo. Nel Nord del mondo, la crisi ha colpito in maggior misura inizialmente la forza lavoro maschile con i milioni di licenziamenti nell’edilizia e nell’industria manifatturiera, ma i tagli della spesa pubblica imposti dai governi negli ultimi 5-6 anni hanno colpito soprattutto i posti di lavoro e i salari in ambito pubblico, dove la maggioranza della forza lavoro è costituita da donne.

Nel Sud del mondo, invece, la crisi ha gonfiato fin da subito la disoccupazione femminile nei settori votati all’export come il tessile, con la chiusura di migliaia di piccole e medie imprese che impiegavano soprattutto donne. E se e dove l’occupazione femminile ha resistito all’impatto della crisi, è stato sostanzialmente perché le condizioni standard del lavoro femminile corrispondono alle condizioni ideali che il capitale vorrebbe imporre all’intera forza lavoro globale: massima precarietà, salari più bassi, alto grado di disciplinamento a causa della maggiore ricattabilità. Non è a caso se a seguito della crisi gli uomini si vedano imporre sempre più spesso condizioni e contratti un tempo appannaggio quasi esclusivo di donne, giovani e immigrati come il part-time involontario o i contratti a tempo determinato.

D’altra parte le misure di “austerity” e i tagli alla spesa pubblica, tanto nel Nord che nel Sud del mondo, hanno prodotto la chiusura o il ridimensionamento di quei servizi – asili, mense scolastiche gratuite o a prezzi calmierati, strutture di cura per gli anziani…- che dovrebbero permettere alle donne di conciliare il lavoro extra domestico e il lavoro domestico. Così la giornata lavorativa effettiva delle donne si è ulteriormente allungata, con ovvie conseguenze sulla salute e sul tempo che le donne possono dedicare a se stesse.

I governi hanno preso queste misure sapendo perfettamente che il lavoro di cura, finalizzato alla riproduzione quotidiana e di lungo periodo della forza lavoro sfruttata, sarebbe ricaduto in massima parte sulle spalle delle donne – soprattutto delle donne proletarie, che riescono a delegare solo una minima parte del carico del lavoro domestico e di cura ai propri mariti/compagni/figli, e non hanno i mezzi economici per ‘emanciparsi’ da queste fatiche delegandole alle lavoratrici immigrate. Senza parlare delle riforme dei sistemi pensionistici, che non tengono conto del doppio carico di lavoro delle donne, e stanno anzi colpendo duramente i settori della forza lavoro più precari e con i redditi più bassi, in cui le donne sono la maggioranza. Alla faccia delle pari opportunità e delle menate istituzionali e del ‘femminismo’ di stato sull’empowerment femminile!

A tutto questo si sono accompagnati attacchi a catena ai diritti riproduttivi a livello internazionale. Come in Polonia, dove lo scorso autunno solamente la mobilitazione di decine di migliaia di donne ha impedito la cancellazione del diritto di aborto, che era già stato drasticamente limitato ai soli casi di stupro e di grave malformazione del feto. Come in Italia, dove l’applicazione della legge 194 è disattesa in molti ospedali pubblici, a causa dell’obiezione di coscienza di medici interessati più a far carriera in uno stato neo-confessionale che a garantire il rispetto dei diritti riproduttivi delle donne, e la rete di consultori familiari è sempre più sottodimensionata a causa dei continui tagli della spesa sanitaria pubblica e dell’avanzare di un modello sempre più incentrato sulla medicalizzazione della salute femminile e sulla privatizzazione della sanità.

Proprio questo contesto di violenza economica e istituzionale, di crescente femminilizzazione dello sfruttamento e della povertà – sostengono con piena ragione le femministe argentine – ha aumentato “la vulnerabilità delle donne di fronte alla violenza di genere, di cui l’espressione estrema e più aberrante è il femminicidio”. Gli uomini, infatti, continuano a godere di una posizione di privilegio, che riproduce entro le mura domestiche, e molto spesso anche sui posti di lavoro, quelle relazioni di oppressione, di mercificazione e di violenza patriarcalista che li fanno sentire un po’ meno “schiavi” e perfino un po’ “padroni”, senza accorgersi che le catene imposte alle donne incatenano anche loro stessi a un medesimo destino di sfruttamento e violenza.

La giornata internazionale di lotta dell’8 marzo 2017 è una prima, molto significativa risposta a questa aggressione a trecentosessanta gradi alle donne e ai diritti conquistati da loro in più di 150 anni di lotte. Ed è la migliore delle premesse per la sua prosecuzione e radicalizzazione, un contributo e un pungolo all’intero movimento proletario, oggi assente dalla scena internazionale, a ritornare in campo ritrovando la sua energia e il suo programma rivoluzionario anti-capitalista. Al di là della varietà e contraddittorietà dei contenuti che in essa si sono espressi, ci sentiamo interamente parte di questa mobilitazione perché esprime una genuina volontà di reagire allo sfruttamento, alla oppressione, alla violenza di genere che coinvolge moltissime giovani donne, una rinnovata fiducia in se stesse e non nelle istituzioni, un impegno di auto-organizzazione, e il rifiuto quanto meno istintivo delle compatibilità del sistema.

Questo vento internazionale di riscossa delle donne è arrivato anche in Italia, nello scorso autunno, con la affollata manifestazione di Roma, cui hanno fatto seguito delle partecipate assemblee a Roma e a Bologna. In queste occasioni sono stati ripresi alcuni temi fondamentali della lotta che si sta sviluppando a livello internazionale: la denuncia della violenza di genere, con l’indicazione dell’auto-attivizzazione delle donne attraverso i centri anti-violenza sparsi sul territorio; la denuncia della continua erosione del diritto di auto-determinazione della maternità e di abortire in sicurezza; la denuncia del sistema securitario che discrimina le donne immigrate, con la richiesta di un permesso di soggiorno incondizionato per tutte e dello ius soli; lo sviluppo della critica delle  relazioni di potere fra i generi e l’opposizione a qualsiasi forma di discriminazione fondata sugli orientamenti sessuali degli individui.

Come è successo anche in passato, in Italia e altrove, se è percepito a livello di massa l’aggravarsi della condizione delle donne su più piani, sono presenti, accanto a questi contenuti, troppe illusioni sulla possibilità di cambiare la condizione delle donne per via giuridica e parlamentare (è del tutto evidente oggi, dopo quarant’anni dalla legge sull’aborto, che in assenza di un movimento in piedi, i diritti e le leggi vengono tranquillamente cancellati). Allo stesso modo le richieste del “reddito di auto-determinazione” e di un “salario minimo europeo” appaiono come delle richieste minimaliste affidate alle istituzioni borghesi (sovranazionali, nazionali o sub-nazionali che siano) e rinchiuse nel perimetro europeo, proprio mentre arriva dalle Americhe un forte appello alla lotta, a esigere “il pane e le rose”, e ad internazionalizzare la lotta al di là di tutti i confini nazionali e continentali. Insomma, c’è tanta strada ancora da fare, e non può essere diversamente, se si ha presente lo stato politico complessivo della classe lavoratrice, qui in Italia e non solo.

Rispetto al movimento dei decenni passati, inoltre, la presenza delle donne immigrate dovrebbe avere un ruolo decisamente centrale. La loro inclusione nel movimento dovrebbe essere un obiettivo primario, poiché si tratta delle donne più oppresse e sfruttate sotto molteplici punti di vista: su di loro si concentrano il razzismo, il sessismo, l’islamofobia, le discriminazioni (se e quando non abbracciano i costumi occidentali), lo sfruttamento e l’abuso del loro corpo attraverso la coazione alla prostituzione, oltre alla condizione di lavoro precaria, sottopagata e vissuta nell’isolamento dei lavori di cura delle persone e delle case. L’orrendo trattamento che queste donne subiscono nei passaggi delle frontiere, nei centri di detenzione, in un’“accoglienza” fatta con metodi securitari non costituisce – come si sente dire – una limitazione al loro “diritto di migrare”, quanto invece una precisa politica di terrore e addomesticamento nei confronti di chi, donne e uomini, è costretto ad emigrare per le stranote ragioni economiche e politiche, per forzarli, una volta sopravvissuti, ad accettare di essere privati di ogni libertà e diritto.

Giustamente i punti programmatici usciti dalle assemblee di Roma e Bologna cercano di sfuggire al vittimismo e rifiutano la commiserazione con cui spesso si trattano le donne; ma questa stessa attitudine deve valere anche, e a maggior ragione, per le donne immigrate e del Sud del mondo, protagoniste spesso nei loro paesi di lotte sociali e politiche memorabili: si pensi all’India, ai tanti scioperi delle operaie della Cina e del Bangladesh, alla partecipazione di massa delle donne tunisine e egiziane all’insorgenza araba del 2011 (ricordiamo in particolare la grande manifestazione al Cairo contro l’aggressione e la violenza poliziesca nei confronti di una manifestante).

In questa sua ripresa a livello internazionale, che riecheggia la stagione della Marcia Mondiale delle donne del 2000, il movimento delle donne offre a tutte coloro che si stanno mobilitando una straordinaria visione di insieme della condizione femminile, che porta con sé la necessità di risalire alle cause comuni di una oppressione comune, anche se con gradi e modalità diverse. La scelta di ricorrere all’arma dello sciopero produttivo e riproduttivo, il coinvolgimento di tante donne immerse in una realtà lavorativa sempre più massacrante e precaria, l’entrata in sciopero di alcune fabbriche, che si annuncia effettiva almeno in tre-quattro regioni del Nord, portano con sé la necessità di sviluppare sempre più a fondo la critica di genere e di classe insieme ai rapporti sociali di produzione e di riproduzione propri del capitalismo.

E proprio su questo si dovrebbe, si dovrà aprire un confronto che non riguarda il solo movimento delle donne ma l’intero campo degli sfruttati, sulla radice ultima e unitaria di tutte le forme di oppressione; sulla necessità di batterci insieme salariate e salariati, lavoratrici e lavoratori, contro le ferree leggi della competizione capitalistica che ci separano e di continuo ci contrappongono gli uni agli altri; sulla necessità di dotarci di una politica di scontro con le compatibilità capitalistiche, economiche e politiche, di una politica di ricomposizione del fronte degli oppressi, che ci proietti insieme, proletarie e proletari di tutti i paesi uniti, verso un nuovo assalto al cielo!

La giornata di sciopero internazionale delle donne proclamata per l’8 marzo 2017, che rilancia dal basso e in senso internazionalista il protagonismo e l’autorganizzazione del movimento delle donne, ci incoraggia e ci sprona a procedere con decisione su questa strada!

Marghera, 7 marzo 2017
La redazione de “Il cuneo rosso” – com.internazionalista@gmail.com

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