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Comunisti: “l’unità di azione” senza prospettiva politica come garanzia della frammentazione

di Raffaele Gorpìa

“Il marxismo rinnovato e coerentemente declinato in senso politico è il compito storico delle nuove generazioni. L’unità di azione, senza una prospettiva apprezzabile, rischierà sempre più di diventare un’alternativa di accomodamento alla insuperabile frammentazione”

Immagine per home articolo Gorpia.jfif Nel 2023 si sono già celebrati ben 4 congressi di partiti comunisti di diversa matrice ideologica, rispettivamente Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Comunista (ex Rizzo ora con nuova segreteria nazionale affidata ad Alberto Lombardo), Sinistra Classe Rivoluzione e, infine, solo per il momento, il congresso dei C.A.R.C (compagni che sostengono di aver compreso definitivamente la causa della crisi e della dissoluzione del socialismo del secolo scorso) che, inoltre, agitano la formula fissa valida per tutte le stagioni del “governo di emergenza e di blocco popolare” quando in Italia non riusciamo neppure lontanamente ad avvicinarci ad una situazione come quella attuale in Francia, fatta di lunghe mobilitazioni sociali e dove, per di più, vediamo che finanche l’eroica lotta della GKN di questi due anni fatica a riunire attorno a sé più forze sociali di una certa consistenza.

Tuttavia, per il prossimo anno assisteremo ancora e imperturbabilmente alla rituale celebrazione del congresso di Rifondazione Comunista e per l’anno successivo di quello del PCI di Alboresi, per poi ricominciare la giostra daccapo in attesa di qualche scadenza elettorale che, chissà, con una fortunata alchimia possa prima o poi piazzare qualche compagno sulla poltrona parlamentare. Qualche altra sigla non certo di massa sicuramente ci sfugge, tipo Sinistra Anticapitalista o Rete dei Comunisti o piuttosto Potere al Popolo, quello che non sfugge è, però, il riproporsi imperturbabile dell’orgia autoreferenziale di questi soggetti politici, orgia che rispecchia sempre più la spia della totale sfiducia nelle possibilità rivoluzionarie dell’epoca contemporanea, sfiducia che viene però compensata col compiacimento nella celebrazione della propria organizzazione.

Ed allora giù col solito rituale di analisi succedentisi pressoché in fotocopia sulla situazione italiana e internazionale con l’unica differenza sostanziale relativa alla diversa considerazione che si fa sullo scacchiere geopolitico in merito al ruolo esercitato da Russia e Cina. Sappiamo, per storia oramai lunga di oltre venti anni, che le numerose scissioni originatesi in seguito alla crisi di Rifondazione Comunista non hanno condotto ad alcuna ricomposizione, anche perché la tendenza dell’area politica comunista è stata da sempre storicamente portata alla scissione piuttosto che alla ricomposizione, per cui non si vedrebbe il motivo per il quale in questa fase storica ci dovrebbe essere un momento di coagulo di forze.

Per certi versi la galassia di soggetti presenti negli anni ’70 del Novecento era, probabilmente, il portato di una reale tensione rivoluzionaria che faticava a trovare i contenitori all’altezza del compito storico del quale si riteneva di essere investiti. Oggi, credo si assista ad una simile frammentazione politica ma per un motivo probabilmente opposto, ovvero come detto, la certezza dell’impossibilità di alcuna trasformazione sociale in senso progressivo, un fenomeno epocale che si ritiene assolutamente incontrastabile.

Ciò al di là di quello che si declama propagandisticamente e della solita solfa tra maturità delle condizioni oggettive (ora si è aggiunta anche la guerra Nato-Russia) e immaturità delle condizioni soggettive sulle quali, tra l’altro, da anni e non a caso, non si denota la più pallida idea di come si possa farle divenire mature e di come, di conseguenza, possa nascere e crescere un movimento rivoluzionario. Per inciso, se solo dovesse la storia decidere di accelerare il suo corso e si arrivasse ad una crisi potenzialmente rivoluzionaria dove le masse esprimessero una capacità di mobilitazione almeno sui livelli di cinquanta anni fa, ad essere impreparati sarebbero proprio questi micro-partitini che di avanguardia non hanno assolutamente nulla. Oggi, tuttavia, almeno per senso di responsabilità ci si potrebbe richiamare alla guerra scatenatasi contro la Russia e al pericolo di guerra nucleare che ne deriva per affermare la necessità di tutti i soggetti politici di fare un passo indietro e tentare la strada della riunificazione almeno tra le componenti con maggiore omogeneità ideologica nel tentativo di recuperare un peso politico nel proprio Paese. Per semplificare con un esempio si potrebbero immaginare fusioni quantomeno tra aree ancora richiamantesi al marxismo-leninismo da un lato, e aree di matrice trotzkista dall’altro; ma siamo ben lungi dal poter assistere a questo scenario né per l’oggi né tanto meno a medio-lungo termine.

Le divisioni sono strumentalmente basate su tendenze diverse all’interno della stessa area ideologica (ad es. trotzkista e marxista-leninista), tendenze che trovavano una giustificazione in una determinata fase storica ma che vengono, poi, miseramente usate a giustificazione dell’esistenza della propria formazione politica oggi. A cosa serve celebrare congressi rispettando burocraticamente cadenze statutarie che non hanno più alcun senso? Sa di ipocrisia darsi una parvenza di democrazia e di trasparenza ove, di fatto, non ne esiste traccia reale e dove il narcisismo dei cosiddetti gruppi dirigenti domina il campo in queste micro-formazioni che, giova sempre ricordare, presentandosi alle elezioni ristagnano stabilmente ai numeri decimali. Non esiste gravità della crisi interna o internazionale che smuova queste ossificate organizzazioni, totalmente irresponsabili rispetto ad un possibile precipitare degli eventi. Perché si continua a partecipare ai cortei o alle manifestazioni politiche con le proprie bandierine quando si sa già che ciò non porterà alcun aumento significativo di militanti tra le proprie file? Perché ci si ostina ad organizzare iniziative pubbliche con sparute presenze al seguito, solo per esibire la presunta “correttezza” e opportunità delle proprie posizioni?

Vi è uno squallido elemento di insano protagonismo in tutto ciò, non vi è dubbio, dove tra l’altro continua imperterrita una competizione tra nani che è solo fine a se stessa e non porta alcun beneficio per la crescita politica partitica o di movimento che sia; è certo anche che tale frammentazione politica rifletta, oltre che una forma di rivalsa personale alla marginalità politica vissuta in anni giovanili (ma la marginalità di fatto resta al di là di trovarsi nell’era dei social), anche una certa crisi e susseguente disgregazione delle forme di partecipazione politica che si manifestano appunto in questi termini. È probabile, inoltre, che vi sia un male più profondo come spiegazione di tale scenario sommariamente descritto.

Intanto, la crisi del marxismo occidentale si è manifestata anche nella incapacità di leggere in modo compiuto la causa della caduta dei sistemi dell’Est aprendo il varco a letture faziose nello stesso mondo comunista con interpretazioni volte a portare acqua al mulino di contrapposizioni storiche tra diverse tendenze politiche che non spiegano affatto in modo scientifico, né tanto meno con una concezione materialistica, la crisi e la dissoluzione del blocco sovietico. Di fatto, per buona parte, sono tutte di stampo idealistico le analisi che fanno i vari partiti e partitini comunisti in merito alla caduta dei Paesi socialisti. Laddove, tra l’altro, questa crisi del marxismo occidentale non viene riconosciuta, porta all’accontentarsi di spiegazioni generiche e superficiali in merito alla crisi del Movimento Operaio e Comunista ma, di fatto, con la sparizione della prospettiva rivoluzionaria e del socialismo mascherata da formule trite e ritrite. Bisognerebbe tornare a ragionare su più livelli per immaginare la ricostruzione di un nuovo partito di classe, finalmente individuando e analizzando i “nuovi proletari senza rivoluzione” come fece, ad esempio, circa mezzo secolo fa nei suoi saggi Renzo Del Carria. Questo perché il vuoto più profondo che si avverte è legato alla mancata rottura generazionale di un mondo giovanile incapace di contestare l’ordine esistente come, del resto, avvenne dalla fine degli anni ‘60 con i movimenti di contestazione dei valori scaturenti dalla società dei consumi, con i suoi intellettuali e con la ventata di rinnovamento (anche nel marxismo) che dovrebbe portare e un’attenzione particolare la meriterebbe l’ancora esistente mondo giovanile comunista; ma le rotture di cui abbiamo bisogno sono anche quelle dettate dalla mancata integrazione del proletariato immigrato che è comunque destinato ad aumentare anche in Italia e non sarà necessariamente un proletariato a bassa scolarizzazione; e poi vi è, come sempre, un vasto ed eterogeneo mondo nel campo intellettuale che vive ai margini dei propri ambiti di competenza o perché precario o semplicemente perché controcorrente.

Senza il coagulo politico progressivo di tutti questi potenziali soggetti antagonisti, noi potremmo star qui a continuare a parlare all’infinito e inutilmente di erosione e proletarizzazione del ceto medio e del suo relativo spostamento a destra; contemporaneamente, continueremmo a parlare, senza inchiesta sociale tra l’altro, di peggioramento della condizione operaia e di relativa egemonia delle destre sul mondo del lavoro. Quel che è peggio è soprattutto assistere negli ultimi mesi, anche a causa e a seguito delle recenti strampalate strategie elettorali della scorsa estate, all’affermazione e alla diffusione delle tesi dell’impossibilità nel breve termine di qualsiasi unificazione politica tra gruppi politicamente omogenei di comunisti, ponendo in alternativa come dogma la sola possibilità dell’unità di azione tra gli stessi, posti in ordine sparso tra le varie sigle e siglette storicamente fatte di gruppi dirigenti litigiosi a cui si faceva riferimento.

In pratica è come se, indirettamente, si affermasse la resa nei confronti della frammentazione esistente, avallando di fatto le logiche autoreferenziali dei gruppi dirigenti chiusi nelle loro torri. Quest’ultimo è, tra l’altro, un cedimento grave a una logica movimentista, magari inconsapevole, che denota profonda sfiducia, o quanto meno disincanto, sull’idea di poter costruire il partito di qui almeno ai prossimi venti anni, ammesso che sino ad allora saremo ancora vivi. Mi verrebbe da chiedere a taluni compagni, ma quanti coordinamenti si sono susseguiti senza alcun costrutto in questi anni che banalmente si fondavano sull’unità d’azione ma non sono mai approdati a nulla di concreto né in termini di avanzamento politico nel Paese né tanto meno in termini di radicamento nelle classi popolari? Ma, poi, se si parla di unità di azione, in questo momento, la stessa, lo affermo provocatoriamente, non potrebbe essere proposta anche ai 5 Stelle e a Sinistra Democratica con le quali molti punti di convergenza si potrebbero trovare dato che quello che conta è, a quanto pare, essenzialmente condividere iniziative su singoli temi politici? La verità è che, anche con l’avallo degli iscritti/militanti, ci si vuol mantenere nel proprio orticello per preservarsi autonome scelte nelle fasi elettorali, chissà che, prima o poi, qualcuno ribecchi lo scranno parlamentare, mentre nei periodi che intercorrono tra un’elezione e l’altra prevale imperterrita una logica concorrenziale tra sigle comuniste, logica prima latente e poi apertamente dispiegantesi, appunto, nei periodi elettorali.

Per fare un esempio: strumentale e ottusamente folkloristica appare la posizione di taluni gruppi in relazione alla Repubblica Popolare Cinese. In tempi di conflitto strategico epocale Cina-Stati Uniti, con la Cina impegnata in una lotta decisiva per difendere le conquiste ottenute dall’epoca di Deng Xiao Ping ad oggi, non si trova di meglio che etichettarla, con una dose di ideologia spicciola, come imperialista. La Cina post-rivoluzionaria era un Paese prevalentemente contadino che, a partire dalle riforme di Deng Xiao Ping, registrò un imponente afflusso di manodopera nelle città industriali dove si assistette, appunto, ad una forma di semi-proletarizzazione dei contadini, caratterizzata da una divisione di genere e generazionale all’interno delle stesse famiglie dei piccoli coltivatori, con donne non sposate e giovani a lavorare nelle fabbriche e genitori di mezza età impegnati nelle coltivazioni. Questo fenomeno ha rappresentato una sorta di ammortizzatore sociale per il nuovo proletariato e, al tempo stesso, ha contribuito a mantenere basso il costo del lavoro. Ma tale dinamica si è rivelata sempre meno efficace con il passare delle generazioni. La conflittualità operaia (e non solo) è, alla fine, esplosa. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, dal 2006 al 2017 la Cina è il Paese che ha avuto il più rapido incremento salariale al mondo e, pertanto, abbiamo assistito alla classica dialettica tra lotte operaie e sviluppo capitalistico, oramai scomparsa nel mondo nord-occidentale, tra l’altro, deindustrializzato. Insomma, il conflitto di classe è stato uno degli elementi determinanti che ha spinto la dirigenza cinese a perseguire una sorta di compromesso socialdemocratico che, per essere sostenibile, necessita di quella risalita nelle catene del valore, ignorata da molti sedicenti comunisti, assolutamente vitale per non soccombere vanificando i progressi registrati per una intera epoca da Deng ai giorni nostri.

Si tratta dell’unica strategia in grado di catturare una quota maggiore di plusvalore prodotto, da sottrarre alle corporation economico-finanziarie imperialistiche (quelle sì che lo sono) e da redistribuire almeno parzialmente, per esempio creando forme di moderno welfare state, senza bloccare l’accumulazione del capitale cinese. Se questa strategia fallisce è la stessa tenuta sociale della società cinese a essere messa in serio pericolo. Per questo il Paese asiatico sta affrontando una sfida esistenziale da cui non si può sottrarre. Per gli ideologi trotzkisti e non solo, che fanno torto al loro stesso ispiratore, vi è l’insopprimibile impulso (anti-scientifico e anti-dialettico) a etichettare la Cina come imperialista basandosi solo su alcuni dati parziali, ma tanto basta per il vezzo di distinguersi a tutti i costi, magari ripescando citazioni decontestualizzate a destra e a manca. Troppo accomunante è anche solo la definizione di Cina come capitalismo di Stato, per cui meglio spingere sul tasto impressionistico dell’imperialismo in barba alle caratteristiche che Lenin diede dello stesso.

Ma di peggio, da parte di questi gruppuscoli sempre più piccoli, vi è la demonizzazione del PCI del dopoguerra, con un riflesso nefasto verso le giovani generazioni; se solo si immagina, inoltre, quale impatto possa avere verso un giovane che voglia avvicinarsi al comunismo tutta la ricostruzione ideologica a senso unico contro l’esperienza dell’Unione Sovietica fatta dai gruppi trotzkisti, di fatto convergente, nella sostanza, alla vulgata anticomunista venuta fuori dopo l’89!

Chiudiamo con l’annotazione sullo stanco conformismo e, quindi, l’inerzia dello stesso iscritto/militante di queste organizzazioni; colui che non rivendica il diritto di partecipare e concorrere alle scelte delle dirigenze, soprattutto previo dibattito democratico ampio e diffuso, nonostante queste stesse scelte siano le principali cause dell’irrilevanza politica a cui condannano i vari segretari nazionali la propria organizzazione, evidentemente diviene complice o si dimostra un rassegnato conformista dello status quo. A chi prende la tessera di partito è sufficiente l’iscrizione o (quando va bene) la militanza fine a se stessa su base esclusivamente testimoniale e schiacciata senza sfumature sulla linea della direzione nazionale, quando di linea si può parlare. Senza intellettuali o avanguardie che tornino a sporcarsi le mani per capire davvero quali siano le caratteristiche anche solo nazionali del capitalismo e cosa è accaduto in questi anni a quelle che ancora chiamiamo classi subalterne, credo sia piuttosto inutile rimestare nei nostri recinti sempre più ristretti.

Il marxismo rinnovato e coerentemente declinato in senso politico, ovvero riportato sulla terra del conflitto e dei bisogni delle ridefinite classi subalterne è il compito storico delle nuove generazioni, insieme ad una diffusione di una ricostruzione storica del movimento operaio e comunista del secolo scorso più equilibrata e non “viziata” dalle vicende personali, di vecchi militanti che impediscono una visione d’insieme delle epoche passate. L’unità di azione, senza una prospettiva apprezzabile, rischierà sempre più di diventare un’alternativa di accomodamento alla insuperabile frammentazione.

Comments

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Raffaele Gorpia
Thursday, 11 May 2023 13:27
Faccio notare, al fiducioso signor Enzo Rossi. come il comunista Rizzo abbia appoggiato il governo D'Alema che ha bombardato la Serbia, cosa sicuramente più pesante e ripetitiva (soprattutto se immaginiamo il lancio di bombe a ripetizione) dell'articolo in questione.
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Eugenio61
Wednesday, 12 April 2023 10:56
CiViDi
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Enzo Rossi
Tuesday, 11 April 2023 20:23
Nelle turbolenze dei primi anni settanta tra i vari protagonisti degli svariati movimenti (allora prevalentemente studenteschi) che si contendevano il primato della piazza vi era un foglio periodico che si autodefiniva “Tribuna rossa”, scritto, naturalmente con inchiostro rosso.
Per chi allora si mobilitava concretemente per mettersi a capo della opposizione rivoluzionaria come attore e non come semplice osservatore questo foglio sembrava una voce proveniente dal cielo e non dalla realtà dello scontro socio-politico di classe in atto.
Alle problematiche sollevate dalla vivacità di quel fertile movimento gli osservatori di Tribuna rossa, tra le nuvole dove si trovavano, tranciavano i loro giudizi a destra e a manca su tutto; giudizi fondati, naturalmente, su quello che facevano gli altri, senza mai mettere in discussione il proprio operato nella realtà o perchè assenti dal contesto delle lotte o, se presenti, non disposti a dichiararsi corresponsabili dei magri risultati ottenuti nelle quotidiane contese.
Questi erano sempre dalla parte della Verità ultima e, soprattutto, lontani dalla autocritica.

Per tornare ai giorni nostri il lungo pesante e ripetitivo articolo di Daniele Gorpìa oltre buttare letame su tutte le forze politiche naufragate nel mare nostrum dopo l'89 (ma Lui dov'era?) si accanisce contro la scelta coraggiosa e intelligente del compagno Marco Rizzo che ha deciso di unirsi nell'alleanza in difesa della Costituzione formata dai vari gruppi protagonisti delle lotte contro i governi antidemocratici succedutisi negli ultimi tre anni; una partecipazione con punte di massa rappresentate dalle manifestazioni di Torino, Trieste, Genova, Piombino e altre non di massa ma ugualmente significative.

La linea indicata dal comunista Rizzo, a prescindere del suo passato militante, è quella giusta in quanto la prospettiva che abbiamo di fronte è quella di un ulteriore e pesante attacco da parte del governo e dei poteri che esso rappresenta alle basi costitutive della nostra Repubblica nata dalla Resistenza; ovvero si tratta di difendere la democrazia nel suo valore popolare e progressivo sbloccando ed invertendo un processo negativo in corso da anni, con diversi gradi di irruenza e che trova nell'attuale situazione, una intensità tale da mettere in pericolo i presupposti fondanti la Repubblica ovvero quelli della sovranità e della indipendenza, della partecipazione dei cittadini e soprattutto dei lavoratori all' “organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art.3). Su questo asse occorre ricostruirela presenza comunista così come fu ricostruita, dopo lo sfascio del biennio rosso e l'avvento del fascismo. Ricostruire l'iniziativa della parte sana del paese che ha preso coscienza della situazione e già si è mobilitata contro l'imperialismo nella sua versione post nazifascista

Se pensiamo ai sacrifici che i comunisti hanno dovuto compiere per affrontare nel periodo fascista un regime di quella natura e violenza e perdipiù se pensiamo all'esiguo numero di militanti allora disponibili possiamo dirci ancora fortunati: Abbiamo la fortuna di avere ancora viva una memoria storica, una ricca letteratura , una ricca dotazione di intellettuali antifascisti (nel pieno senso del termine) in grado di portare le masse alla riscossa nei tempi e nei modi dovuti.

Il compagno Rizzo, insieme a molti altri, ha capito bene il momento e si sta muovendo in coerente conseguenza. Mi pare ingrato e fuorviante rispetto ai bisogni reali e genuini del mondo del lavoro rivangare modelli di “unità dei comunisti” basate sulla ripetizione di esperienze fallimentari come quelle abortite con la metamorfosi dei diversi gruppi o partiti che non hanno saputo operare laddove era necessario ovvero nella realtà dello scontro di classe costruendo capisaldi all'interno del movimento operaio e in quello democratico-antifascista con coraggio e determinazione. In questi anni passati si sono lasciati operare in solitudine quei compagni che cercavano di ostacolare il percorso antipopolare delle politiche sviluppate dal PD e dai suoi servi sciocchi; questa è la vera origine della situazione insoddisfacente nella quale viviamo oggi.

Per superare la situazione l'unico percorso utile è quello delle alleanze così come prospettate da Democrazuia Sovrana e Popolare con una attenzione particolare al quadro delle lotte e delle forze che con noi si stanno muovendo sul piano internazionale.

Ancora una volta è più che valido lo slogan rivoluzionario “abbandoniamo le illusioni , prepariamoci alla lotta!”
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Eugenio61
Tuesday, 11 April 2023 10:20
Bell'articolo, ben argomentato e lucido. L'auspicio della creazione di un soggetto politico comunista unitario è condivisibile. Senonché di fronte all'ormai pluridecennale fiera dell'autoreferenzialità claustrofila, dell'ipersettarismo narcisistico, della caccia al rinnegato revisionista, del leaderismo di comandanti senza esercito, della gara a chi c'ha il marxismo più lungo (di cui il presente sito è nel suo piccolo significativo esempio) mi sembra un obiettivo totalmente irrealizzabile.
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