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machina

Dentro Operai e capitale

di Andrea Rinaldi

0e99dc b8fc33861e1340ff9c3eb7ec085ce7edmv2I primi anni Sessanta, in Italia, sono attraversati da una dinamica ambivalente: da un lato rappresentano l’apogeo del cosiddetto «miracolo economico», dall’altro segnano l’inizio di uno straordinario ciclo di lotte, guidato da quello che sarà conosciuto come operaio massa. Andrea Rinaldi ritorna al principio dell’esperienza dei «Quaderni rossi», nella combinazione tra soggetti differenti, per indagare le fondamenta dell’elaborazione di Operai e capitale e dell’intero operaismo politico italiano.

* * * *

I «Quaderni rossi» nascono e si sviluppano in un particolare momento di novità politiche imposte dal movimento operaio. Come è noto i primi anni Sessanta sono l’apogeo del miracolo economico italiano, ma anche l’inizio di un inaspettato nuovo ciclo di lotte operaie. Il clima cooperativo che gli industriali del Nord avevano tentato di costruire per aumentare la produttività si stava guastando. A rovinare i piani di sviluppo economico furono proprio quei soggetti meridionali immigrati che venivano pensati come argine alla contestazione e che finirono per essere invece l’incubo di ogni tentativo rappresentativo. «Gli operai immigrati trovarono in fabbrica il luogo privilegiato di un’azione collettiva che era loro negata all’interno della comunità; essi portavano dentro i cancelli degli stabilimenti tutto il risentimento che provavano per le condizioni di vita che sopportavano al di fuori di questi»[1].

Quando si andava strutturando il primo gruppo dei «Quaderni rossi», nel 1961, la Fiat era ancora il luogo apparentemente pacificato voluto dal presidente Vittorio Valletta, e sparuti focolai si vedevano solo nelle altre fabbriche piemontesi.

Di quello che gli operaisti andarono studiando, cercando di svelare e organizzare la politicità intrinseca degli operai che rifiutavano le forme tradizionali di lotta, i comunisti e i socialisti erano sostanzialmente disinteressati. Il Psi di Nenni preparava il terreno per un governo di centro-sinistra con un loro ruolo attivo, il Pci di Togliatti era invece impegnato in una lunga (lunghissima) marcia nelle istituzioni, che si traduceva in un ruolo di eterna opposizione parlamentare. Il nesso tra Pci e Cgil, formalmente verticale, era nei fatti una divisione dei compiti totalmente disgiunta. «Un sindacato di classe e un partito di popolo», come dirà qualche anno dopo Mario Tronti. Un sindacato che si muoveva timidamente nella difesa di poche certezze e un partito dell’opinione pubblica, platealmente ignorante sui cambiamenti imposti nella fabbrica italiana dal connubio fordismo-taylorismo.

Non fu un caso che il primo dei «Quaderni» fu una creatura del dirigente socialista Raniero Panzieri e di un ampio gruppo di sindacalisti Fiom, come il deputato Vittorio Foa, ma anche altri dirigenti torinesi come Sergio Garavini, Emilio Pugno e Franco Momigliano. L’operaismo trovò infatti terreno fertile tra gli scontenti del partitismo e i critici del dogmatismo. In questa primissima fase l’operaismo si declinava con il consiliarismo, le Sette tesi sulla questione del controllo operaio pubblicate da Panzieri e Libertini nel febbraio del 1958 erano un’importante novità, oggetto di ampie discussioni. Panzieri, come molti altri militanti socialisti e comunisti figli della destalinizzazione, era affascinato dalle eretiche tesi consiliariste e operaiste. Nel suo scritto criticava la socialdemocrazia per aver relegato il proletariato a mero sostegno della borghesia o mero esecutore della rivoluzione democratica borghese, negando completamente la sua autonomia e rendendolo anzi più subalterno allo sviluppo capitalista. Egli credeva, come anche Foa e altri sindacalisti, che fosse necessario porre l’accento su un ruolo attivo della classe operaia in funzione della loro autonomia politica. Il controllo operaio era pertanto la soluzione al miope dirigismo dei partiti, e il preludio a una rivoluzione socialista. «La natura socialista del potere è appunto determinata dalla base di democrazia operaia sulla quale essa poggia»[2].

Queste tesi sono motivo di fascinazione non solo per i sindacalisti ma anche per svariati altri giovani militanti e intellettuali: quelli che saranno i protagonisti del «Gatto selvaggio», Alquati, Gasparotto, Gobbi, i sociologi come Rieser, Mottura, De Palma, e i «politici» del gruppo romano di Tronti, Asor Rosa, Coldagelli, Di Leo, Accornero. Il primo «Quaderno» fu essenzialmente costruito da Panzieri con i sociologi e i sindacalisti, sul nucleo politico-strategico della riproposizione del controllo operaio e di una modernizzata idea di autogestione. L’intervento di apertura di Vittorio Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, che fece anche da titolo del «Quaderno», andava proprio nella direzione di una ricerca sull’autonomia operaia e sul potere operaio. L’altra colonna portante del primo «Quaderno» fu la ricerca di Alquati, un’inchiesta relazionata alla federazione del Psi torinese agli inizi del 1961 e pubblicata, per volere di Panzieri, al fine di sottolineare la necessità politica dell’autonomia operaia. Il lavoro di Alquati sottolineava infatti l’irriducibile materialismo degli operai Fiat di nuova generazione e il loro rifiuto di essere rappresentati da qualcuno al di fuori della classe operaia: «I giovani non sono disposti ad affiancarsi a strati o a organismi estranei alla classe lavoratrice, in quanto è proprio la condizione di esecutori della volontà di piani concepiti da altri che essi rifiutano, in fabbrica e fuori»[3].

Il secondo «Quaderno» sarà più propriamente identificabile con quello che oggi conosciamo come operaismo politico italiano. Gli elementi del sindacalismo si erano già allontanati nel 1961, a seguito delle aspre reazioni del comunismo italiano al primo «Quaderno» e per i volantini autonomisti che i giovani inchiestanti «Zengakuren» avevano diffuso alla Fiat. Per i quadri della Fiom, l’autonomia operaia declinata nel contrasto anche con la stessa Cgil, era inaccettabile. Non casualmente il titolo del secondo «Quaderno» riprendeva l’editoriale di Mario Tronti La fabbrica e la società. Il tentativo di questo intervento consisteva nel descrivere i cambiamenti avvenuti nella società capitalista e comprendere l’origine del fordismo in un contesto italiano che vedeva il rapido sviluppo di un’ipotesi socialdemocratica con il quarto governo Fanfani.

Come aveva insegnato Karl Marx l’intervento statale, la lotta operaia e il capitalista collettivo avevano indotto i singoli capitalisti ad accorciare la settimana lavorativa. Necessariamente questo imponeva anche un’intensificazione dell’estrazione di plusvalore e quindi il passaggio a forme ripetitive e alienanti di produzione di massa. Per Tronti, Marx e l’esempio inglese, insegnavano come la pressione della classe operaia fosse capace di imporre un cambiamento allo sviluppo capitalistico. Se il capitalista imponeva il suo diritto a uno sfruttamento più intenso, gli operai potevano opporre il loro diritto a vendere meno forza-lavoro, a quel punto lo scontro inevitabile, sul terreno politico, si trasformava in una vittoria della classe per mezzo della legislazione statale, dimostrando come la classe imponesse la linea dello sviluppo capitalistico. Scrive Tronti nell’editoriale del secondo «Quaderno»:

La lotta di classe operaia ha costretto il capitalista a modificare la forma del suo dominio. Il che vuol dire che la pressione della forza-lavoro è capace di costringere il capitale a modificare la sua stessa composizione interna; interviene dentro il capitale come componente essenziale dello sviluppo capitalistico; spinge in avanti, dall’interno, la produzione capitalistica, fino a farla trapassare completamente in tutti i rapporti esterni della vita sociale[4].

Ogni scontro, ogni attacco capitalista, rende il rapporto sociale di fabbrica identificabile con il rapporto di produzione, ovvero più direttamente politico. L’obbiettivo del capitalista è distruggere l’operaio collettivo per ottenere solo singoli operai, individualizzati e depotenziati. Mentre il capitalista diviene capitalista collettivo, con la forza del monopolio assoggetta l’intera società all’unico fine possibile in una forma capitalista: la produzione. Tutto diventa quindi rapporto di produzione, ogni singolo rapporto sociale è destinato al profitto. Il regime di fabbrica si espande al controllo di tutta la società, la società è pertanto caratterizzata da una compravendita primitiva fatta di individui singoli che vendono la loro forza-lavoro al capitalista collettivo. La società diventa quindi fabbrica sociale e la fabbrica in quanto tale sembra sparire.

Data questa trasformazione è necessario per Tronti aprire una lotta generale contro il sistema sociale, che sia collocata dentro il rapporto di produzione, al fine di mettere in crisi la società capitalista da dentro la produzione capitalista.

A questo punto, il capitale cerca di scomporre l’operaio collettivo, l’operaio cerca di scomporre il capitale: non più diritto contro diritto, deciso dalla forza, ma direttamente forza contro forza. E questo è lo stadio ultimo della lotta di classe al livello più alto dello sviluppo capitalistico[5].

L’operaio deve pertanto comprendere che tutto sta dentro la produzione capitalista, anche la sua figura. Deve vedere se stesso come particolare del capitale, non deve schierarsi solo contro la macchina o il rapporto di produzione, ma anche contro se stesso, contro la forza-lavoro in quanto merce. Il capitalista, che ha la necessità di vedere tutto il lavoro dentro il capitale, cerca in tutti i modi di colonizzare i territori esterni e poi interni alla produzione capitalista, cerca di integrare l’operaio collettivo, l’operaio che combatte l’operaietà disarticola questo tentativo.

Lo sviluppo capitalista è in sostanza per Tronti il processo di integrazione e sussunzione della classe operaia all’interno delle logiche del capitale: «A questo punto il processo di oggettiva capitalizzazione delle forze soggettive del lavoro, si accompagna, e deve accompagnarsi, al processo di dissoluzione materiale dell’operaio collettivo e quindi dell’operaio stesso, in quanto tale: ridotto esso stesso a proprietà del modo di produzione capitalistico, e quindi funzione del capitalista. È chiaro che, su questa base, l’integrazione della classe operaia dentro il sistema diventa necessità vitale per il capitalismo: il rifiuto operaio di questa integrazione impedisce al sistema di funzionare. Diventa possibile una sola alternativa: stabilizzazione dinamica del sistema o rivoluzione operaia»[6].

Se perciò la classe operaia rappresenta una merce e al contempo il fatto costitutivo della dinamica del capitale, il capitalismo andrà spezzato dal dentro della fabbrica capitalistica. Ma questa rottura può avvenire solo se il movimento operaio si pone all’altezza dello sviluppo capitalistico, non quando la crisi economico-produttiva si è sviluppata o esaurita, ma alla stessa altezza politica della controparte, come contraddizione interna specifica. La classe stessa deve porsi a un adeguato livello di sviluppo, ovvero a un adeguato grado di coscienza rivoluzionaria. Da una parte ci sarà quindi un capitalista che scompone la classe e il suo rapporto sociale di produzione e dall’altra l’operaio collettivo che lo ricompone politicamente. Da un lato quindi una classe padronale che cerca di integrare economicamente l’operaio, dall’altro lato una classe operaia che risponde collettivamente e politicamente con il conflitto.

Alla classe operaia non basta opporre un contropotere per un miglioramento delle proprie condizioni. La classe operaia è l’unica contraddizione insolubile dentro il sistema, l’unica formazione sociale che per sua natura rimanda a forme politiche fuori dal sistema stesso. Pertanto non può limitarsi a un’agitazione riformista né a un’autodifesa economicista. Deve puntare a costruire un altro potere politico all’interno del sistema capitalistico. E in questo l’organizzazione rivoluzionaria ha il compito sì di portare la coscienza di classe, ma di farlo all’interno del processo di produzione, all’interno della fabbrica, seguendo la contraddizione che distingue la classe operaia nel capitalismo, ovvero non relegando la politica alle forme dello Stato borghese e al controllo dei vertici dello Stato, «espressione particolare dei bisogni sociali della produzione capitalistica»[7]. Quello che per Tronti le organizzazioni operaie, integrate o sulla via dell’integrazione, non hanno compreso è che: «La macchina dello Stato borghese va spezzata oggi dentro la fabbrica capitalistica»[8].

Casualmente il secondo dei «Quaderni rossi» verrà pubblicato il 26 giugno 1962, undici giorni dopo, il 7 luglio, decine di migliaia di operai assalteranno la sede Uil di piazza Statuto per protestare contro l’accordo separato siglato da Uil e Sida con la dirigenza Fiat. La rivolta sarà il congresso fondativo dell’operaismo politico italiano, di cui già Panzieri fu un mero spettatore perché, come ricorda Alquati: «Panzieri era furibondamente contrario, terrorizzato dai fatti di piazza Statuto. Il primo volantino era critico nei confronti dei fatti di piazza Statuto. Piazza Statuto ci ha divisi definitivamente, non ci siamo rimessi più insieme»[9].

A ben vedere non fu solo l’esaltazione del futuro gruppo di «classe operaia» a rompere i «Quaderni rossi», e neanche la mera divisione sull’intervento diretto nelle lotte. Quanto dice Tronti nel suo primo intervento La fabbrica e la società è il primo tassello dell’operaismo politico italiano e contraddice pienamente le suggestioni autogestionarie di Panzieri e i suoi. In seguito la divisione teorico-politica verrà approfondita fino a diventare irricevibile per il socialista, ma già in questo primo intervento si prefigura la declinazione di un operaismo che lotta in primis contro l’operaietà stessa, un operaismo politico appunto perché si distingue da altri operaismi sindacali o populisti: «questi si sono caratterizzati nel considerare gli operai come una “quota debole” della popolazione, e quindi bisognosa d’aiuto; questi operaisti amavano gli operai, l’operaietà stessa. Gli operaisti “politici” al contrario s’interessavano ai proletari operai perché, contro ogni universalismo, li vedevano come una parte forte, una forza»[10].


Note
[1] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi (1943-1988), Einaudi, Torino 2006, p. 333.
[2] R. Panzieri, Scritti. 1956-1960, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1973, p. 113.
[3] AA.VV., Quaderni rossi. Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, n. 1, Edizioni Avanti!, Milano 1961, p. 239.
[4] La fabbrica e la società, in M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 43.
[5] Ivi, p. 51.
[6] Ivi, p. 53.
[7] Ivi, p. 55.
[8] Ibid.
[9] Intervista a Romano Alquati, in G. Trotta – F. Milana, a cura di, L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, p. 738.
[10]Intervista a Romano Alquati, in G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, a cura di, Gli operaisti, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 45.

Andrea Rinaldi si è laureato in scienze storiche presso l'Università di Bologna con una tesi sul pensiero di Mario Tronti nei «Quaderni rossi» e «classe operaia». Ha fatto parte della redazione di Commonware.

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