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Senza partito comunista non c’è rivoluzione

di Alessandro Testa

IMG 20220801 105021 1024x768"Senza un’avanguardia che operi per sostenere la classe nel suo faticoso cammino verso l’acquisizione di una sua coscienza propria e quindi, verso la comprensione dei suoi reali interessi e finalmente verso una lotta senza quartiere contro l’inumano e alienante modo di produzione capitalistico e contro le sue sovrastrutture – Stato, modelli sociali, cultura (o meglio “dis-cultura”) – di quale rivoluzione si potrebbe mai sognare?"

Riprendiamo in queste brevi note alcune delle riflessioni, di grande profondità teorica e importanza pratica, poste dal compagno Valentini, proponendoci di chiosarle con qualche commento che possa, nello spirito di franchezza dialettica propria della discussione ideologica marxista leninista, esaminarne la portata ed eventualmente sottolinearne eventuali criticità o punti meritevoli di approfondimento.

Valentini pone sin dall’inizio una considerazione forte e piuttosto tranchant: a suo avviso più che di comunismo bisognerebbe – in questa fase storica – parlare piuttosto di rivoluzione. Il suo incipit, forte e deciso, è questo:

“Quando sostengo la necessità di un nuovo soggetto politico per l’Italia e per l’Europa non ripropongo la questione comunista, anzi uso raramente la parola comunista e solo in occasione di riferimenti storici. Sono fermamente convinto che non è tramite il rilancio di un movimento comunista che si possa uscire dalla situazione di subalternità al pensiero liberale”.

Come tutti gli intellettuali di vaglia, Valentini supporta la sua idea con dovizia di riflessioni e puntuali citazioni di Marx, Engels e altri giganti del pensiero comunista, citazioni che per non dilungarci non riportiamo qui, rimandandovi alla lettura del saggio integrale del compagno, pubblicato in un precedente numero di Cumpanis.

Ci limitiamo a citare un paio di punti di straordinaria importanza, su cui a nostro avviso vale la pena di soffermarsi con più attenzione.

“Del resto il Partito comunista cinese, che per autorevolezza e forza, ha tutte le carte in regola per essere il promotore di questa riproposizione si guarda bene – e affermo giustamente – dal farlo. Altre sono le strade da intraprendere per ricostruire una sinistra rivoluzionaria, di trasformazione. La crisi dei partiti comunisti in Occidente, ma anche quella delle socialdemocrazie, obbliga a interrogarci sul da farsi in termini del tutto inediti, spostando il campo di confronto non sulle storiche divisioni tra la II Internazionale (socialdemocratica) e la III Internazionale (comunista), ma sulle istanze poste dal presente, dalla realtà di oggi. Per questo riproporre, attualizzandolo astrattamente, il confronto storico tra due visioni diverse e contrapposte, anche se entrambe si richiamavano al marxismo, è fuorviante, non aiuta, cristallizza le riflessioni nell’ambito di un contesto storico che fa parte del passato e non si proietta verso «una analisi concreta di una situazione concreta» come sosteneva Lenin”.

E ancora:

“D’altronde chi osa obiettivamente sostenere che il Partito socialista europeo sia una forza socialdemocratica, compreso il Pd? Oppure che il gruppo del GUE nel Parlamento europeo o la Sinistra europea siano dei raggruppamenti comunisti? Se non si parte dall’esaminare e dal valutare i dati reali non si combina molto. Non tutto può essere ridotto alla categoria del “tradimento” verso chi si definisce solo formalmente socialdemocratico, o a quella del “revisionismo”, in nome del marxismo-leninismo, come causa del declino dei partiti comunisti”.

Qui, a nostro avviso, il compagno Valentini, pur cogliendo acutamente la necessità di non cristallizzarsi in dogmi e pratiche non più attuali, pare non voler approfondire un concetto che troviamo invece meritevole di un’analisi più penetrante, ovvero la necessità di un partito organizzato su solidissime basi teoriche e su un vero centralismo democratico – come tratteggiato da Álvaro Cunhal nel suo stupendo libro Il partito dalle pareti di vetro, di cui suggeriamo a tutti l’attenta lettura.

Necessità che, oggigiorno, si presenta ancor più impellente proprio a causa della frammentazione del movimento complessivo dei lavoratori, deprivato subdolamente di una sua coscienza di classe attraverso la caleidoscopica frammentazione dei modelli di organizzazione del lavoro, che tendono a separare fisicamente i lavoratori l’uno dall’altro, e l’accorta manipolazione mediatica compiuta dall’egemonia culturale radical-borghese che ha instillato nel profondo dell’animo umano un individualismo edonistico tutto basato sulla filosofia del desiderio.

Senza un partito comunista fortemente omogeneo da un punto di vista teorico, ben organizzato in cellule di produzione che siano presenti là ove i lavoratori operano, senza un’avanguardia che operi per sostenere la classe nel suo faticoso cammino verso l’acquisizione di una sua coscienza propria e, quindi, verso la comprensione dei suoi reali interessi e finalmente verso una lotta senza quartiere contro l’inumano e alienante modo di produzione capitalistico e contro le sue sovrastrutture – Stato, modelli sociali, cultura (o meglio “dis-cultura”) – di quale rivoluzione si potrebbe mai sognare?

Ma vediamo insieme quale alternativa propone il compagno Valentini.

Dopo una dotta e profonda disquisizione sul valore insostituibile del materialismo storico e dialettico – disquisizione che, personalmente, ci sentiamo di condividere in toto – il nostro espone quelle che ritiene le ragioni della crisi del comunismo in Europa:

“La crisi della sinistra in Europa deriva soprattutto dalla sua incapacità di leggere i processi di trasformazione e di mutazione del capitale e delle contraddizioni inedite che ha prodotto. Molti non sono consapevoli, o non vogliono prenderne atto, che la creatura del marxismo-leninismo, partorita dalla mente di Stalin, ha bloccato per tutto un periodo la capacità di “revisionare” (atto del rivedere per correggere) il pensiero di Marx abilmente intrapresa da Lenin e da Gramsci e in parte, con risultati diversi, da Togliatti e da Mao. In questa ottica era Lenin il “revisionista” (termine che ha valenze ben diverse rispetto al “revisionismo storico” che si pone l’obiettivo di correggere e riscrivere la storia a uso della politica) e non l’ortodosso Kautsky che, tra l’altro, era in rapporto di amicizia con l’anziano Engels, il quale gli inviò una lettera in cui suggeriva di non abusare della parola “comunismo” foriera di grande ambiguità e confusione per il partito socialdemocratico tedesco”.

Ecco, su queste parole abbiamo invece qualche riserva. Proprio la natura dialettica della storia, così ben sottolineata dal Valentini, avrebbe dovuto portarlo ad un’analisi più avveduta e meno incentrata sulle condizioni soggettive – ovvero sull’ingombrante presenza di uno Stalin via via dipinto come deus ex machina del comunismo oppure come suo implacabile carnefice – privilegiando piuttosto una visione più olistica e articolata degli avvenimenti del dopoguerra.

In primis, la stasi nel processo di continua “revisione del marxismo”, che il nostro imputa sostanzialmente a Stalin e alla macchina burocratica sovietica, in realtà non c’è mai stata: basta ricordare la scuola di Francoforte, il marxismo occidentale, Lukács e molti altri pensatori (non ultimo il nostro Domenico Losurdo e il già citato Álvaro Cunhal) – europei e non – hanno contribuito, con alterna riuscita e alterne fortune, ad una vastissima fioritura di interpretazioni e sfumature, per cui crediamo non si possa assolutamente parlare di “cristallizzazione del pensiero marxista”; anche la moderna evoluzione del “socialismo con caratteristiche cinesi” avrebbe forse meritato uno spazio d’analisi più ampio e approfondito.

D’altronde, in un paese dissanguato da una guerra feroce vinta grazie al genio della dirigenza comunista e alla tenacia del popolo sovietico, onusto di gloria e prestigio ma, d’altro canto, circondato dagli avvoltoi dell’imperialismo occidentale, cosa poteva dunque fare Iosif Vissarionovič Džugašvili se non “serrare i ranghi” – anche da un punto di vista teorico – per poter tenere testa a quelle forze, interne ed esterne, che tramavano senza sosta per porre in atto una controrivoluzione? E lo stesso può dirsi di chi a Stalin è succeduto, pur senza negare o minimizzare gli errori teorici e pratici compiuti da Chruščëv e dai suoi epigoni revisionisti.

Infine, dopo queste importanti considerazioni preliminari, Valentini affronta di petto la questione che più gli sta a cuore, quella del processo rivoluzionario.

“È questo dibattito/confronto/scontro sulla natura della rivoluzione che ha fortemente caratterizzato la storia del movimento socialista e comunista per tutta una fase, almeno fino alla prima metà del Novecento. È stato il tema centrale molto di più dell’analisi del passaggio da una società capitalistica, più o meno avanzata, al socialismo La rivoluzione deve essere necessariamente violenta o può essere pacifica, condotta cioè per vie legali? Si persegue l’atto insurrezionale (quella che Lenin definiva «situazione rivoluzionaria») o si adotta una linea graduale di riforme di avanzata al socialismo? Questo confronto/scontro ha spostato su un versante più politico (tattico, per assumere poi un tratto strategico) l’analisi teorica di Marx ed Engels sulle due vie al socialismo.

Torno allora a Marx ed Engels perché mi pare importante ripartire da loro. Che vi siano due vie per il passaggio dal capitalismo al socialismo nel loro bagaglio teorico mi pare, come detto, fuori discussione. Nella prima via il processo rivoluzionario può avvenire anche in modo graduale arrivando a poco a poco al superamento (transizione) del sistema capitalistico; nell’altra via, invece, dove la legge del valore è poco sviluppata, vi è un “salto”, una “rottura” rivoluzionaria del sistema. Non è questa una mia libera interpretazione. Continui sono i richiami di Marx ed Engels alla società anglosassone nella quale si erano formate istituzioni democratiche e in questi casi si poteva ipotizzare un passaggio democratico e pacifico al socialismo”.

Ecco il nodo della questione, ovvero se la concezione leninista di rivoluzione violenta e dittatura del proletariato, divenuta sostanzialmente egemonica nel pensiero marxista moderno, sia da considerare l’unico possibile approccio a quella “abolizione dello stato di cose presente” preconizzato da Marx ed Engels oppure se altre prospettive – come quella del PCI e della sua “via democratica al socialismo”, siano in realtà da preferirsi.

Il nostro critica con forza il fatto che il leninismo abbia sostanzialmente rimosso l’approccio “pacifico” alla rivoluzione, imputandogli una responsabilità storica che va al di là della mera situazione contingente russa:

“Per dirla in un altro modo, la via russa della transizione al socialismo diventò la norma, mentre doveva essere solo un’altra via, secondo le analisi e la visione di Marx: questa è stata la contraddizione, il paradosso della storia del socialismo”.

E qui, reputiamo, si impongono alcune riflessioni di carattere generale: anche ammesso che sia possibile una “rivoluzione pacifica”, anche ammesso che il comunismo possa prendere il potere – cosa ben differente dall’“andare al governo” – è davvero possibile credere che possa mantenerlo senza l’uso della forza? È credibile, in altre parole, che le sovrastrutture che il capitalismo ha creato a difesa dei suoi interessi – esercito, polizia, egemonia mediatica – non reagiscano immediatamente, anzi più probabilmente in maniera addirittura preventiva alla minaccia di una presa di potere, pacifica ben s’intende, da parte di chi voglia “abolire lo stato di cose presente” e instaurare una società socialista?

Noi, lo confesso, non lo crediamo. Così come non crediamo sia stato “l’ingabbiamento del pensiero di Marx e di Lenin in un corpus dottrinario e dogmatico” – per dirla con Valentini – a far affermare la prassi rivoluzionaria violenta come modello sostanzialmente unico dell’approccio marxista all’abolizione del capitalismo.

È piuttosto la natura intrinseca del capitalismo, a nostro avviso, a rendere necessario l’uso della forza per abbatterne l’abietto potere; la sua invereconda e incrollabile alterigia, la sua pretesa totale e irrevocabile di ritenersi l’unico modo di produzione e organizzazione adatto alla natura umana, i suoi inconfessabili interessi oligarchici e, soprattutto, l’estrema violenza profondamente connaturata alle sue basi antropologiche impongono l’uso della forza nel tentativo di abbatterlo, pena l’essere schiacciati come vermi sotto gli scarponi dei suoi sbirri e dei suoi soldati. Anche se il potere è stato preso per via totalmente democratica e pacifica: Gladio docet.

Valentini poi prosegue con un pregevole excursus sulla non-monoliticità del corpus dottrinario marxista e sulla necessità di non confondere ideologia e dottrina, concetti sul quale riteniamo impossibile non concordare.

“Occorre quindi togliersi dagli occhi quei «pesanti occhiali ideologici», per dirla con Luporini, di un’idea rivoluzionaria d’interpretazione del presente dato dall’ideologia, cioè da un già scritto. Mi pare, a riguardo, che sia stato Antonio Labriola il primo a introdurre la distinzione tra ideologia e dottrina (nel senso di teoria). Che l’ideologia sia propedeutica alla formazione e allo sviluppo del senso comune che a sua volta è alla base della formazione storica del socialismo è incontestabile, ma è altra cosa dalla teoria, che è analisi e ricerca. Indubbiamente la teoria si nutre, tramite lo storicismo, sia della formazione storica del socialismo sia dell’ideologia, la quale però non deve mai divenire una religione con tutti i suoi dogmi. Pertanto la teoria, per essere efficace nel lavoro di ricerca non deve farsi condizionare dai vincoli ideologici. È chiamata a definire, non prescindendo dalla realtà data, una dottrina rivoluzionaria, una dottrina per la trasformazione.

Questa dovrebbe essere la relazione corretta tra ideologia e teoria, l’una ha bisogno dell’altra, ma operano su due campi distinti: la prima sul terreno immediato, quello prevalentemente politico, la seconda su quello dell’indagine e della ricerca, proprio per dare strumenti nuovi di interpretazione della realtà, cioè per dare vigore e linfa proprio all’azione politica. Tra formazione storica del socialismo e teoria vi deve essere pertanto un rapporto dialettico in costante sviluppo. Un rapporto che muta e con esso muta l’ideologia con gli adeguamenti e gli aggiornamenti teorici. Il tema del rapporto tra ideologia e teoria sarà, dopo Labriola, ripreso e sviluppato da Gramsci, per divenire un’acquisizione fondamentale del marxismo. Insomma, la complessa opera di Marx deve essere considerata un laboratorio epistemologico dal quale attingere per interpretare la realtà, il presente, e non per cucire un vestito su misura all’attualità, né un quadro di criteri fissi, né semplici e comode conferme”.

Siamo, infatti, i primi a reputare che un partito comunista moderno debba essere aperto e non dogmatico, un partito che sappia dotarsi di un comitato scientifico composto da pensatori profondi e persino “eretici”, un partito che interpreti la formazione dei quadri in una prospettiva non catechistica ma piuttosto di arricchimento culturale, conoscenza profonda del pensiero marxista e capacità di pensiero critico.

Per noi – per dirla con Cunhal – “centralismo democratico” non significa obbedienza cieca da bravi soldatini e neppure verticismo bonapartista, ma discussione libera e franca unita alla capacità di essere disciplinati quando, sentita e discussa ogni idea, una decisione è stata finalmente presa.

E come dare torto a Valentini quando sostiene che “oggi il dramma della sinistra in Europa è che non è ideologica (ha per la gran parte sposato la tesi del superamento delle ideologie) e quando alza una bandiera ideologica lo fa alzando una bandiera di altri tempi. E, in entrambi i casi, non ricerca una teoria per la trasformazione. È una sinistra che nel suo insieme non mostra interesse per una strategia rivoluzionaria. Semplicemente è niente, non esiste o è marginale. I modestissimi dati elettorali non sono un accidente della storia, ma il risultato prima di tutto della sua nullità sul piano teorico-politico, senza avere peraltro una ideologia credibile di supporto, se non paradossalmente quella dell’ideologia della democrazia e dell’alternanza”.

Però, ci sembra, queste condivisibili parole non dovrebbero essere per forza intese in contrapposizione all’idea di lavorare per la ricostruzione di un forte partito comunista in Italia, dovrebbero anzi costituire un forte contributo al processo costituente mettendo in evidenza errori passati e linee portanti di visione strategica.

Infine, dopo un’interessante disamina della storia prossima del comunismo in Italia, Valentini sottolinea un punto chiave, a nostro parere della più fondamentale importanza:

“La costruzione di un partito con caratteristiche di massa della sinistra non può che avvenire in un rapporto molto stretto con il movimento reale dei lavoratori, quindi con le sue attuali lotte sindacali di resistenza, anche accettandone, quando non si hanno alternative, le proposte minimali”.

Quello che, invece, condividiamo di meno sono le conclusioni che ne trae:

“Non voglio apparire vanitoso e presuntuoso nel paragonarmi ad Antonio Labriola che decise, nell’agosto del 1892, di non partecipare al Congresso di fondazione del Partito dei lavoratori che dopo un anno si trasformò in Partito socialista italiano. Labriola motivò la sua non adesione in una lettera inviata a Filippo Turati nella quale scriveva: «Siete andati a Genova con l’idea tradizionale di abbracciare un unico programma elastico e ambiguo, legalitari e antilegalitari, astensionisti e mazziniani». Egli denunciava il fatto che il neonato partito era privo di una teoria rivoluzionaria. Colse con altre parole il problema che Lenin si porrà e risolverà più tardi: la necessità di una «teoria rivoluzionaria per un partito rivoluzionario». Ecco, nel mio piccolo e senza volermi paragonare a un gigante del marxismo italiano, ho deciso, in questi ultimi anni, di non partecipare a nessuno dei momenti di aggregazione a sinistra, di gruppi tra loro simili, in vista di appuntamenti elettorali. Aggregazioni che sono ben misera cosa a confronto con la fondazione del Partito dei lavoratori, così tanto duramente criticato da Labriola”.

E in conclusione:

“Ecco perché per la ricostruzione della sinistra non propongo di ripartire da partiti legati alle esperienze della II Internazionale o dell’Internazionale comunista. Il mio riferimento è la I Internazionale, facendo però tesoro di tutte le esperienze storiche, in particolare dalla lezione che ci viene dal III Congresso del PCI di Lione”.

Quasi, e lo diciamo con rammarico, si ritenesse errata la lezione, a nostro avviso così limpida e chiara, che la storia ci ha insegnato riguardo alla natura velleitaria di un approccio “pacifista” all’abolizione del modo di produzione capitalistico e, parimenti, si ritenesse superata e ossificata – una sorta di ninnolo da salotto buono della nonna Speranza – la forma partito leninisticamente intesa, quasi fosse incapace – per quali ragioni non si capisce – di sussumere al suo interno una profonda e libera ricerca teorica e un’organizzazione democratica e collegiale.

Per converso – l’abbiamo già accennato non solo sopra ma in innumerevoli saggi, conferenze e dibattiti –, crediamo fortemente che solo un partito comunista forte, basato sul vero centralismo democratico, teoricamente e ideologicamente coeso (il che non vuol dire cristallizzato su posizioni obsolete e dogmatiche), e, soprattutto, presente là ove i lavoratori vivono e sono sfruttati, potrà scuotere le coscienze del movimento operaio complessivo e invertire l’inesorabile declino della società occidentale, che sta sempre più mostrando in corpore vili la terribile verità del notissimo adagio “socialismo o barbarie”.

Se non lo faremo, se non lotteremo per ricostruire un partito comunista degno di questo nome, capace di essere laboratorio di pensiero e fucina di prassi, se non sapremo porci come avanguardia dei lavoratori, capace di suscitare in loro la coscienza di classe e il desiderio di lottare, allora crediamo che davvero assisteremo alla “fine della storia”.

Ma se invece faremo tesoro di ciò che la storia ci ha insegnato, se sapremo ascoltare e meditare non solo le parole che ci piacciono ma anche le parole – come quelle del compagno Valentini – che ci spiazzano e ci mettono in crisi, forse allora i nostri figli o i nostri nipoti vedranno finalmente sorgere, un giorno, il tanto atteso “sol dell’avvenire”.

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