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controlacrisi

I compiti immediati della sinistra di classe in Italia e in Europa

Fabio Nobile e Domenico Moro

Rev. class struggle full x 4901La fine del modello bipolare e bipartitico in Europa

I risultati delle elezioni di fine 2015 in Francia e in Spagna confermano la crisi del sistema bipolare e bipartitico dell’Europa occidentale. Tuttavia, crisi non vuol dire fine del sistema. Al contrario la crisi del bipolarismo fondato sull’alternanza di due partiti o coalizioni principali, l’una di centro-destra e l’altra di centro-sinistra, ha determinato un irrigidimento del modello politico in senso maggioritario. Ne troviamo un esempio in Italia nella proposta di riforme elettorali (l’Italicum) e costituzionali che rafforzano la governabilità intesa come predominio dell’esecutivo sul resto delle istituzioni e soprattutto sulla società. Grazie a leggi elettorali maggioritarie, partiti sempre meno rappresentativi riescono a garantirsi il primato, squalificando la rappresentatività delle istituzioni politiche agli occhi di milioni di elettori e accentuandone l’astensionismo.

Alla crisi del bipolarismo e del bipartitismo corrisponde - nella prevalenza dei casi - l’affermazione di terze e quarte forze, al di fuori dello schema di alternanza centro-sinistra/centro-destra. Questi partiti, malgrado si caratterizzino per orientamenti politici a volte molto differenti, sono accomunati, nella maggior parte dei casi, dalla individuazione di cause e soluzioni alla crisi socio-politica al di fuori della crisi del modo di produzione capitalistico e del conflitto lavoro salariato-capitale. Infatti, le tematiche maggiormente agitate sono il pericolo dell’immigrazione e la critica, soprattutto di taglio morale, all’inefficienza e la corruzione della “casta” politica, le cui cause però non sono ricondotte in alcun modo agli interessi economici dominanti. A tali tematiche si aggiunge spesso la critica all’integrazione europea, in particolare all’euro, declinata, però, in chiave reazionaria e comunque sempre slegata dal conflitto lavoro salariato-capitale, essendo espressione, come nel caso della Lega e del Font National, di settori perdenti del capitale, ancora legati alla dimensione nazionale.

 

La sinistra in Europa e la questione dell’euro

In questo quadro i partiti comunisti e la sinistra nel suo complesso ottengono risultati disomogenei. Quello che emerge è l’assenza a sinistra di un orientamento, di una strategica e di un piano tattico comune. Ognuno declina la propria battaglia solo sul contesto nazionale, lasciando il resto come sfondo. Non si spiegano altrimenti i risultati diversi e le posizioni spesso poco chiare che oggi si esprimono.

Probabilmente il nodo fondamentale sta nel non aver capito fino in fondo la natura decisiva delle trasformazioni economiche in atto e soprattutto nel non averne tratto per tempo le necessarie conseguenze in termini di posizionamento e profilo politico. La gran parte della sinistra è rimasta ancorata ad una visione sorpassata dei rapporti politici di classe, essenzialmente alla formula del blocco sociale neokeynesiano, basato sul patto sociale fra lavoro salariato e grande capitale e fondato sulla redistribuzione del reddito mediante la crescita del debito pubblico. Eppure, questo tipo di blocco sociale era entrato in crisi già dai primi anni ’80 e si è disgregato progressivamente, perché la borghesia europea non è più interessata a questa formula di composizione del conflitto di classe, reputandola anzi il principale ostacolo, nelle nuove condizioni storiche, cioè alla necessaria – dal suo punto di vista – riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica. Tali condizioni sono conseguenza di due fattori collegati, la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico e la globalizzazione, e portano al passaggio da una forma di capitalismo con baricentro nelle singole economie nazionali a una forma di capitalismo il cui baricentro è internazionale. Da qui, l’inutilità e anzi la dannosità, per il capitale, delle politiche espansive di bilancio pubblico, a meno che non siano quelle puramente monetarie e finanziarie, che sono funzionali alla nuova fase globalizzata.

In Europa occidentale la leva principale della definitiva disgregazione del blocco sociale keynesiano e della riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica coerentemente con i nuovi assetti globali va rintracciata nella delega di alcune funzioni economiche decisive dal piano nazionale a quello sovrannazionale. Il tassello decisivo di tale trasferimento è l’integrazione valutaria, che sottrae ai parlamenti nazionali il controllo sui bilanci pubblici e introduce l’obbligo di pareggio, attribuisce il controllo monetario ad una autorità pienamente indipendente (Bce) e realizza un regime di cambi fissi che portano alla deflazione salariale e alla contrazione della base produttiva e occupazionale. L’integrazione valutaria, e quelle bancaria e finanziaria che mirano a spostare il risparmio nazionale dal debito pubblico ai mercati finanziari, favoriscono la parte vincente del grande capitale cioè quello globalizzato, favorendo le delocalizzazioni, le acquisizioni di aziende pubbliche privatizzate e le fusioni internazionali. Le contraddizioni insite nella integrazione europea e nella nuova fase di globalizzazione sono emerse in tutta la loro gravità dopo lo scoppio della crisi nel 2007-2008. L’integrazione europea e in particolare l’architettura dell’euro hanno bloccato qualsiasi possibilità di risposta di intervento pubblico in termini anticiclici, peggiorando l’impatto della crisi e imponendo invece le cosiddette (contro)riforme di struttura (mercato del lavoro, welfare, pensioni, privatizzazioni) come soluzione alla crisi.

Ad ogni modo, al di là dei risultati elettorali rimangono i risultati politici, conseguenze di questa situazione economico-sociale. Il più importante, insieme alla crescita delle terze e quarte forze xenofobe e “populiste”, è rappresentato dalla crisi della socialdemocrazia europea (le varie componenti nazionali del partito socialista europeo), dovuta al suo farsi interprete fedele tra la fine degli anni ’90 e i 2000 delle politiche neoliberiste e di integrazione europea. Frutto della crisi della socialdemocrazia sono le numerose scissioni verificatesi negli ultimi anni all’interno dei partiti di questa area dalla Linke, al Parti de Gauche, ecc.

Tuttavia, anche quanto si sta muovendo a sinistra della socialdemocrazia europea ha mostrato negli ultimi anni delle insufficienze rispetto alla fase storica, rappresentate dal non aver saputo esprimere un posizionamento chiaro, efficace ed uniforme in particolare sulla questione dell’euro. La critica si è rivolta alle politiche neoliberiste fondate sull’austerity senza mettere in discussione tutta l’architettura dell’euro, che ne costituisce il fondamento economico e materiale. Le difficoltà del governo Tsipras nella rinegoziazione delle condizioni del debito, pur determinate anche dalla peculiare fragilità della struttura industriale greca, dimostrano che non è possibile saltare il nesso austerity-euro. Di conseguenza, recentemente sulla base dell’esperienza greca in alcuni settori della sinistra europea si è cominciato a prendere in considerazione la possibilità di elaborare un piano B (cioè di superamento dell’euro) in caso di non attuabilità del piano A (cioè di revisione dei trattati).

A Parigi, nell’estate scorsa è stato elaborato a un documento congiunto da parte di Varoufakis, Lafontaine, Melanchon e Fassina. Da alcuni il piano B è visto come una forma di pressione sulle istituzioni europee e la Germania per arrivare alla applicazione del piano A, cioè la revisione dei trattati. Il punto, però, è che la revisione dei trattati, avendo natura costituzionale, deve essere approvata dai governi della zona euro all’unanimità o eventualmente a maggioranza qualificata, senza dimenticare che bisogna comunque ottenere il consenso decisivo del governo tedesco. Tutte condizioni queste che sono difficilmente raggiungibili in maniera contestuale. Inoltre, la disobbedienza ai trattati da parte di uno o più governi implicherebbe comunque la rottura con l’area euro e non risolverebbe il problema dei cambi fissi e della indipendenza della banca centrale. Ma l’aspetto che pesa di più nel rendere difficilmente realizzabile una revisione concertata dell’architettura dell’euro è il fatto che gli interessi a sostegno dell’austerity e dell’integrazione valutaria vanno ben al di là della volontà dei governi, della banca centrale e delle imprese tedesche, coinvolgendo la parte vincente dell’intero capitale europeo, cioè quella che ha fatto il salto verso l’internazionalizzazione e che vede nell’euro la leva strategica per l’attuazione dei processi di trasformazione dell’accumulazione su scala continentale.

Eppure, nonostante queste evidenze, a sinistra continua a mancare una posizione definita sull’euro. Ciò è dovuto a varie ragioni. Tale limite è riconducibile in parte all’opinione che l’uscita dall’euro rappresenta un rischio, soprattutto legato alla crescita senza controllo dell’inflazione. In parte è riconducibile al convincimento che il problema non risieda nell’euro ma nella crisi del capitale e nell’attacco ai lavoratori mediante le politiche neoliberiste e che il ritorno ad una dimensione nazionale rappresenti un fattore di arretramento nazionalistico, facendoci confondere con partiti reazionari. Di conseguenza, alcuni ritengono che, dato il carattere ormai internazionale dell’accumulazione, bisogna ascendere allo stesso piano di lotta internazionale. Si tratta di obiezioni che sono da prendere in seria considerazione, ma che non riescono a negare la necessità del superamento dell’integrazione valutaria europea. Infatti, in primo luogo va premesso che sono molte le simulazioni di istituti bancari e finanziari che negano, a seguito di una uscita dall’euro, eccezionali impennate dell’inflazione, prevedendone una stabilizzazione nel giro di poco tempo. Ma, soprattutto, va notato che, dinanzi a quella che viene definita “crisi secolare”, il vero problema è la deflazione e non certo l’inflazione. Quanto al portare la lotta di classe direttamente a livello europeo, ciò certamente sarebbe importante, ma non ci sembra che oggi ce ne siano le condizioni immediate. Al contrario, è proprio la lotta contro l’euro e contro l’espropriazione di democrazia che può facilitare la costruzione di un processo di lotta a livello continentale, fornendo le basi oggettive per la ricomposizione di pezzi importanti del lavoro salariato a livello europeo. Infatti, mentre il capitale è ormai integrato a livello europeo (e non solo), la classe operaia e lo stesso mercato del lavoro rimangono (non casualmente) ben separati a livello nazionale. Inoltre, l’euro, ampliando i divari socio-economici tra Paesi, aumenta le divisioni fra i lavoratori a livello europeo ed è un fattore potente di scomposizione di classe. Infine, è certamente vero che la radice dei problemi attuali è rappresentata dal capitale e dalla sua crisi ma è pur vero che l’euro e l’integrazione europea sono l’arma principale di cui il capitale stesso si serve per affrontare la crisi a suo vantaggio e per neutralizzare la capacità di reazione delle classi subalterne. Dunque, porre la questione di come togliere al capitale una tale arma, riportando alcune funzioni di governo economico-politico a livello nazionale, è tutt’altro che un cedimento al nazionalismo. Al contrario, rappresenta un elemento da cui non si può prescindere per inceppare il meccanismo che sta stritolando milioni di lavoratori europei e che ha drasticamente mutato i rapporti di forza a favore del capitale. La questione dell’euro, cui è collegata la questione della internazionalizzazione dell’accumulazione capitalistica, è quindi un fattore dirimente nel panorama politico nazionale, caratterizzando, per il modo in cui viene affrontato, le varie forze politiche.

 

Le posizioni delle forze politiche in Italia, i compiti della sinistra e dei comunisti

In Italia il Partito che, negli ultimi dieci anni, si è posto a garanzia della applicazione delle politiche imposte dalla Ue e dei meccanismi dell’euro è il Pd. La trasformazione che il Pd ha assunto con Renzi è in continuità con la storia precedente di questo partito, benché comporti un evidente salto di qualità, adeguato alle necessità del capitale italiano internazionalizzato o che aspira a completare il suo processo di internazionalizzazione. Oggi, la formula politica su cui punta il capitale in Italia  non è più quella del “centro-sinistra”, che rimane attuabile solo nella mente di chi non capisce quanto la storia sia andata avanti. Oggi, la formula politica adeguata agli obiettivi del capitale è quella del “partito della nazione”, ovvero quella del partito pigliatutto, che si impone, grazie agli strumenti elettorali ipermaggioritari (l’Italicum), a dispetto della frammentazione e dell’astensionismo dell’elettorato. A fare da utili comprimari al “partito della nazione” sono rimaste forze in realtà incapaci di esprimere una reale alternativa. Anche se il Movimento cinque stelle e la Lega di Salvini si pongono in opposizione all’euro e all’Europa, il cuore della loro impostazione, pur con sfumature diverse, si fonda sul ritorno alla fase capitalistica precedente e a base nazionale, con evidenti spinte reazionarie e nazionalistiche. Entrambi riescono, su questo terreno, ad attrarre come base di massa anche settori proletari, ma restano espressione politica e ideologica di quei settori di piccola e media impresa che nel passato erano stati parte decisiva del blocco sociale neoliberista e che oggi, dopo aver portato per anni acqua al mulino del grande capitale internazionalizzato, si rendono conto di non reggere dinanzi alle nuove condizioni di accumulazione globalizzata.

In tale quadro sono evidenti i ritardi della sinistra tutta. La sostanza della rottura del tavolo unitario è apparsa, anche per come è stata presentata da alcuni giornali, come prettamente politicista. Non si è percepita - o si è fatto in modo che non venisse compresa  – l’essenza politico-programmatica su cui verteva il confronto, nè si è discusso su alcun programma di minima su cui convergere, finendo per discutere, apparentemente, solo di formule organizzative, cioè sul “come” stare insieme e non su “cosa”. In realtà, la richiesta di scioglimento delle organizzazioni, che ufficialmente ha fatto saltare il confronto, nasconde la divergenza, grave, sul giudizio verso il Pd. Se il giudizio resta confuso e legato alla contingenza delle leggi elettorali o alla capacità di collocazione immediata sul piano istituzionale è chiaro che vale tutto: programmi che rimangono solo sulla carta, presunti buoni governi locali con risultati in realtà intangibili e così via. Nella sostanza se l’obiettivo della sinistra è il mero contenimento degli effetti della crisi e dell’austerity, e se non si esprime una visione alternativa e di rottura con il quadro esistente, l’unica strada praticabile è restare ancelle del più forte, in questo caso del Pd. Su questo e non su altro si è interrotto il tavolo a sinistra. Su questo è necessario costruire una risposta efficace.

Se questo è il quadro, coloro che intendono mettere in campo una visione dentro cui sviluppare la ricostruzione della sinistra in questo Paese devono aspirare a portare la discussione ad un livello più alto. Ciò comporta, ad esempio, indicare poche ma precise questioni attraverso le quali procedere al rilancio di un percorso politico. Il rapporto con il Pd si risolve più chiaramente se si sta su questo terreno. In questo senso non basta contrapporre “l’alto” al “basso”, il conflitto sociale al rapporto tra ceti politici. E’ necessario indicare dei paletti su cui si costruisca uno spazio di ricomposizione politica della dialettica di classe senza la quale prevalgono la passività e le visioni populiste di destra. Sulla base di quanto da noi esposto sopra, alternatività al Pd significa in primo luogo un posizionamento chiaro sull’Europa e sull’euro. Infatti, anche se sicuramente non sufficiente, il superamento dell’euro è condizione necessaria quantomeno a porre le condizioni per uscire dalla crisi da sinistra. Solo il superamento dell’euro rende possibili e, al tempo medesimo, necessari provvedimenti come, ad esempio, l’eliminazione della indipendenza/autonomia della banca centrale e la possibilità di fare investimenti pubblici diretti nella produzione di merci e servizi, senza i quali non è neanche immaginabile far ripartire l’economia e aumentare l’occupazione (il maggiore problema italiano), specie in una condizione di crisi e di crollo degli investimenti privati a causa della caduta del saggio di profitto. E, come in un incastro dialettico, solo su questo terreno è possibile individuare con chiarezza il nemico e sviluppare le lotta sociali e la battaglia politica sui nodi ricompositivi delle tutele sul lavoro, del salario, del fisco e dell’immigrazione.

La parola d’ordine di una nuova sovranità democratica e popolare va contrapposta tanto alla subalternità del Pd alla Ue da una parte, quanto alle destre dall’altra. Il nazionalismo mette al centro il ruolo della nazione in competizione con le altre, viceversa la sovranità democratica rende i settori popolari protagonisti di un riscatto che incida effettivamente sui processi globali in antagonismo alle logiche del capitale. Questa è la visione attorno a cui si può rifondare un nuovo blocco sociale che abbia al centro la ricomposizione generale del lavoro salariato sulla base della nuove caratteristiche della struttura economica e delle imprese in Italia ed in Europa. Inoltre, il recupero della sovranità democratica e dell’intervento pubblico in economia non possono, secondo noi, limitarsi alla semplice riproposizione di quanto avveniva nel passato cioè all’uso assistenzialistico dell’intervento statale e alla declinazione clientelare della democrazia.  Al contrario, il recupero della sovranità e dell’intervento pubblico deve puntare a criteri di efficienza in termini di soddisfazione dei bisogni della società e deve tenere conto del ruolo tutt’altro che neutrale, dal punto di vista di classe, dello Stato e della democrazia stessa.

Il Referendum contro le Riforme Istituzionali di Renzi è una grande occasione per veicolare questo messaggio e ricominciare a qualificare l’iniziativa unitaria dandogli un respiro lungo. Allo stesso tempo è necessario rilanciare la mobilitazione contro la tendenza alla guerra, che è manifestazione sia del caos sistemico, che la crisi del capitalismo globalizzato produce, sia del mantenimento del ruolo dello stato-nazione come sostegno delle frazioni dominanti del capitale. Infatti, mentre lo Stato-Nazione ha delegato alcune funzioni di direzione economica, comprimendo la sovranità democratica ai minimi termini, continua a mantenere e anzi rafforza la funzione di monopolista della violenza, sia all’interno, verso le classi subalterne,  sia all’esterno, come dimostra la moltiplicazione della partecipazione degli stati europei ai conflitti (Ucraina, Libia, Siria, Afghanistan, ecc.) sebbene in forme differenziate, che spaziano dall’intervento militare diretto, alla guerra per procura, alla guerra economica e finanziaria. Una conflittualità questa che, dietro il “conflitto di civiltà”, nasconde l’accresciuta competizione tra capitali e tra stati prodotta dalla combinazione di “crisi secolare” e globalizzazione.

Se la discussione a sinistra non si cimenta su questi terreni è naturale che se ne avvantaggi l’orientamento politicista di SeL. Il fatto che, ad esempio, Fassina abbia espresso l’adesione al Manifesto di Melachon sul piano B rispetto all’euro, e che questo non sia diventato merito di discussione, da solo spiega quanta distanza ci sia tra i contenuti politici e le scelte che poi vengono maturate. Ci si dovrebbe domandare se questo modo confuso di procedere abbia qualche speranza di rendere efficaci i percorsi che si pretende di portare avanti. Infine, ci permettiamo di chiudere con una considerazione sulla questione dello scioglimento del PRC. A parte l’articolo velenoso de il manifesto, questo aspetto andrebbe trattato in modo più serio: il mantenimento del Prc non è questione né di tradizionalismo organizzativo né di attaccamento sentimentale. Il tema vero è se si considerano il comunismo e il socialismo una prospettiva concreta di fuoriuscita dalle contraddizioni del presente, oppure un ferrovecchio. Una parte di quello che rimane della sinistra italiana pensa che sia un arnese di cui liberarsi, noi no. È questa la ragione per cui non intendiamo scioglierci. Probabilmente è una domanda che dovrebbe farsi anche “il quotidiano comunista” e decidere cosa fare di sé. Su tutto questo ragionamento, crediamo che il PRC debba puntare ad un lavoro di approfondimento pubblico ed interno puntando ad una rinnovata sintesi con la realtà sociale a cui rivolge la sua proposta politica.

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