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La sindrome di Drew Barrymore

Militant

Nel 2004 uscì nella sale di mezzo mondo una commediola hollywodiana dal titolo: 50 volte il primo bacio. Nel film (se non l’avete visto non vi siete persi davvero niente) la protagonista Drew Barrymore ogni giorno dimenticava quello che era successo il giorno precedente ed era costretta a ricominciare da capo la relazione con l’altro protagonista, Adam Sandler. Magari sbaglieremo, però da tempo la sinistra italiana quando si tratta di questioni internazionali ci sembra afflitta in forma cronica da quella che potremmo ormai definire con accuratezza quasi scientifica la “sindrome di Drew Barrymore”, un disturbo mnemonico che si manifesta attraverso la perdita della memoria breve e che ha, fra i suoi sintomi, la coazione a ripetere sempre le stesse azioni senza acquisirne esperienza.

Pensiamo nello specifico a come è stata affrontata la crisi libica. Nonostante dovremmo essere ormai avvezzi ad alcune operazioni di “regime change”, si è voluto per forza leggere quanto stava avvenendo a Tripoli e Bengasi adoperando la chiave interpretativa utilizzata in Egitto e Tunisia, trascurando il fatto che ognuna di queste rivolte aveva (ed ha) una grammatica sociale e politica propria, indipendente e non sovrapponibile.

Oggi il Corriere della Sera riprendeva le affermazioni di Abdelkader Kadura, un professore  di Diritto dell’università di Bengasi considerato un punto di riferimento tra i quadri dirigenti degli insorti che in merito ai facili parallelismi con i paesi confinanti dice: “in entrambi le dimissioni di Ben Ali e Mubarak non hanno provocato l’eclissi dello Stato. L’esercito e l’amministrazione pubblica in qualche modo hanno tenuto. Ma la Libia è un caso del tutto diverso”.  E ancora “la rivoluzione sta diventando sempre più una guerra civile con forti venature tribali. C’è una forte possibilità di una divisione permanente del Paese. Storicamente le regioni orientali della Cirenaica e Bengasi sono legate all’Egitto. Quelle occidentali che fanno capo a Tripoli vertono invece sulle culture berbere del Maghreb. Il gioco resta aperto". Jalal el Gallal, portavoce del Consiglio Nazionale di Bengasi dice a bassa voce: “Semplicemente non si vuole ammettere che ci siano libici pronti a morire per il Colonnello. Esattamente come noi ci sacrifichiamo per eliminarlo. Alla fine potremmo scoprire che i suoi mercenari africani sono molto meno rilevanti e numerosi di quanto propagandassimo”. Quindi non c’è una piazza (o una moltitudine reticolare) che assedia il palazzo del potere, in Libia questa lettura (a nostro avviso semplicistica anche per quel che riguarda Egitto e Tunisia) non regge. C’è un regime dispotico che da tempo ha perso il consenso interno e che sembrerebbe essersi  fratturato lungo la faglia che da sempre separa tribù, clan e aree geografiche del Paese. Questo spiegherebbe almeno in parte lo stallo attuale e l’insurrezione a macchia di leopardo che ormai tutti gli osservatori quotidianamente registrano.

Riproponendo pedissequamente schemi interpretativi (leggi) che la storia degli ultimi dieci anni s’è presa ripetutamente la briga di smentire si rischia di reiterare una serie di errori in cui si era già incappati altre volte e di cui abbiamo parlato altrove (leggi), neanche fossimo in una sorta di gioco dell’oca. E tutto questo nonostante che quello che abbiamo di fronte ormai possa essere analizzato come un vero e proprio Format, tanto da far venire a chi scrive il dubbio che possa essere stato partorito dai tipi della Endemol; si tratterebbe in tal caso del primo “reality politik” del nuovo decennio: “Il grande Colonnello”. Come in ogni Format che si rispetti si inizia sempre da un casting accurato. Serve un impresentabile, un dittatore, qualcuno inviso a buona parte della popolazione del suo Paese e che nell’opinione pubblica mondiale susciti sdegno e riprovazione. E’ indubbio che Gheddafi abbia il physique du rôle.

Il secondo step, importantissimo, è la scelta della location. Perché se il suddetto dittatore sta seduto su un pezzo di terra senza alcun interesse geopolitico non fa share, se poi sta addirittura dalla nostra parte allora non se ne parla proprio. Come disse una volta Roosevelt parlando di Somoza: sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana. Molto meglio se invece siede su qualche riserva di combustibili fossili, se possiede qualche risorsa idrica oppure se occupa uno snodo importante nel crocevia di un qualche corridoio energetico (già esistente o da costruire). In tal caso il prescelto può finalmente  aspirare al ruolo di protagonista e si provvede prontamente ad elevarlo al ruolo di piccolo Hitler, mentre il suo esercito per quanto sgangherato diventa di colpo “feroce” e “temibilissimo”. A questo punto il dittatore di turno dovrà iniziare a macchiarsi di nefandezze inenarrabili e lo farà attraverso un crescendo rossiniano:  stupri casa per casa, milizie assetate di sangue, bombardamenti sui civili, migliaia di morti riversi per le strade, armi biologiche, fosse comuni. Gli autori (di notizie) non si fanno mai mancare nulla. Questa è la parte del copione che potremmo chiamare “la demonizzazione”, e il bello è che non importa affatto che tutto questo sia vero, è sufficiente che sia verosimile e che prosegua fino a quando il pubblico stremato non arrivi a dire: ora basta, non se ne può più, fermatelo! Già, fermatelo, fermate il mostro, fermate il dittatore. Fin qui tutti d’accordo. Dopo di che si prepara l’epilogo con l’immancabile arrivo dei nostri, o meglio, dei loro.

E in tutto questo la sinistra italiana cosa fa per l’ennesima volta ormai da anni? Rinuncia ad analizzare gli eventi, non prova nemmeno ad interpretare quello che sta accadendo e magari a tradurlo in un altro punto di vista che non sia quello delle classi dominanti. Insomma, abdica al proprio ruolo di intelligenza critica e finisce inevitabilmente con l’accodarsi. Magari per paura di essere accusata di collateralismo col dittatore, com’era accaduto sia con Milosevic che con Saddam Hussein, o più semplicemente perché da troppo tempo ha perso l’orientamento. Il piccolo cabotaggio può bastare solo quando si vede ancora la costa, ma quando il cielo si riempie delle nubi della disinformazione e le stelle sono coperte, per mantenere la rotta in mare aperto servono degli strumenti precisi. Magari proprio quelli che da qualche anno sono stati buttati a mare perché considerati una zavorra “novecentesca”.

Pensiamo solo un attimo alla scelta delle parole d’ordine. “Fermiamo i massacri”, è stato questo lo slogan che ha fatto da minimo comun denominatore alle mobilitazioni di questi giorni. Era scritto sugli striscioni, la recitavano i manifesti dei partiti e l’hanno ripresa decine di riviste e di blog. Per carità, una parola d’ordine sempre giusta, ci mancherebbe, ma assolutamente fuori centro rispetto alla situazione reale. Primo perché almeno fino ad ora i massacri descritti dai media nei primi giorni non ci sono stati, e speriamo che non ce ne siano nemmeno in futuro. Si legga a proposito cosa scriveva venerdì scorso Lorenzo Cremonesi sulle pagine del Corsera, un giornale che non è certo tacciabile d’essere la “Gazzetta del Rais”: “Sono immagini che bastano da sole per descrivere l’aspetto per ora molto limitato di questa guerra. Per quello che possiamo capire, si combatte per lo più attorno alle grandi arterie di circolazione. I danni restano circoscritti. Morti e feriti pare siano al momento relativamente pochi. Sebbene dopo ogni scontro di una qualche rilevanza popolazione e combattenti denuncino metodicamente massacri in grande stile, violazioni gravi dei diritti umani e violenze di ogni tipo. Difficile distinguere propaganda da realtà“. Secondo poi perché quella parola d’ordine pone implicitamente una domanda che una volta evocata non può restare a lungo senza risposta. Visto che la società civile per quanto indignata, e per quante ambasciate assalti, non dispone dei mezzi per “interrompere il genocidio” (affermazione testuale della senatrice del PD Roberta Pinotti durante la puntata de “L’ultima parola” di venerdì 25 febbraio), chi mai li dovrebbe fermare questi “massacri”? Chi dovrebbe realizzare i “corridoi umanitari”? Chi dovrebbe “garantire i diritti umani”? Forse la portaerei nucleare USS Enterprise, che dal golfo di Aden si è spostata davanti alle coste libiche? Oppure la nave anfibia da sbarco USS Keasarge con a bordo elicotteri da attacco e 2000 marines? Stando a quello che ormai dichiarano quotidianamente Obama, il ministro della difesa USA Gates, i portavoce della NATO e militari vari interpellati dai cronisti dovremmo pensare che potrebbe e dovrebbe essere proprio così. E la “No Fly Zone”? Chi dovrebbe imporla per impedire che Gheddafi torni a (non)bombardare i civili? La risposta a questa domanda ci porta dritti dritti all’altra parola d’ordine tanto in voga in questi giorni: “annullare il trattato d’amicizia Italia-Libia”. Anche qui, la richiesta è sicuramente giusta, stiamo parlando di un despota che ha allestito campi di concentramento per migranti, ma è sollevata quantomeno in un momento poco opportuno. Perché il decadimento di quell’accordo, cosa che è già avvenuta di fatto come ha sottolineato il ministro La Russa qualche giorno addietro, rimuove ogni ostacolo anche solo formale all’utilizzo delle basi aeree del sud Italia per operazioni militari sul suolo libico (leggi).

C’è poi l’altra parola d’ordine, “Libia Libera”, un altro degli slogan che è andato per la maggiore in queste ultime ore. E anche in questo caso come si fa a non essere d’accordo in linea di massima con questa richiesta, ma poi bisogna calarla nella concretezza della realtà. Cosa potrebbe accadere con la caduta di Gheddafi? Verrà eliminato solo il dittatore e i suoi sgherri o verrà liquidato l’intero sistema sociale libico? E se sì, per fare posto a cosa? Per ritornare alle idee anticolonialiste, panarabe e socialisteggianti del 1969, oppure per tornare ancora più indietro, al regno di Idris e al suo stato fantoccio? E ancora: chi sono gli insorti? Rappresentano l’intera popolazione, le classi subalterne, le masse arabe, i giovani urbanizzati, oppure vogliono ridefinire nuovi rapporti di forza tra le 130 tribù libiche? Cosa vogliono nel concreto, che idea di società hanno in mente, qual è il loro programma? Non sono domande peregrine visto che una parte consistente degli insorti inizia a chiedere sempre più apertamente i raid aerei della NATO. La presenza di consulenti militari occidentali sembrerebbe ormai molto di più di un’indiscrezione (leggi) tanto che perfino il servizio del TG1 di qualche giorno fa parlava candidamente di “facce non proprio libiche” ed è implicitamente confermata dalle dichiarazioni del primo ministro britannico David Cameron che parla di sostegno diretto allo sforzo bellico dei ribelli e con la Clinton che dice un giorno si e l’altro pure che gli USA stanno con la rivoluzione (la parola Clinton e la parola rivoluzione nella stessa frase è una cosa che mette i brividi). Ma anche perché altrimenti si finisce a manifestare insieme ai monarchici senza nemmeno rendersene conto, descrivendo in maniera quasi aulica il ragazzo che innalza la bandiera verde, rossa e nera. Non a caso qualche giorno fa Antonio Ferrari, sempre dalle pagine del Corriere della Sera, si chiedeva se non fosse addirittura auspicabile un ritorno della monarchia per garantire la tenuta dello nascente stato (leggi). Venerdì scorso, intervistato dallo stesso giornale Abdallah Abed Al Senussi, uno dei discendenti di Re Idris I fa capire che lui certamente “non si opporrebbe” ad una scelta del genere se fosse il popolo “a chiederlo”, aggiungendo poi: “Non posso prevedere nulla, so che Gheddafi ha cercato di cancellarci dalla storia della Libia ma 42 anni dopo i rivoltosi hanno issato la vecchia bandiera della monarchia e spesso hanno manifestato con la foto di mio nonno il re. Una scena commovente”.

Sarebbe stato possibile esprimere un maggior grado di autonomia? Senza dubbio sì. Sarebbe bastato andare a rileggersi i giornali di questi anni: Iraq, Jugoslavia, Serbia, Ucraina, Georgia, Kirghizistan, Iran, Venezuela, Bielorussia, Azerbaijan, Cuba, Bolivia… Ma in realtà sarebbe bastato anche solo sfogliare i giornali di questi giorni, perché pure se nascoste tra un mare di propaganda le notizie ci sono, soprattutto da quando sono arrivati i cronisti sul luogo. Però bisognava leggerseli mettendoli in controluce, bisognava incrociare le informazioni, sottoporle a verifica e utilizzare uno spirito critico che invece è mancato. Quest’ultimo dato è forse uno degli aspetti su cui dovremmo maggiormente riflettere se vorremo tentare di ricostruirci come intellettuale collettivo. Da tempo ormai i media mainstream hanno acquisito la capacità di imporci la loro agenda politica con una precisione degna di un orologiaio svizzero decidendo per cosa vale la pena mobilitarsi e per cosa no. In un commento ad un post di qualche giorno fa veniva fatto notare come non ci sia stata la stessa partecipazione quando si è trattato di manifestare contro il golpe in Honduras o contro il tentativo di golpe in Ecuador (leggi), eventi sicuramente meno cruenti ma non certo meno pericolosi. Qualche mese fa in Colombia è stata scoperta la più grossa fossa comune dell’America Latina (leggi), ma fatta eccezione per gli “addetti ai lavori” la strada di fronte all’ambasciata è rimasta deserta. Perché? Rispondere a questo interrogativo è tutt’altro che semplice e per provare a farlo avremmo bisogno di molto più tempo e spazio.

Sarebbe interessante però provare a cimentarsi in questo compito cercando di comprendere le ragioni per cui, a differenza di quanto è successo da noi, la sinistra latinoamericana è riuscita a sottrarsi a questo giochetto svelando e denunciando fin da subito e attraverso le sue voci più autorevoli le mire imperialiste che si stanno concentrando sulla Libia, senza per questo appiattirsi sull’indifendibile Rais. Fino ad arrivare alla proposta di pace del presidente Chavez che ha detto quello che avrebbero dovuto dire le Nazioni Unite (se non fossero un organismo pletorico) e il movimento di classe tutto: rispetto dell’autodeterminazione del popolo libico, no all’intervento militare NATO, costituzione di una commissione di pace internazionale e avvio dei colloqui per una soluzione negoziale del conflitto. E non ci si venga a raccontare che Fidel o Chavez hanno detto quello che hanno detto per ragioni di equilibrismi geopolitici. Chiudiamo questo post volutamente provocatorio con un’ulteriore provocazione: sarà forse per questa capacità di interpretare il presente che i compagni in America Latina negli ultimi anni hanno preso il potere in diversi Stati mentre noi non riusciamo neanche a prendere l’autobus nella direzione giusta?

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