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“Una formula di moda per edulcorare il nazionalismo”

Su Marco Bascetta

di Alessandro Visalli

folkert de jong 007Marco Bascetta è impegnato in una crociata, il cui effetto principale non può che essere di far restare la sinistra cui appartiene fuori della fase. Lenin ebbe a dire una volta che “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione[1], e che ci sono momenti in cui bisogna chiamare le cose con il loro nome.

Cosa è la “frase rivoluzionaria”? Semplicemente è la ripetizione di parole d’ordine senza tenere conto delle circostanze obiettive. La definizione è perfetta: “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente di altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’, continuo a leggere, “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva”. E, ancora, poco dopo, “se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”, ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via”[2] che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”[3]; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.

Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva[4].

Ora, cosa scrive il nostro eroico rivoluzionario, Marco Bascetta? In “Una formula di moda per edulcorare il nazionalismo”, su “Il Manifesto” del quattordici agosto 2018, prende avvio da un frivolo titolo agostano su “L’Espresso” per qualificare il termine ‘sovranismo’ come una vacua formula che si applicherebbe in un arco da “Mélenchon ai neonazisti”. L’attacco non è privo di tecnica: evocando in modo apparentemente descrittivo il mostro dei neonazisti, può proseguire scrivendo “in effetti” e quindi ascrivendo tutti i fenomeni al “nazionalismo”. Ma quali fenomeni? Ecco l’elenco: “le politiche identitarie, le contrapposte ‘priorità nazionali’, le diverse formule di ‘protezione etnica’, i cosiddetti ‘populismi’”. Un elenco incredibilmente eterogeneo, nel quale uno a fianco all’altro sono poste non meglio precisate ‘politiche’ basate sulla ‘identità’; lo scontro di ‘priorità nazionali’ (ovvero, semplicemente, l’intera politica internazionale, geopolitica per sua natura); le deleterie politiche di ‘protezione etnica’; e, infine, tutti i ‘populismi’.

Dopo un simile esercizio di confusione, intenzionale, Bascetta salta indietro di settanta anni ed evoca, dopo il nazismo anche la sua storia, citando di passaggio le sue “circostanze agghiaccianti”. E quindi si spende in una mostrificazione del termine stesso di ‘nazione’ (la cui unica alternativa concreta, per fare un’analisi precisa della situazione concreta, è l’impero), attribuendogli inevitabili implicazioni “aggressive, autoritarie e gerarchiche”. Evidentemente l’imperialismo non è gerarchico nel mondo di fantasia di questi grandi rivoluzionari.

Di seguito aumenta solo la confusione, perché Bascetta in modo diagonale riconosce che la difesa delle prerogative nazionali, e del relativo interesse (che chiama con formula dispregiativa “nazionalismo”) è normale per una nazione, ovvero per la Cina, l’India, il Venezuela e gli Stati Uniti, ovvero per tutti. Ma è invece un termine, il ‘sovranismo’, che trova senso solo entro l’Unione Europea.

Leggiamo:

“Diciamo che è una premessa o un primo passo verso l’’exit’ che consiste nel contrapporre l’interesse nazionale in quanto tale (non degli esclusi, dei lavoratori, dei precari, degli sfruttati o dei ceti medi impoveriti, ma della Nazione intesa come corpo omogeneo) non solo agli attuali squilibri e rapporti di forza, ma al progetto comunitario nel suo insieme. Progetto peraltro già bloccato e distorto proprio dalle sovranità nazionali europee in competizione fra loro per garantirsi, con ogni mezzo disponibile, il favore delle multinazionali e dei mercati finanziari. Ossia dall’antieuropeismo degli ‘europeisti’”.

Chiaramente questo modo di non argomentare, molto caratteristico del ‘politicamente corretto’[5], non consente di capire con quale posizione tra le innumerevoli evocate, stia in effetti polemizzando. Chi possa concepire “la Nazione intesa come corpo omogeneo”, tanto più venendo da una tradizione di analisi marxista, non è affatto chiaro, e non è chiaro cosa intenda, concretamente, per “il progetto comunitario nel suo insieme”, distinto da “gli attuali squilibri e rapporti di forza”. Sembra di capire che ci sia, nella fertile immaginazione di Bascetta, un “buon” progetto europeo, che è provvisoriamente “bloccato e distorto” dall’antieuropeismo degli europeisti.

Si tratta di un potente controfattuale, dato che il “buon progetto” è solo aerea letteratura, mentre lo sforzo concreto, ostinato e ferreo, delle sovranità nazionali europee (allo stato i soggetti realmente esistenti) di competere per l’attrazione delle risorse di potere è l’unica meccanica materiale sul terreno.

Qui la “frase rivoluzionaria”, insomma, domina.

Il nostro continua, dopo aver ribadito l’esistenza del sogno europeo che solo dei traditori neutralizzano, costruendo uno strano fantoccio facile da abbattere. Descrive infatti due “pilastri” del “sovranismo” di fantasia:

“Il primo è la maggiore libertà di spesa che, non volendo procedere ad alcuna redistribuzione della ricchezza entro i propri confini, muovendo anzi contro ogni principio di progressività fiscale, deve essere contesa solo all’Unione e trova il suo esito più radicale nel controllo sulla moneta, ossia alla fine dei conti, nell’uscita dall’Euro.

Il secondo consiste nel controllo sulla circolazione delle persone e sui diritti di cittadinanza. Compresi quelli dei cittadini dell’Unione che tornerebbero così ad essere ‘stranieri’, sia pure per il momento di serie A, con tutto ciò che ne consegue sul piano della libera circolazione, dell’accesso al lavoro, al welfare e allo studio. Inutile precisare che da un’evoluzione di questo tipo paesi come l’Italia avrebbero tutto da perdere. Non sarà dunque solo l’immigrazione extracomunitaria a patire la fine, per ora strisciante, degli accordi di Schengen”.

Il primo pilastro è chiaramente polemico con la proposta della Lega della ‘flat tax’, in questi termini è condivisibile, ma nell’arco da Mélenechon a tutti gli altri, passando per Podemos, il Labour, Aufstahen, le piccole formazioni italiane[6], che sono ascrivibili all’area della sinistra socialista o neo-socialista, appare ridicolo. Recuperare la possibilità di spesa, a vantaggio della domanda interna e dell’equità sociale, e per questo aumentare il controllo della moneta, gli appare comunque fuori discussione. Senza avvedersene il globalista Mascetta, dopo essersi ascritto al novero degli imperialisti, ora si propone direttamente come seguace di Hayek[7].

La seconda critica è una difesa del cosmopolitismo borghese in piena forma. Evidentemente gli stati nazionali democratici e costituzionali per Bascetta non possono controllare il loro primo requisito: la cittadinanza. Il “controllo sulla circolazione delle persone e sui diritti di cittadinanza”, ovvero ciò che in modo del tutto pacifico compiono tutti i duecento stati presenti all’Onu, è abominevole solo in Europa. Dato che se non c’è una cosa ci deve essere l’altra, evidentemente i diritti devono essere controllati ed indirizzati esclusivamente dal mercato. L’astrazione, le “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”, sono qui piene di sentimenti, di desideri, evocano meravigliosa indignazione, ma sono vuote di ogni altra cosa. Essendo vuote sono disponibili ad essere colonizzate dall’unico vero e reale potere gerarchico in campo: quello desiderato e perseguito da Hayek del mercato libero e sregolato.

Come scriveva Lenin, anche qui, è evidente la “paura di analizzare la realtà oggettiva” e il rifugio nelle magnifiche e bellissime favole (che sono incubi per troppi).

Purtroppo superare le difficoltà nel pensiero, nei desideri, non le fa scomparire.

Non basta dire “che questi controlli (della moneta e della circolazione) possano essere esercitati democraticamente è quanto di più improbabile e smentito dall’esperienza storica si possa immaginare”, perché ciò sia vero. L’esperienza storica è, viceversa, pienissima di controlli della moneta e anche della circolazione delle persone esercitati democraticamente, in Usa, in Inghilterra, in Canada, ovunque. La frase è semplicemente espressione di un tabù.

Ma nel seguito quel che Lenin chiamava[8] anarchismo piccolo-borghese emerge in piena luce. Bascetta in realtà attacca proprio lo Stato democratico e costituzionale, in nome di una presunta capacità “moltitudinaria” di autorganizzazione che è la forma travestita e pervertita del libero mercato nel quale si muovono individui isolati ed autocentrati di Hayek. Scrive, infatti:

“Il nazionalismo, nelle sue fasi embrionali o conclamate, fa appello al popolo ma agisce come stato. Stato forte incline alla repressione delle singolarità e di ogni processo di autorganizzazione. Che ha avuto, come sappiamo, versioni di destra e di sinistra. Omogeneità, stanzialità, concordia nazionale forzata sono i suoi imperativi.”

Ovviamente ognuno può sostenere quel che vuole, ma Hayek era almeno più onesto e concreto. Lui chiedeva uno Stato debole e la libertà delle “singolarità”, in vista, certo, dell’autorganizzazione[9], ma facendo concreta leva sul potere del capitale dichiarato per tale.

Bascetta è dunque un liberale inconsapevole.

Il suo vero punto di attacco è, semplicemente, lo Stato democratico e costituzionale del novecento, l’unico nel quale, ad onta dei liberali, i ceti popolari hanno potuto avere accesso concreto ai processi di formazione della volontà. Certo sulla base di una qualche omogeneità, di stanzialità (e quindi di cittadinanza, solidarietà e voto), di concordia nazionale[10].

Nel seguito Bascetta si improvvisa macroeconomista e contraddicendo schiere intere di professionisti si lancia in temerarie semplificazioni. Il controllo della moneta servirebbe a svalutare, e questo attiverebbe la temutissima (da tutti i liberali a partire dal vecchio Einaudi) inflazione. Qui riecheggiano le tracce fossili della cattura della sinistra comunista, a partire dalla “svolta dell’Eur” nel discorso monetarista e quindi neoliberale[11].

Arriva, infine, puntuale, il Tina della Thatcher, il punto centrale ineludibile di ogni narrativa neoliberale di qualunque marca: “La sovranità monetaria di un tempo non esiste semplicemente più e non può essere resuscitata se non nelle peggiori fantasie autarchiche”.

Chi compie simili affermazioni dovrebbe avere l’onere della prova, o almeno della comprensione dei fattori concreti, delle scelte, che hanno condotto all’attuale dominio dei mercati. Altrimenti si tratta solo dell’evocazione di altri fantasmi: quelli della filosofia della storia e del determinismo del marxismo volgare.

Prosegue, comunque:

“Queste mitologie, radicate nella indimostrabile convinzione che solo lo stato nazionale permetta l’esercizio della democrazia e il sostegno delle classi subalterne, costituiscono l’esile sostanza del sovranismo intento ad alimentare la competizione tra le nazioni europee con inevitabile vantaggio per quelle che dispongono di una forza maggiore. Distogliendo così le forze democratiche dal tentativo di agire sulle contraddizioni che le attraversano pur di evitare l’emergere conflittuale delle proprie”.

Le mitologie che evoca sono, per la verità, la materia stessa di cui è intessuto il suo discorso. Se anche fosse “indimostrabile” (termine curioso, trattandosi di applicazioni estranee alle scienze matematiche) la convinzione che solo lo stato nazionale permetta l’esercizio della democrazia (anche se questa non fosse, fino ad ora, l’univoca esperienza di tutti), si scopre ora che la competizione tra le nazioni europee è alimentata dal “sovranismo” di cui parla, ovvero dallo sforzo di ricostruire una sovranità democratica e costituzionale. Poche righe sopra, potenza della polemica, era attribuita invece alla “competizione per garantirsi il favore delle multinazionali e dei mercati finanziari”, da parte degli Stati Nazione concretamente esistenti, ovvero di quelli a trazione liberale-liberista governati dai partiti europeisti. Nello sforzo polemico, e di fronte alla densità dei tabù che, stratificati, impediscono alla ‘sinistra radicale’ di stare sul terreno della concretezza, Bascetta dimentica i suoi stessi passaggi.

Chiude:

“Sovranismo” non è dunque il disco per l’estate, ma neanche una forma politica dotata di autonomia e stabilità. Si tratta dell’insieme di proiezioni ideologiche, politiche protezioniste e statalismo che lavorano, dentro la crisi dell’Unione europea, per il ritorno del nazionalismo nel Vecchio continente. E cosa questo potrebbe comportare sarebbe preferibile non doverlo andare a verificare”.

Non c’è che dire, molto meglio restare nel presente, in fondo immagino che i Bascetta ci si trovino alla fine abbastanza bene.


Immagine tratta da Folker de Jong, mostra

Note
[1] - Vladimir I. Lenin, “Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra”, ed. Riuniti, 1974, p.3. Il libretto è in realtà una raccolta di interventi diversi nell’aspro dibattito che nel 1918 si tenne sulla pace separata con la Germania (pace di Brest-Litovsk), che Lenin difende dalle critiche rivolte in nome della necessaria “guerra rivoluzionaria” e dell’imminente aiuto da parte del proletariato tedesco. Quando a gennaio 1918 la Germania avanza un ultimatum, chiedendo condizioni molto dure in termini di perdite territoriali e versamenti in natura, si apre un dibattito nel quale gli allora alleati dei bolscevichi, i ‘socialisti-rivoluzionari di sinistra’, propongono, insieme a Nikolai Bucharin, la prosecuzione della guerra. Contro tutte queste opposizioni Lenin scrive a febbraio l’articolo “Sulla frase rivoluzionaria”, mentre l’esercito di oltre sei milioni di uomini russo era stato smobilitato, per sostituirlo con un esercito volontario più efficace (la “Armata Rossa”), da Lev Trotsky e la Germania aveva ripreso l’avanzata. Il 3 marzo Lenin, che aveva proposto le sue dimissioni, impone la firma del Trattato, perdendo circa 56 milioni di abitanti, ovvero il 32% della popolazione, un terzo delle ferrovie, tre quarti dei minerari ferrosi e il 90% della produzione di carbone. Fortunatamente la successiva sconfitta della Germania, che aveva occupato i territorio nominalmente indipendenti, porta al ritiro delle truppe e quindi alla loro contesa nella guerra civile russa che infurierà fino al 1923.
[2] - In “Rapporto sulla guerra e la pace”, 7 marzo 1918, op. cit. p.69
[3] - Continua: “comprendo benissimo che ai bambini piacciono le belle favole, ma mi domando: è dato ad un rivoluzionario serio credere alle favole?”
[4] - In “Rapporto sulla ratifica del Trattato di pace”, 14 marzo 1918, op. cit., p.99.
[5] - Identifico con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)” (cfr. Jonathan Friedman, “Politicamente corretto”). Rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale, astratto, verticale.
La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato autoregolato.
[6] - L’aggregazione di movimenti e sigle intorno a Patria e Costituzione (Rinascita!, Senso Comune, FSI, Sollevazione, Marx XXI, ed altri) ma anche di Risorgimento Socialista, che fa parte del direttivo di Potere al Popolo.
[7] - Leggeremo tra breve alcuni importanti interventi di Friedrich von Hayek, “Nazionalismo monetario e stabilità internazionale”, del 1937, e “La denazionalizzazione della moneta”, dai quali si può ricostruire la fonte intellettuale dell’approccio mondialista del nostro coraggioso rivoluzionario. Certamente si tratta di un cedimento inconsapevole a posizioni ultraliberali (che gli viene dall’innamoramento per il liberalismo di Deleuze e dalla ricezione di Negri di questa letteratura, probabilmente) ma la riflessione degli anni trenta di Hayek mostra come il sistema monetario non sia, in particolare per i liberali, una dimensione tecnica separata dal resto delle istituzioni sociali, ma parte integrante dell’habitat dal quale dipendono strettamente i margini di libertà delle azioni. Affrancarsi dal ‘sovranismo monetario’, proprio per il teorico austriaco del neoliberalismo, significa ottenere di nuovo quella ‘democrazia limitata’ che nell’ottocento (vero punto di riferimento sia suo sia di Milton Friedman) era ottenuta limitando il suffragio. La moneta deve essere offerta da istituzioni che operano in regime di concorrenza e che non dipendono da governi costretti a rispondere alle opinioni pubbliche.
[8] - Sempre nello stesso libro, in “Sull’infantilismo di sinistra e sullo spirito piccolo-borghese”, p.124 e seg.
[9] - Si veda, Hayek “Legge, legislazione e libertà”, 1973.
[10] - Aggiungere “forzata”, mostra solo i pregiudizi dell’autore.
[11] - Una storia ben raccontata nel libro di Thomas Fazi e William Mitchell, “Sovranità o barbarie”.
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