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Le dure repliche della storia

Marino Badiale, Fabrizio Tringali

Syriza bandiere 0Come era prevedibile aspettarsi, l'esito infausto della vicenda greca sta cambiando qualcosa, nelle riflessioni interne al variegato mondo “antisistemico”, che è costretto a confrontarsi con quelle che, in altro contesto, Bobbio chiamò “le dure repliche della storia”.

Finalmente una parte di quel mondo sta accettando una delle nostre tesi di fondo: cioè il fatto che mettere sul tavolo l'uscita dall'euro, almeno come “piano B”, è una condizione necessaria (anche se, come abbiamo ripetuto molte volte, non sufficiente) per qualsiasi programma politico di contrasto ai ceti dominanti nazionali e internazionali.

Ci sembra importante segnalare le sempre maggiori aperture che si stanno registrando in questo mondo, perché anche di qui passa la necessaria costruzione di un soggetto politico realmente antagonistico all'attuale organizzazione sociale.

Senza nessuna pretesa di esaustività, indichiamo alcune prese di posizione succedutesi dopo la sconfitta di Syriza (qualcuna l'avevamo già segnalata in post precedenti).

 

Riccardo Achilli prende una posizione netta a favore della nascita di “una sinistra nazionale, che mette l'uscita dall'euro al centro della sua proposta, e lo smantellamento della sovrastruttura comunitaria, che deve essere considerata un nemico, non un interlocutore.”

 

J.K.Galbraith, in un'intervista pubblicata su "Sbilanciamoci", si chiede "può un paese che ha pagato sulla pro­pria pelle il dram­ma­tico fal­li­mento delle poli­ti­che euro­pee spe­rare di cam­biare quelle poli­ti­che all’interno della cor­nice dell’eurozona?" e risponde molto semplicemente "Bene, penso che la rispo­sta a quella domanda sia evi­dente a tutti.". Si tratta di un intervento molto interessante, dal nostro attuale punto di vista, soprattutto perché pubblicato su sbilanciamoci.info, un sito che rappresenta uno dei punti di riferimento del mondo della sinistra pro-euro.

 

Un intervento del gruppo “Militant”, pone, con una chiarezza inusuale a sinistra, il tema dell'Unione Europea come forma attuale di colonialismo nordeuropeo.

 

Un intervento di Dino Greco, della Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista, invita il suo partito a prendere finalmente coscienza del fatto che "l’euro è l’instrumentum regni, la tecnicalità monetaria di una politica socialmente reazionaria, di una inaudita oppressione di classe che trascina con sé una drammatica fuoriuscita dalla democrazia".

 

In questo articolo discuteremo tre interventi pubblicati sul sito di Attac-Italia. Il primo è dell'amico Marco Bertorello, che è l'autore di “Non c'è euro che tenga”, un testo interessante e informato, la cui tesi fondamentale è riassunta dal sottotitolo “per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne”.

 

In un suo articolo pubblicato sul "Il Manifesto" e ripreso sul sito di Attac-Italia, Bertorello dimostra di essere capace di tenere conto delle "dure repliche della storia". Dopo aver rapidamente analizzato la vicenda greca, conclude infatti “Da ora non è pensabile un cambiamento reale senza mettere in conto un'uscita dalla moneta unica e senza attrezzarsi di conseguenza. Non perché l'uscita rappresenti una soluzione: i problemi globali con cui localmente ogni paese è costretto a misurarsi non si risolvono con espedienti monetari e neppure di geopolitica (la Russia di Putin non fa beneficenza). Ma perché l'irriformabilità continentale impedisce di perseguire il benché minimo cambiamento.”

 

Da quando abbiamo cominciato a occuparci dell'euro, cioè da circa 4 anni a questa parte, non abbiamo fatto altro, in ultima analisi, che sostenere questa stessa tesi, argomentandola al meglio delle nostre possibilità. Data questa sostanziale convergenza di vedute con Bertorello, possiamo provare a fare assieme a lui un passo in più, ragionando sul fatto che il “piano B”, se davvero venisse preparato da una forza politica di governo del tipo di Syriza, tenderebbe inevitabilmente a trasformarsi in piano A. Come dimostra la Grecia, qualunque tentativo di porre fine all'austerità e all'egemonia tedesca fallirebbe, a causa dell'irriformabilità della costruzione europea. È davvero ingenuo, infatti, chi pensa che la crisi greca avrebbe avuto sbocchi diversi se le posizioni anti austerità fossero state appoggiate da più governi. La posizione tedesca, e dei paesi ad essa più vicini, è chiarissima: o si sta nella moneta unica alle loro condizioni, o si esce. La Germania ha il suo piano B. Se e quando la loro egemonia dovesse essere messa in discussione (cosa molto improbabile), Merkel e Schauble non esiterebbero a far saltare il tavolo, ponendosi di fronte alla propria opinione pubblica come coloro che hanno impedito che i contribuenti tedeschi pagassero gli sprechi di Stati cialtroni. Riceverebbero plauso ed appoggio, nonostante le difficoltà che il crollo della moneta unica comporterebbe per la Germania.

Date queste premesse, il punto fondamentale è che una forza politica antisistemica che abbia ambizioni di vittoria alle elezioni, e quindi di governo, non può certo nascondere ai propri elettori la possibilità che, per liberarsi dalla gabbia dell'austerità imposta dai partner europei, sia necessario lasciare la moneta unica. Questo non solo per elementare deontologia democratica, ma soprattutto perché, come abbiamo spiegato più volte, il recupero della sovranità monetaria non rappresenta affatto la soluzione a tutti i problemi: essa rappresenta piuttosto la condizione necessaria per poter scegliere fra politiche economiche e sociali diverse fra loro. Una volta fuori dall'euro, ciascun ceto sociale proverà a far valere nella nuova situazione i propri interessi, e a condizionare le scelte politiche. Si aprirà così un periodo di scontri sulle varie questioni, a cominciare ovviamente dal tema di chi dovrà sopportare i costi dell'uscita stessa. E in tale contesto, le forze antisistemiche potranno contare solo sull'appoggio dei propri ceti sociali di riferimento, che non possono quindi essere ingannati o tenuti all'oscuro di scelte così importanti. Al contrario, devono essere ben informati e preparati.

Tutto questo rende chiaro come l'uscita dall'euro, sia pure come “piano B”, deve necessariamente far parte del programma esplicito di una formazione politica antisistemica, la quale, probabilmente, proprio per questo, in caso di vittoria elettorale si troverebbe immediatamente di fronte a fughe di capitali, corse agli sportelli bancari, speculazioni sui mercati. Ed ecco che il piano B si troverebbe automaticamente trasformato in piano A, dato che l'uscita dall'euro diventerebbe una delle tante necessarie misure di emergenza che occorrerebbe prendere.

Fin in qui abbiamo citato articoli che convergono sulle nostre tesi. In chiusura di questo pezzo analizziamo brevemente due interventi di diversa impostazione.

 

Il primo è di Marco Bersani (portavoce di Attac-Italia). Il pezzo  sembrerebbe rappresentare un passo in avanti nella presa di coscienza su cosa siano in realtà euro e UE. In esso appaiono infatti espressioni molto forti, fino ad arrivare alla decisa affermazione dell'irriformabilità dell'UE e della necessità di far saltare i vari trattati. Su queste premesse, a noi sembrerebbe inevitabile la convergenze su posizioni sovraniste e anti-euro. Purtroppo la lucidità che Marco Bersani dimostra nella prima parte del suo intervento si perde completamente nel finale. La presa di posizione anti-euro viene rifiutata in quanto “arma di distrazione di massa”: invece di discutere della moneta unica bisognerebbe, dice l'autore, spendersi per la costruzione di un “processo costituente europeo” che dovrebbe basarsi non più sull'Europa dei popoli, bensì sui “popoli dell'Europa”.

Di fronte a simili prese di posizione è necessario essere molto chiari: Bersani sta parlando del nulla.

È triste vedere come il portavoce di Attac si abbassi ad utilizzare uno dei metodi della peggior politica: pronunciare vuoti giri di parole per evocare alti ideali, stando ben attenti a non indicare alcunché di concreto. Qualunque persona intellettualmente onesta riconosce che non esiste (e non esisterà per decenni) alcuna possibilità che si concretizzi l'auspicato “processo costituente europeo” su base popolare. Bersani riconosce la totale negatività dell'UE, ma il suo rifiuto delle posizioni anti-euro gli impedisce uno sbocco politico coerente. Come spesso succede nel mondo antisistemico, la radicalità degli enunciati generali si abbina ad una totale incapacità di pensare una prospettiva politica concreta, senza la quale è (giustamente) impossibile costruire consenso. Marco Bersani non si preoccupa del fatto che la sua proposta sia totalmente fuori dalla realtà. Lancia parole al vento, il cui effetto non può che essere l'assoluta marginalità politica, sociale e culturale.

 

L'ultimo intervento di cui vogliamo discutere è quello di Pino Cosentino, anch'esso pubblicato sul sito di Attac-Italia.

La nostra impressione è che le obiezioni sollevate dall'amico Cosentino si mantengano all'interno di uno schema che abbiamo già incontrato molte volte, nelle nostre discussioni su questi temi: si tratta della tesi che rifiuta la necessità, qui ed ora, di porre la battaglia per l'uscita dall'euro al centro del proprio agire politico, con l'argomento che i problemi veri sono altri.

Naturalmente la definizione di quali siano “i veri problemi” cambia a seconda degli interlocutori. In questi anni ci siamo sentiti dire che il problema non è l'euro ma il capitalismo, oppure che non è l'euro ma la globalizzazione, oppure che non è l'euro ma la mancanza di un progetto di società comunista.

Secondo Cosentino il vero problema non è l'euro, ma la nascita di “una nuova soggettività, che per la prima volta non sia una minoranza privilegiata che debba mantenersi al potere usando la forza coercitiva dello Stato, manipolando le coscienze, distribuendo prebende, creando clientele”. Cosentino sta cioè parlando della nascita di un soggetto sociale e politico di tipo partecipativo, capace di cambiare radicalmente i rapporti di potere esistenti, in modo che il potere stesso non sia più esercitato da un ceto di privilegiati, bensì dal popolo organizzato in base ai principi della democrazia partecipativa. Sulla base di questo, l'autore si dichiara d'accordo con noi e Bertorello, ma riesce contemporaneamente a condividere la tesi di Bersani sul fatto che l'euro sia “strumento di distrazione di massa”, perché la questione su cui concentrarsi non sarebbe, appunto, l'euro, ma la costruzione della soggettività partecipativa.

Questo intervento di Cosentino tocca in effetti un tema importante, quello della necessità di una rivoluzione nei rapporti di potere. Per Cosentino è illusorio sperare di eleggere un ceto dirigente migliore dell'attuale, capace di attuare politiche favorevoli ai ceti popolari. L'unica speranza risiede nell'allargamento effettivo della partecipazione democratica alle decisioni politiche. Pertanto, nel dibattito attuale, non appare molto importante stabilire se si stanno proponendo scelte politiche giuste o sbagliate (e Cosentino riconosce che l'uscita dall'euro è una proposta giusta) perché esse, giuste o sbagliate, non cambierebbero i rapporti di potere in essere. Anche una proposta giusta, quindi, diventa un' “arma di distrazione di massa” in quanto distoglie dalla vera questione, la costruzione della democrazia partecipativa.

La nostra risposta a Cosentino è simile a quella che abbiamo già dato a chi ha sostenuto che vi fossero questioni politiche più importanti dell'euro. Nella sostanza si tratta di obiezioni che sembrano non tenere conto di cosa significhi lottare sul terreno della politica. A chi ci obiettava che il problema vero è il capitalismo o la globalizzazione abbiamo sempre risposto che combattere il capitalismo o la globalizzazione non significa ripetere all'infinito che il capitalismo è cattivo o la globalizzazione è cattiva, significa trovare nella realtà concreta una contraddizione che possa rappresentare un efficace punto di reale aggregazione per una opposizione sociale e politica.

Nessuno può pensare di creare una tale opposizione chiamando alla lotta contro “il capitalismo” o contro “la globalizzazione”: si lotta sempre contro aspetti concreti del dominio capitalistico, e il ruolo dell'analisi storica e politica sta nell'individuare quegli aspetti concreti che permettano una battaglia efficace, capace di aggregare le forze e di rappresentare il primo passo verso prese di coscienza più ampie che consentano davvero di sovvertire il sistema e, appunto come vuole Cosentino, cambiare i rapporti di potere.

Quello che abbiamo sempre sostenuto non è che l'uscita dall'euro è la soluzione di tutti i problemi, ma piuttosto che l'euro rappresenta una questione politica concreta del tipo appena indicato. La nostra tesi è che se si vuole costruire una forza politica davvero antisistemica, si dovrebbero mettere al centro della propria azione poche questioni concrete e importanti, e che l'euro dovrebbe essere una di queste. Ciò è a maggior ragione necessario se ci si pone nell'ottica partecipativa in cui si pone Cosentino. È abbastanza intuitivo, infatti, che una rivoluzione partecipativa necessiti della presa di coscienza di ampi strati della popolazione, i quali devono comprendere di essere stati spogliati di un diritto essenziale (quello di partecipare alle decisioni politiche che li riguardino), e devono poter intravedere una via che permetta la riconquista di tale diritto. Ma è impensabile che ciò possa avvenire finché il paese è immerso in un sistema che impedisce alle istituzioni democratiche di assumere liberamente decisioni politiche, economiche, sociali. Dentro il sistema europeo, lo Stato subisce i diktat delle istituzioni internazionali ed è privato di qualunque arma di difesa; gli enti locali sono ridotti a mere macchine amministrative che devono gestire continui tagli. È ampiamente diffusa l'idea, giusta, che le decisioni importanti sono prese altrove, lontano, fuori dalla portata del controllo dei cittadini.

Ad un “partecipazionista” dovrebbe dunque apparire chiaro che il primo passo da fare è allora rompere ogni legame europeo, recuperando la sovranità perduta, e respingendo al mittente l'obiezione che nella globalizzazione i vincoli non vengono solo dall'appartenenza all'euro, o dal mercato unico. Questa obiezione dice una cosa vera, naturalmente. Ma è ovvio che ogni paese può essere più o meno “globalizzato”, e che se si desidera la democrazia partecipativa, occorre che le istituzioni democratiche del paese siano depositarie della maggiore sovranità possibile, e che quindi bisognerebbe lottare contro euro e UE con la stessa convinzione con cui, per fare un esempio, ci si oppone al TTIP.

 

Per concludere: noi riteniamo che sia proprio l'uscita dall'euro (e più in generale la rottura di ogni vincolo europeo) il tema concreto sul quale si possa mobilitare una lotta sociale e politica che permetta le creazione di spazi di democrazia partecipativa.

Rifiutare questo terreno, che qui ed ora è secondo noi il terreno della lotta o almeno una sua parte essenziale, significa ridurre a flatus vocis sia l'anticapitalismo, sia l'antiglobalizzazione, sia la democrazia partecipativa.

Significa rifiutare di confrontarsi con le questioni politiche centrali del momento storico e condannarsi inevitabilmente alla marginalità.

Questa sembra la scelta di Marco Bersani. Speriamo non sia quella di Pino Cosentino e di tanti altri amici nel mondo antisistemico.

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