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cumpanis

L’essenza, per le fondamenta

di Alessandro Testa

Proseguendo la serie di interviste ed approfondimenti apparsi sotto il titolo “L”essenza, per le fondamenta”, pubblichiamo di seguito una breve riflessione del compagno Alessandro Testa su di un tema che ci appare della più grande importanza ed attualità, ovvero l’impatto dei cambiamenti sociali ed economici contemporanei sulla composizione di classe e sulla produzione del valore

IMMAGINE TERZO EDITORIALE TESTASappiamo tutti che una delle basi del comunismo, sin dalle sue origini, é il concetto di “lotta di classe”, un concetto che deriva da tutto un insieme di riflessioni relative alle modalità tipiche della produzione in seno al capitalismo, alla specifica natura della produzione del valore in tale contesto ed infine alle modalità all’organizzazione del lavoro ed ai rapporti sociali ad essa sottesi.

Ci rendiamo senza dubbio conto che una riflessione di tale portata non può essere conclusa – anzi non può probabilmente essere neppure abbozzata – nello spazio necessariamente ristretto di un articolo di rivista, ed auspichiamo perciò che questo spunto possa fungere da stimolo per un dibattito cui invitiamo sin d’ora a prendere parte tutti i compagni che lo desiderino, dato che riteniamo che questo sia un momento ineludibile nell’elaborazione di quell’impalcatura teorica fondamentale per la costruzione di un vero ed efficace partito comunista.

Siamo vieppiù consapevoli del fatto che un’analisi che volesse dirsi veramente scientifica necessiterebbe di una forte ed organica capacità di raccolta e valutazione di dati socioeconomici acquisiti con metodo e criterio. Purtroppo oggi i luoghi di produzione della scienza e della cultura – università, società scientifiche, fondazioni di ricerca eccetera – sono praticamente tutti nelle mani di coloro che hanno sposato senza dubbi e senza ritegno il dogma del pensiero unico liberista, e quindi ci risulta difficile prefigurare una rinascita della ricerca scientifica di stampo marxista in questo settore. Nonostante questo, pur nella consapevolezza della fragilità scientifica e metodologica delle nostre riflessioni, andiamo comunque ad incominciare.

L’analisi di Marx – e quelle successive di Lenin e di altri grandi pensatori marxisti – prende le mosse da un principio epistemologico che la differenzia da tutti i tentativi di riflessione sull’economia politica che erano stati fino a quel momento tentati: stiamo parlando, ovviamente, del materialismo dialettico e storico, ovvero del radicale abbandono di qualsivoglia illusione idealista, sostituita da un’acuta e spassionata analisi del fenomeno calato nella sua concretezza storica e pratica.

Da questa profondissima analisi, fondamentalmente esposta in quel capolavoro di economia politica che é Das Kapital, scaturisce il fondamentale concetto di scontro capitale-lavoro o, per dirla con parole più terra terra, di “lotta di classe”. Ma in queste brevi righe non desideriamo ripercorrere i punti – peraltro già ampiamente discussi ed analizzati da decine di studiosi di impostazione marxista o, di converso, liberista – ma vorremmo invece, riprendendo in pugno l’affilatissimo strumento di cui Marx ed Engels ci hanno forniti – il materialismo dialettico, ça va sans dire – riflettere sull’impatto concreto che un’organizzazione del lavoro ed una catena della produzione del valore profondamente mutate rispetto a quelle dei tempi in cui Marx si trovò a vivere, possono aver avuto sui concetti di “classe” e “produzione del valore” – concetti come già detto inestricabilmente legati l’uno all’altro.

Ma torniamo subito in argomento: la lotta di classe – perfetto, ma quale classe? Il proletariato, sembra essere la risposta più ovvia e classica. Perfetto, il proletariato: e cos’é il proletariato? Tentiamone una definizione oggettiva, partendo da alcuni elementi chiave che possano essere presi a modello delle condizioni – oggettive appunto – necessarie e sufficienti a comprendere “chi sta sopra e chi sta sotto”. E non sembri questo un argomento di lana caprina, una pura palestra dialettica per intellettuali annoiati: si fa infatti un gran parlare, a livello politico e pratico, del fatto che il comunismo debba rivolgersi a questo proletariato, fungendone da guida ed avanguardia, ma se non diverrà chiara la composizione di classe, ovvero chi può a buon diritto dev’essere inteso come parte della classe dei lavoratori, si resterà sempre nel dubbio e nell’ambiguità: solo gli operai? Solo i lavoratori dipendenti? Anche i lavoratori autonomi? E nel caso, quali? Solo chi produce materialmente, o anche chi lavora nei servizi?

Andiamo con ordine: é proletario, innanzitutto, colui che vive della sola vendita della propria forza lavoro; ma ciò non é sufficiente. Ci sono lavoratori che, vivendo del puro frutto della vendita della loro forza lavoro, si trovano nella condizione di poter imporre, a chi questa forza lavoro voglia acquistare, il prezzo che loro stessi desiderano. Prendiamo ad esempio grandi artisti, grandi professionisti, star del cinema e della televisione: forse che essi non vivono della vendita della loro forza-lavoro? Certamente sì. Sono essi proletari? Certamente no – il prezzo del loro lavoro non gli viene imposto dal capitalista che li assume, ma dipende da tutta una serie di condizioni oggettive e soggettive che gli permettono di stabilire da sé qual’é il prezzo del loro lavoro – e solitamente questo prezzo non coincide di certo con il mero valore necessario a sostenere le spese necessarie per sopravvivere.

E cosa dire di coloro che, al fianco del loro lavoro, hanno qualche piccola rendita generata da qualche limitato investimento in buoni del tesoro o dalla riscossione dell’affitto di un appartamentino ricevuto in eredità dalla zia nubile? Sono forse essi capitalisti? Certamente – ancora una volta – la risposta non può essere che no: essi sono del tutto proletari, sempre che l’apporto di tali rendite costituisca una parte sostanzialmente minima del loro reddito. Certamente, tutto aiuta ad arrivare a fine mese, ma qualche centinaio di euro all’anno in cedole o pigioni non fanno sostanzialmente la differenza: anche a costoro tocca lavorare per campare la vita.

Detto questo, proviamo ad affrontare il problema da un’altro punto di vista, ovvero la proprietà – o meno – dei mezzi di produzione. Ad un primo colpo d’occhio, verrebbe da gridare Eureka – ho trovato! Chi possiede i mezzi di produzione, non può essere proletario! Purtroppo il diavolo, come sempre, sta nei dettagli, ed approfondendo la nostra analisi attraverso l’osservazione dei casi concreti ed attuali (del resto cosa significa “analisi” se non “decomposizione” di un fatto complesso in fatti più piccoli e più semplici da comprendere e maneggiare?) cominciamo ad accorgerci che questo criterio non é poi così preciso: il rider che possiede la sua bicicletta, il suo motorino o la sua macchina – mezzi di produzione necessari all’espletamento del suo lavoro – é forse un capitalista? La risposta in questo caso é talmente ovvia da sembrare banale: no, il rider non é un capitalista, é un proletario, anzi é forse il più proletario tra i proletari.

Ma quello che conta é afferrare il concetto: non é il mero possesso dei mezzi di produzione a fare il capitalista, ma é il possesso dei mezzi di produzione di massa. Il possesso di qualche limitato mezzo di produzione, meramente strumentale all’esecuzione del proprio lavoro – venduto, questo sì, al capitalista (attraverso le formule che vedremo in seguito – il lavoro dipendente e quello “autonomo pro forma”) ad un prezzo da lui deciso, non sposta di una virgola la questione. Proletario sei, e proletario resti.

Quale invece la posizione dei quadri intermedi, dei coordinatori, dei vari capi e capetti? Anche loro, del resto, vendono la loro forza lavoro in cambio di un salario definito dal padrone, non sono forse anch’essi proletari? La risposta potrebbe parere gesuitica: lo sono – e non lo sono.

Lo sono oggettivamente, come esseri umani sfruttati dal capitale, come lavoratori che in genere (non stiamo certamente parlando dei grandi manager e dirigenti d’industria) debbono impiegare buona parte del loro reddito per sostentare loro, e la loro famiglia, certamente concedendosi qualche lusso ogni tanto e magari comprandosi la prima casa, ma senza riuscire ad accumulare – dell’accumulazione parleremo in seguito – un capitale sufficiente a per fare il grande salto, ovvero per far lavorare il capitale al loro posto.

Ma non lo sono soggettivamente, in quanto all’interno dei rapporti di forza che caratterizzano il conflitto capitale-lavoro scelgono di solito di schierarsi, vuoi per paura, vuoi per ignoranza, vuoi per l’illusione individualista che fa loro credere che potranno un giorno “arrivare”, al fianco di chi li sfrutta e non di chi é loro compagno di sventura.

Ed i lavoratori autonomi? Questo “ceto medio proletarizzato” di cui tanto si parla, é realmente proletario? Anche qui, bisognerebbe spingere l’analisi più in profondità: un conto é parlare di coloro i quali sono autonomi “per finta”, ovvero perché il capitale trova più comodo privare un segmento di lavoratori di quelle tutele, pur sempre più misere e limitate, che sono riconosciute al lavoratore dipendente. E qui si tratta dei lavoratori delle cooperative, delle partite iva da poche migliaia di euro l’anno, dei co.co.co., co.co.pro, stagisti e consulenti che, lo sappiamo bene, sono spesso gli sfruttati tra gli sfruttati. Un altro conto, tutto un altro conto, é parlare dello chef stellato proprietario di una catena di ristoranti, del principe del foro o dell’albergatore di lusso.

Ancora, sono oggettivamente proletari quei piccoli esercenti, commercianti ed artigiani – spesso ultime vestigia di un modo di produzione pre-capitalista – il cui lavoro é insidiato sempre più da vicino dallo strapotere delle multinazionali del commercio, della ristorazione e dei servizi: incapaci di reggere la concorrenza spietata del capitale internazionale, debbono ridurre prezzi e profitti, debbono aumentare a dismisura le ore lavorate, devono spesso ridursi ad evadere tasse ed imposte e, inevitabilmente, finiscono quasi sempre per chiuder bottega ed ingrossare le fila dei disoccupati e dei sottoccupati.

In conclusione, forse il criterio finale, che tutti li riassume e tutti li armonizza, potrebbe finalmente essere quello dell’accumulazione: é proletario colui il quale dal suo lavoro non ottiene altre risorse che quelle necessarie a riprodurre la sua esistenza, anche se questo concetto può essere declinato in maniere assai differenti a seconda dell’epoca storica: se a fine ottocento “riprodurre la propria esistenza” significava avere un tetto sopra la testa, qualcosa di cui vestirsi e qualcosa da mettere in tavola a fine giornata, oggi in Italia ciò potrebbe anche significare anche avere la TV e l’abbonamento a Netflix, e magari anche l’iPhone preso a rate. Non é più proletario, invece, colui il quale, grazie ai proventi del suo lavoro, può abbandonare il paradigma della sussistenza – anche di quella più agiata e confortevole – per entrare in quello di quell’accumulazione di capitale volta a far lavorare questo per lui, e non viceversa.

Per concludere, passiamo ora brevemente ad un ulteriore elemento di analisi, che prende in considerazione la collocazione del lavoratore all’interno dell’organizzazione complessiva della catena di produzione del valore. Per far ciò, é giocoforza comprendere come le modalità con le quali il capitale del XXI secolo crea il valore non sono certamente le stesse di quelle che il marxismo delle origini prese come modello della sua analisi.

Innanzitutto, bisogna valutare l’estrema frammentazione e parcellizzazione del lavoro produttivo, sia in senso geografico che organizzativo: non più grandi fabbriche con reparti omogenei, ove i lavoratori, ancora depositari di una sapienza professionale unica e trasversale, vivevano il lavoro e le sue contraddizioni “gomito a gomito” l’uno con l’altro; oggi é tutta una pletora di esternalizzazioni, cooperative di servizi, delocalizzazioni e “smart working” che allontanano i lavoratori l’uno dall’altro, non solo in senso puramente fisico ma sopratutto umanamente e professionalmente.

E cosa dire dell’automazione e dell’uso, ormai non più fantascientifico e futuristico ma reale e concreto, della robotizzazione e persino dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi e logistici? Si profila ineluttabilmente un trasferimento del sapere professionale dall’essere umano alla macchina – e a pochi tecnici spesso assunti come consulenti e tenuti ben distanti dal vivo tessuto produttivo, quasi fossero “stregoni” depositari di una magia cibernetica che il volgo dei lavoratori deve temere ed ignorare – trasferimento che sposta la conoscenza dal lavoratore alla macchina, lasciando al primo non più il lavoro, ma solo “la fatica del lavoro”. Da questo consegue il fatto che, come tutti comprendiamo benissimo, diventa sempre più difficile per un lavoratore, privato di ogni conoscenza e competenza che non sia quella più banale e ripetitiva, poter incidere sul processo produttivo con scioperi brevi e mirati che blocchino in maniera intelligente l’intero processo col minimo sforzo.

Ma c’é di più: quale stima di se, quale terreno comune di solidarietà potrà avere questo tipo di lavoratore, mero “olio lubrificante” di un sistema capace di funzionare quasi da solo? Un esercito di robot non ha coscienza di classe…

Vorremmo terminare con una considerazione conclusiva: oggigiorno diventa sempre più difficile tracciare i confini tra produzione e servizi: progettare un prodotto, progettare un processo, mettere fisicamente a disposizione un prodotto attraverso una rete logistica globale e fortemente automatizzata sono ormai divenuti elementi strutturali della creazione di valore, elementi senza i quali produrre un telefonino o persino un bullone diviene totalmente inutile ed insensato.

Dunque il campo “largo” di ciò che é produzione si é esteso, nel modello organizzativo del presente, ad aree e settori che prima venivano considerate servizi tout court, con le conseguenze e le implicazioni facilmente immaginabili non solo a livello di composizione di classe ma, in modo forse ancor più importante, sulla teoria della formazione del valore e quindi sull’interpretazione da dare alla teoria economica marxista applicata alla contemporaneità.

Ma siamo consapevoli di non aver personalmente gli strumenti di analisi formale e matematica atti a scoperchiare in modo scientifico questo incandescente vaso di Pandora, e lasciamo quindi volentieri questo compito – a nostro avviso fondamentale per l’attualizzazione teorica del pensiero e della prassi marxiste leniniste – a qualche compagno più esperto di noi in materia di economia politica.

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