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Vendola verso dove?

Nique la Police

La candidatura di Nichi Vendola alle eventuali primarie del centrosinistra pone una fitta serie di problemi e di interrogativi. In fondo si tratta comunque di temi produttivi perché è quando ci sono delle proposte politiche che tutti, anche chi non le vede con favore, sono costretti ad aggiornare e rivedere strategie, tattiche e modi di agire

Cominciamo da una frase discutibile di Vendola pronunciata durante il meeting delle Fabbriche di Nichi che si è svolto in Puglia. Dice Vendola, riportato dal Manifesto: “c’è a sinistra un’etica e un’estetica della sconfitta e della bella morte, ti infilzano ma con la bandiera rossa che ti cade addosso come un sublime sipario: che palle!”.

Finale del discorso degno di Ecce Bombo a parte, e comprendendo le necessità di concedere un po’ di scena alla platea, è abitudine di Vendola ridurre spesso la questione comunista in Italia a tematica identitaria e residuale, persino suicida. Certo, non ci sfuggono le perversioni politiche che hanno divorato, sia in forma di gruppetti identitari che di grumi clientelari, tutte le formazioni comuniste in Italia dopo l’89. Il punto è che regolarmente dai primi anni novanta, senza considerare le significative sperimentazioni degli anni ’80 (il “né di destra né di sinistra” dei verdi è di quel decennio), anche tutte le culture dell’oltrepassamento della sinistra hanno subito significative sconfitte senza mai saper contrastare l’egemonia della destra. Anzi spesso metabolizzando pratiche e comportamenti da lobby, magari del terzo settore o dell’economia “creativa”, degne dei partitini della prima repubblica. E’ quindi la politica di massa che, nell’ultimo ventennio, ha fallito in questo paese.

Non un suo specifico filone culturale utilizzato spesso come capro espiatorio e residuato del ‘900 (sia chiaro, ad esempio, che anche “la fine delle ideologie” è un dibattito altrettanto novecentesco aperto da Daniel Bell nei primissimi anni ’60). Si tratta quindi di cessare questa continua ricerca del responsabile dei fallimenti della politica di massa degli ultimi vent’anni, mettere una pietra sopra alle accuse di nuovismo o di nostalgia e calarsi nella realtà di questo paese. Operazione che risulta particolarmente difficile perché, proprio da un ventennio, la complessità sociale si è fatta particolarmente severa in materia di sopravvivenza dei movimenti e di lettura emancipatoria del presente. Detto questo, nello scenario attuale, con la candidatura di Vendola emergono almeno tre terreni di discussione. Vediamoli nello specifico.


1)
Si è spesso rimarcato la continuità dei vari comitati Vendola con l’esperienza del Social Forum a cavallo del G8 genovese. Anche al meeting delle Fabbriche di protagonisti del G8 ce n’erano. Soprattutto c’erano i linguaggi, tipici dell’oltrepassamento della sinistra, le pratiche di forum e alcune tipiche del mediattivismo. Quello che colpisce nell’esperienza vendoliana, in quasi dieci anni di distanza dal G8, è l’emersione di una forte leadership, unica e di tipo carismatico alla quale aderire con modelli di organizzazione elastici e a rete. All’inizio degli anni 2000 la situazione era comunque rovesciata con le leadership che, per essere legittimate, dovevano in qualche modo correre dietro a modelli di organizzazione a rete, instabili e flessibili. E’ chiaro che la leadership non emerge senza il consenso dal basso ma, in questo contesto, è altrettanto chiaro che il potere strategico, logistico e decisionale dell’esperienza Vendola sta tutto al vertice della sua particolare organizzazione a rete. E’ il risultato della dispersione dei movimenti nella complessità sociale, della loro evaporazione attorno ai nodi strategici del potere contemporaneo, e anche del perdurante potere della televisione generalista nella costruzione dei linguaggi politici egemoni. E così l’intelligenza collettiva si dispone attorno alla promozione del personaggio, per comunicare e far proliferare il suo potere carismatico, mentre al vertice del cartello elettorale vendoliano si dispongono potere di indirizzo dei comportamenti e razionalità amministrativa (visto che ai vertici del movimento vendoliano ci sono molti amministratori o ex parlamentari). In questo senso l’esperienza vendoliana è la risposta da sinistra alle esperienze di Di Pietro e di Grillo. Perché rielabora il messaggio di un tipo di populismo più di sinistra e più politico di quello di Di Pietro e di Grillo. E qui si parla di populismo in senso tecnico ovvero di messaggio diretto alla mobilitazione del complesso del popolo per guadagnare la salvezza della nazione. La crisi permanente dell’autorappresentazione degli aggregati sociali come classe, sia vista come eredità del fordismo come del permanere del posfordismo o dello stabilizzarsi del lavoro cognitivo, rende infatti naturale l’emergere di un linguaggio populista. Dall’evaporazione del paradigma di classe, come autorappresentazione perché le classi in sé sono una drammatica costante delle società capitalistiche, alla rielaborazione della narrazione populista. Che con Vendola assume una connotazione maggiormente progressista. Il primo terreno di discussione attorno a Vendola assume quindi la forma di queste domande. E’ politicamente proficuo e accettabile un populismo dell’oltrepassamento della sinistra? E’ permanente l’evaporazione degli aggregati sociali che si autorappresentano come classe? Produce risultati una organizzazione a rete attorno al leader in cui i poteri strategici e di indirizzo sono sbilanciati a favore di quest’ultimo?

2)
Il modello politico vendoliano, al di là delle sigle, gode di una separazione di piani di lavoro piuttosto produttiva. C’è un piano di pragmatismo amministrativo, formatosi fin dal 2005, sia conflittuale che negoziale con i poteri forti. E c’è un piano di comunicazione politica che, in termini di messaggio carismatico, valorizza questo pragmatismo amministrativo. E’ chiaro che il modello terrà fino a quando questi due piani si terranno in equilibrio. In questo senso Vendola rappresenta una espressione evoluta e matura dell’esperienza dei social forum. Ma rappresenta anche un equivoco che coesiste con questo punto di equilibrio rappresentandone sia l’elemento di forza che quello di debolezza. Ci spieghiamo meglio: il potere di Vendola è sovrano sul piano della comunicazione, carismatico nei confronti della propria rete di appoggio, ma negoziale nei confronti dei poteri forti. Vendola non è lo Stalin del Tavoliere delle Puglie ha semplicemente sovrapposto un potere carismatico a uno amministrativo che continuamente produce conflitti e negoziazioni con i poteri forti. La vicenda della sanità pugliese, ricordiamo che l’ex vice di Vendola è stato in carcere per tangenti nel settore sanità, è paradigmatica sia della conflittualità che dei livelli di mediazione che ci sono tra il leader di Sel e il resto del centrosinistra. Se l’equivoco, tra potere carismatico attribuito al leader e mediazione reale con i poteri forti, si scioglie mettendo in difficoltà l’equilibrio presente tra l’immagine di Vendola e la sua amministrazione reale allora per questo progetto di progressismo populista sono dolori. Si aprirerebbe per Vendola lo stesso esito della sinistra arcobaleno. Ma finchè questo equivoco si perpetua produttivamente, magari evidenziando la capacità di immettere elementi significativi di redistribuzione sociale nelle sue politiche, Vendola viaggia con il vento in poppa. Vista anche la crisi permanente della sinistra istituzionale come quella di movimento.

Qui bisogna anche notare che il modello di comunicazione politica, essenziale per fare il colpo a livello istituzionale, formatosi attorno a Vendola è particolarmente efficace. Specie nelle regionali del 2010 Vendola ha unificato le tre più importanti piattaforme di comunicazione politica del presente: i media generalisti, internet e la piazza. La figura del leader, come elemento simbolico e quindi antropologicamente unificante, collega i messaggi di tutte e tre queste piattaforme scatenando dispositivi comunicativi di tipo sinergico. In questo senso però il salto di questo modello dalle Puglie alla dimensione nazionale può perdere di efficacia. Il sistema di comunicazione nazionale è maggiormente dispersivo sul piano della piazza come su quello di Internet e blindato, a favore del centrodestra ma con concessioni alla leadership ufficiale del centrosinistra, sui media generalisti.

Su questo terreno le domande sono evidenti. Vendola può mantenere nel tempo l’equilibrio tra piano amministrativo e piano carismatico di estrazione del consenso? Può passare senza colpo ferire dall’utilizzare pienamente un modello vincente sul terreno regionale a replicarlo su quello nazionale? E, soprattutto, da questo equilibrio e da questo passaggio al piano nazionale possono scaturire risultati in termini di redistribuzione di potere e di risorse verso il basso della società italiana?

3)
In termini di modello politico istituzionale nazionale, come già avvenuto per quello regionale, Vendola rappresenta la metabolizzazione dei sistemi maggioritari in termini di oltrepassamento della sinistra. Ovvero di sistemi che, con passaggi elettorali formali e con l’informalità delle primarie, allocano potere decisionale e amministrativo ad una leadership che ha la singola persona come icona. Potere che poi si integra con le tattiche di governance ma che, da solo, ha un peso istituzionale pari se non maggiore a quello un tempo detenuto dai partiti di massa. Solo che si concentra in una persona, in senso simbolico, e sulla sua capacità di coltivare la propria immagine. In questo senso il sistema maggioritario ha rappresentato una ristrutturazione da destra del potere politico in Italia. Verticalizzando i centri di decisione e di spesa (anzi di tagli) a partire dai primi anni ’90 cercando anche di ovviare, in termini di processi di legittimazione, alla fine dei partiti con la concentrazione di potere sulla persona eletta. Persona attorno alla quale si dispongono anche conflittualmente tutte le élite di potere presenti, costruendo un vertice di potere più marcato rispetto anche all’esperienza dei partiti nazionali dell’epoca fordista. La narrazione (come la chiama lui) di Vendola rappresenta quindi il tentativo, in termini di cultura di oltrepassamento della sinistra, di rielaborazione di un ruolo istituzionale decisionista naturalmente nato dalla prima ristrutturazione di destra della politica italiana dell’inizio degli anni ’90.  Si comprende che questa contraddizione, tra narrazione emancipatoria di Vendola e tentativo di presa di un potere istituzionale costitutivamente non emancipante, è il nodo più delicato da sciogliere nell’esperienza politica dell’attuale governatore della Puglia.

E non c’è solo questo. Lo stesso modello maggioritario, al quale fa riferimento Vendola per candidarsi, non ha certezze per il futuro. Non si capisce infatti se Vendola si è candidato troppo presto o troppo tardi. Troppo tardi per non aver colto l’occasione per le elezioni del 2006,  dove il movimentismo dei social forum e dei movimenti contro la guerra poteva ancora dire la sua. Oppure troppo presto per magari ritrovarsi nell’immediato domani un nuovo sistema elettorale, frutto delle mediazioni tra centrodestra e centrosinistra, che non prevede maggioritario e quindi primarie (e allora addio valore aggiunto della candidatura carismatica di Vendola e possibile perdita di peso nazionale della sua figura). Troppo tardi rispetto ad un periodo, la metà degli anni 2000, dove la carica di presidente del consiglio aveva ancora margini di mediazione con i diktat liberisti della Ue. Troppo presto da rischiare, con la firma dei patti di stabilità Ue a ottobre (che saranno sciagurati qualunque sia la formula usata), magari un domani di ritrovarsi ad essere un Papandreu proveniente dalla Puglia anche contro la propria volontà politica.

Le domande che escono da questo terreno sono quindi legate alla specifità della candidatura, e della carica che ne potrebbe scaturire, avanzata da Vendola. E’ riformabile, in termini di cultura di oltrepassamento della sinistra, una carica di candidato prima e di presidente del consiglio poi costitutivamente di destra? Hanno un futuro le primarie come strumento di formazione della candidatura e di indirizzo di potere politico della carica di presidente del consiglio? Per Vendola sono i margini, o gli spazi di manovra, per non fare un domani la fine del Papandreu proveniente dalla Puglia?

Siccome la politica non è solo terreno d’analisi, anzi di questi tempi questo piano viene semplicemente saltato, si tratta di comprendere come comportarsi di fronte all’emersione di questo fenomeno. Ci sono due dimensioni da tenere distinte sul piano dei comportamenti. La prima è territoriale l’altra riguarda la dimensione della politica istituzionale nazionale. E’ chiaro che se sui territori, Puglia esclusa, il vendolismo si traduce nell’ennesima riedizione dello sterile collateralismo critico al PD (come ieri è capitato nei confronti dei Ds e l’altro ieri del PDS) difficile che qualcuno si accorga della sua esistenza. Si porrebbe su un piano di evanescenza verso il quale sarebbe persino ozioso l’esercizio della critica. Differente è la questione che riguarda la politica istituzionale nazionale. Vendola non si è posto in termini di ostilità nei confronti dei movimenti. Punta dritto ad acquisire la maggioranza del potere azionario del centrosinistra. Mantenendo invariato questo scenario si può guardare, senza grossi problemi, a questa stagione di scomposizione del centrosinistra come lo conosciamo che Vendola vuole aprire. Con la consapevolezza che, se gli interrogativi che la sua candidatura pone restano inevasi, c’è la possibilità di trovarsi di fronte alla consueta meteora proveniente da sinistra. Ma il punto più importante, finora inevaso dalla sinistra istituzionale e da quella di movimento, è come rivitalizzare la politica di massa. Senza quella non arrivano risultati concreti a livello collettivo. Ogni fenomeno va quindi valutato nell’ottica di questa rivitalizzazione. Il resto è chiacchiera o astio identitario.

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