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6. Se “dal basso” non significa nulla

Cambiare il potere nelle relazioni personali significa che l’azione di trasformazione parte dall’individuo o, al limite, da un gruppo che condivide in modo coerente e omogeneo dei valori e li pratica nel quotidiano, sperando così di contribuire ad un cambiamento “dal basso” della società e delle dinamiche di potere. In realtà questa distinzione tra “alto” e “basso” è un’altra astrazione priva di contenuto e finisce solo per mascherare il luogo del conflitto dove si origina il meccanismo di riproduzione del capitale.

Per poco che uno volesse dare una descrizione anche solo meno lontanamente schematica del binomio alto/basso ecco che dovrebbe riconoscere una serie di livelli concentrici parzialmente autonomi di organizzazione della vita sociale. Bisognerebbe partire dai livelli istituzionali politici e sindacali in cui la rappresentanza sociale si condensa in arene di conflitto o di interlocuzione tra le classi. Al di sopra di questi livelli nazionali occorrerebbe poi porre le oscure e difficili trame della politica internazionale, gli scenari geopolitici dei conflitti armati e delle grandi migrazioni di popoli. Al di sotto, c’è la politica amministrativa e la vita di comunità (urbana o rurale, da megalopoli o da piccolo centro, cittadina o di quartiere). Poi la vita relazionale, le frequentazioni di amici e conoscenti e i rapporti intimi, familiari, col partner, i figli, la sfera della sessualità, dell’inconscio ecc. Apparentemente slegato da questi scenari c’è il luogo di lavoro in cui ognuno incontra e vive sulla propria pelle in forma immediata la realtà del conflitto di classe, l’opposizione tra il capitale che organizza lo sfruttamento e il salariato diffuso. Mentre non c’è un alto e un basso, ma una serie di livelli differenti e in parte autonomi, il luogo di lavoro è l’unico in cui si vive in forma immediata lo sfruttamento, seppure anche questa immediatezza sia in parte illusoria in quanto il capitale non conosce un luogo fisico, essendo un processo che vive nella dislocazione continua del suo “centro” (che resta il meccanismo astratto della propria autovalorizzazione). È da questo centro “ideale” che si irraggia in ogni sfera l’influenza pervasiva e disciplinatrice del capitale. In alto, altissimo, negli scenari di guerra e di alleanza tra i poli imperialisti volti all’accaparramento delle risorse e dei mercati più promettenti. A livello istituzionale nelle politiche liberiste di attacco all’autonomia e al reddito del lavoro salariato che costantemente sfruttano - come alleato o capro espiatorio - l’autoreferenzialità delle burocrazie di partito e sindacali. Dinamiche che si riverberano a livello di politiche amministrative e si riversano nei fenomeni urbani della gentrificazione, della perdita dei servizi essenziali, dell’abbandono delle periferie, dell’anomia e dell’atomizzazione sociali. Caratteristiche che si ritrovano anche nelle modalità relazionali “liquide” e nella costruzione della propria immagine pubblica attraverso il social-networking, l’esplosione delle potenzialità erotiche che si accompagna ad una costante mercificazione della sessualità, la crisi dell’istituto familiare, del ruolo tradizionale dei genitori nell’educazione dei figli ecc.

Ognuno di questi livelli rappresenta una forma mediata del conflitto tra capitale e lavoro. Rappresenta anche altro (è chiaro che le problematiche di genere, razziste, ecologiche e speciste si situano su uno o più di tali momenti della totalità sociale) ma, negli esempi che abbiamo proposto, ad ognuno di quei livelli il conflitto che sorge e si esprime sul luogo di lavoro viene riflesso in modo autonomo e specifico. Provare ad opporsi al capitalismo intervenendo in uno o più di questi livelli senza intervenire nel luogo che gli è proprio è illusorio. Provare a farlo addirittura dimenticandosi alcune delle forme di mediazione di quel conflitto (ad es. i livelli istituzionali politici e sindacali) per praticare un’opposizione immediata al capitale che consta di uno “stile di vita alternativo” è pura follia. Il problema, come abbiamo visto, sta proprio nel determinare il luogo del conflitto che è al tempo stesso concretissimo e astratto.

 

7. Il problema della totalità sociale

Altro slogan famoso e omogeneo all’ideologia spontaneista e immediatistica della sinistra di movimento è “sii il cambiamento che desideri vedere nel mondo” (attribuita erroneamente a Gandhi). Esso fa emergere chiaramente il problema della totalità. Poiché modificare la propria vita in accordo ai valori, ai desideri, ai bisogni, all’utopia che vorremmo vedere realizzate nella realtà, benché eticamente possa essere lodevole, non fa avanzare di un passo il mondo nella direzione sperata. Pensarlo significa identificare senza residui il cambiamento a livello personale, intersoggettivo, di gruppo (in senso informale o formale), economico e istituzionale mentre essi, come abbiamo visto, non sono affatto la stessa cosa e solo una ipersemplificazione dei rapporti reali può farcelo pensare. La dimensione specificatamente sociale è totale, quando una società cambia storicamente ciò accade perché cambia qualcosa della sua struttura che affetta tutti i rapporti interni. Non c’è automatismo in questo e, ovviamente, gli sforzi che si fanno in ognuna di quelle “sfere” d’azione (che a loro volta costituiscono delle totalità) è importante per realizzare una transizione sociale effettiva. Ma smettere di cercare le leve che conducono alla totalità significa praticare del thatcherismo spontaneo e inconsapevole (“there’s no such thing as society”).

La prassi di trasformazione che muove dalla dimensione dei rapporti personali, dal raggio d’azione dell’individuo non incontra mai la società che dovrebbe essere il vero problema da affrontare e risolvere. Ad. es, tanto sul fronte ecologico, quanto su quello della lotta per i diritti animali, il mezzo più diffuso per modificare il rapporto tra l’Uomo e la natura (o tra l’Uomo e gli animali) è il consumo privato. Le scelte dal lato del consumo dovrebbero portarci in progresso di tempo a modificare le nostre relazioni con l’ambiente e le altre specie, fino ad incidere nel modo in cui la società umana si relaziona agli ecosistemi e alle società non-umane che le popolano. Ma è dubbio che tale azione possa giungere anche solo al primo livello del cambiamento per intaccare il nostro modo di relazionarci come individui e come gruppi e sicuramente rispetto alla sfera economica o istituzionale il salto è ancora più vertiginoso. Sul fronte invece dell’emancipazione delle soggettività umane oppresse (di genere, etniche ecc.) si tratta di stabilire direttamente nuove forme di rapporto intersoggettivo, praticare forme di riconoscimento in grado di garantire una reale uguaglianza di trattamento. Realizzare, praticando la solidarietà, un mondo di relazioni non più violente e oppressive che faccia da preludio ad una trasformazione sociale in senso non gerarchico. Qui il passaggio dalle relazioni alla trasformazione sociale sembra essere più diretto di quello che passa attraverso il consumo, ma in realtà c’è una distanza non inferiore in quanto la società non coincide né con la somma degli individui, né con la somma delle relazioni interpersonali. Anche in questo caso, il salto verso la totalità sociale non si realizza se non in un processo all’infinito.

Ma poiché la società è una totalità, il cambiamento sociale è tale solo se si pone al livello della totalità e da qui retroagisce sui singoli rapporti personali, sulle dinamiche intersoggettive e di gruppo, sulla vita istituzionale. Lo scetticismo nei confronti della totalità, d’altronde, è un altro dei pessimi servizi resi dal postmoderno al pensiero critico. Anche ammettendo che la società “liberata” smettesse di essere una totalità essa avrebbe comunque una forma che la renderebbe diversa e inconciliabile con il capitalismo. Essa implicherebbe uno specifico collante sociale a tenere insieme gli individui, la forma oggettiva assunta dalla loro libertà realizzata. Chiamiamola totalità barrata, negativa o assente, o semplicemente “totalità” tra virgolette, ma ogni progetto di oltrepassamento del capitalismo non può fare a meno di riferirsi a un concetto simile. Ebbene, la forma sociale che verrebbe a costituirsi nel processo di superamento del capitalismo dovrebbe avere perlomeno tre caratteristiche principali.

(1) Al posto di definire la totalità sociale in termini di collettivo e di tradizione, essa la definirebbe a partire dall’interazione di individui autonomi che cooperano in un regime di democrazia radicale.

(2) Al posto di funzionare in accordo ad un principio di razionalità particolare e opaca (la ragione di Stato delle classi dominanti), la totalità sociale post-capitalistica si organizzerebbe attorno ad un principio di razionalità universale e trasparente.

(3) Al posto quindi di una razionalità espansiva e colonizzatrice, illimitata e auto-contraddittoria, essa praticherebbe una razionalità che sviluppa coscientemente e coerentemente i propri limiti. La possibilità reale di innescare questi tre vettori di cambiamento prevede la capacità di comprendere la logica dialettica di funzionamento del capitale stesso, cioè a dire della sua contraddittoria forma produttiva e del modo in cui esso realizza e al tempo stesso impedisce il potenziale emancipativo della modernità.

 

8. Il problema è la forma, non il contenuto della produzione

Come abbiamo visto, infatti, l’aspetto progressivo della modernità secondo Marx risiede nella rottura dei vincoli feudali, nel superamento dell’idea che la misura dei bisogni sia fissata esternamente rispetto all’azione sociale considerata nel suo sviluppo autonomo. A questo elemento negativo, di rottura, il capitalismo aggiunge una dinamica positiva che ha due conseguenze importanti per quanto problematiche: la potenza (1) espansiva e (2) universalizzante della soddisfazione dei bisogni attraverso la produzione di merci. Il modo di produzione capitalistico, in altri termini, tende a crescere su se stesso in forma apparentemente illimitata, intensificando conseguentemente gli scambi di merci e la circolazione del denaro, giungendo così a realizzare per la prima volta nella storia un sistema economico planetario. Ciò non avviene senza contraddizioni. Da un lato, infatti, aumenta il volume e la complessità dei rapporti sociali e, assieme ad essi, dei bisogni e dei loro modi (anche tecnologici) di soddisfacimento. Dall’altro, questa crescita produce inevitabilmente profitto e dunque non è solo genericamente legata allo sviluppo del capitale stesso ma, in molti modi, organizza la società a partire dalla meccanica di autovalorizzazione di quello, rispetto al quale il soddisfacimento dei bisogni umani diventa un elemento accessorio. E, tuttavia, quella crescita e quel soddisfacimento non sono mai mere illusioni. Non esistendo un metro esterno alla società rispetto alla quale essi possono essere giudicati, le uniche due possibilità sono: (a) dichiarare quei bisogni e quella crescita degenerazioni di un equilibrato e limitato scambio sociale come avviene nelle società premoderne; (b) riconoscere quei bisogni e quella crescita come reali e legittimi, seppure frutto di sfruttamento e di una ancor parziale sviluppo della capacità di auto-organizzazione della società. In altri termini, il capitale, come forza autonoma ed estranea ai bisogni umani che soddisfa indirettamente attraverso la propria circolazione, “scippa” agli uomini il loro potenziale di auto-organizzazione, imponendo ancora un vincolo esterno alle loro capacità produttive. Dunque, tanto più i rapporti sociali sono organizzati surrettiziamente dal capitale, tanto meno lo sono dagli uomini nei loro liberi rapporti reciproci.

Questa è la contraddizione decisiva che occorre comprendere e rispetto alla quale è necessario prendere posizione ma, ecco il problema, tale presa di posizione difficilmente potrà ridursi ad un sì o ad un no allo sviluppo prodotto dal modo di produzione capitalistico. Coloro che rinfacciano a Marx un’eccessiva adesione al “produttivismo” capitalistico, un’accettazione passiva della tecnologia prodotta dal capitale (magari argomentando nel senso vitalistico già visto sopra, secondo cui la tecnologia opererebbe una “riduzione” della complessità della vita all’elemento quantificante, calcolabile ecc.) riducono di molto la complessità dei rapporti sociali capitalistici così come li ha analizzati Marx. Il “lato progressivo del capitale” non sta affatto nell’aumento generale del benessere o nella produzione di beni specifici (treni, automobili o cellulari). Perché anche se è possibile provare, matematicamente, che la riduzione di mortalità o il soddisfacimento di certi bisogni sono aumentati da duecento anni a questa parte, questo dato andrebbe comunque interpretato per potersi tramutare in un giudizio di valore sulla società capitalistica. Non esiste, infatti, alcun metro di misura oggettivo che possa indicare “il prezzo” che l’umanità paga per l’entrata nella fase moderna.

Il punto per giudicare la controversia è un altro. E’ un dato piuttosto formale che materiale. E’ cioè la forma del modo di produzione a fare la differenza tra moderno e premoderno, non il suo contenuto. Il vantaggio della modernità capitalistica sul mondo pre-moderno sta appunto nel fatto che esso socializza la produzione, rende cioè la produzione qualcosa che avviene a partire dai singoli ma istituendo un tessuto di relazioni e scambi universale in cui tutti sono implicati nel reciproco soddisfacimento dei bisogni. Il problema è che il capitale pretende sottomettere questa socializzazione de facto ai propri interessi de iure: cioè al profitto. Esso quindi privatizza fin dal principio la socializzazione che innesca.

Il capitale socializza la produzione nel senso di intensificare gli scambi e dunque l’interdipendenza degli individui in essa coinvolti ma al tempo stesso la privatizza in quanto traduce tutto ciò in un meccanismo di esclusione, poiché mantiene e riproduce costantemente l’opposizione capitale/lavoro e l’ineguale distribuzione della ricchezza prodotta. Nel fare questo porta ad un livello sempre superiore la complessità del sistema degli scambi e, di conseguenza, la società nel suo insieme. Ora, questa intensificazione degli scambi e questo aumento dell’interdipendenza dei produttori avviene attraverso il mercato, cioè attraverso la traduzione in merce di ciò che viene scambiato. Chi si arresta alla critica della “mercificazione” non può che sperare di regredire ad un livello sociale e produttivo che precede l’epoca del mercantilismo: non a caso la destra fascista identifica, erroneamente, il capitalista con il mercante e il capitale con l’usura (cioè con fenomeni che precedono storicamente lo sviluppo del capitalismo propriamente inteso). Ma esiste in realtà un dato assolutamente positivo che accompagna come un’ombra lo sviluppo del mercato globale capitalistico. Esso passa attraverso due elementi che vengono invece solitamente banalizzati dalla critica anticapitalistica più diffusa: la mercificazione e l’astrazione. Questi due fenomeni, lungi dall’essere meramente negativi (“la vita è ridotta a merce”, “la vita è ridotta a qualcosa di calcolabile” ecc.) rappresentano l’elemento realmente universalizzante, il collante sociale, il legame agito che connette i produttori nel processo di soddisfazione reciproca dei bisogni. La mercificazione dei rapporti sociali in realtà produce il comune tramite l’astrazione.

La “merce” è infatti per essenza ciò che viene prodotto da A al fine di soddisfare il bisogno di B (ciò che quindi viene prodotto per non essere consumato in proprio). Dunque è nella natura stessa della merce la tendenza ad istituire un rapporto sociale verso un altro, il quale a sua volta soddisferà con il suo lavoro il bisogno di un terzo e così via. Questa mediazione dei bisogni si compie per mezzo del denaro che rappresenta in forma astratta ciò che di scambiabile c’è tra le diverse merci, ovvero il lavoro sociale che si riversa nella loro produzione. Il prezzo delle merci è così il minimo comune denominatore delle prestazioni sociali, la rappresentazione numerica, quantitativa, della loro scambiabilità. È dunque la misura interna degli scambi sociali che attraverso la produzione dei beni e servizi esprime il livello più o meno adeguato di soddisfazione dei bisogni umani. Merce e denaro, dunque, rappresentano, in forma ancora imperfetta ma già reale, l'interazione degli individui nel reciproco gioco di soddisfazione dei bisogni. Astrazione significa anche misurabilità, dunque razionalità di questo gioco di interconnessioni sociali. La quantificazione delle pratiche sociali ne esprime, in forma ancora parziale, la razionalità e l’universalità reali. Non è in questo che sta l’irrazionalità del modo di produzione capitalistico. La contraddizione tra capitale e bisogni umani non sta nel fatto che lo stesso metodo di fabbricazione delle biciclette venga adottato a Pechino e a Napoli, quasi che uniformare, rendere misurabili e compatibili le procedure di soddisfazione dei bisogni debba coincidere necessariamente con forme oppressive e limitanti dell’irriducibile molteplicità della vita. La distorsione irrazionale di questo processo sta nella logica parziale, privatistica della socializzazione che così viene realizzata. Il problema è che questa astrazione serve tale logica parziale, dunque non è interamente al servizio della socializzazione del soddisfacimento dei bisogni. Emerge così una razionalità sociale parziale che, proprio in quanto tale, non è vera razionalità, perché non è realmente universale. Solo una razionalità autenticamente sociale, dunque una Ragione agita socialmente, collettivamente, dunque universalmente, sarebbe realmente razionale. I due corni del problema si implicano vicendevolmente. Ma se ciò che è vero, tale ragione sociale emerge tanto più quanto più si inverte il processo inaugurato dalla modernità capitalistica dall’interno (dunque non all’indietro): ovvero solo l’espropriazione dell’interesse privato o particolare alla base del meccanismo di accumulazione del capitale può realizzare un’universalizzazione reale del soddisfacimento dei bisogni. Interesse “privato” qui significa l’opposto di interesse “individuale”. L’individuo dovrebbe essere il vero fine della produzione, fine solo indirettamente e illusoriamente servito dal capitale. Si tratta infatti di socializzare la privatizzazione del capitalismo, fare cioè che quello scambio e quell’interdipendenza dei produttori vadano effettivamente a vantaggio di tutti. Non basta contrapporre astrattamente “individuo” e “socializzazione”, immaginando che una società fondata sul modo di produzione socialista possa essere definita nei puri termini della “collettivizzazione” e della “statalizzazione” in quanto contrapposti all’azione individuale. Se così fosse, evidentemente, non si tratterebbe di una reale socializzazione ma di una variante del dispotismo. Se la lotta al capitalismo viene pensata saltando a pie’ pari le forme con cui il capitale realizza l’intermediazione sociale dei bisogni, ovvero la merce e il denaro, non si potrà che regredire a forme di autoritarismo premoderne o sostituire il capitalismo con un capitalismo di stato ancora più autoritario.

È importante sottolineare, infatti, che le contraddizioni e le antitesi che si generano nella produzione di merci sono inerenti alla produzione stessa e non alla forma del denaro. Il denaro non si impone dall’alto ai rapporti di scambio, come fosse una specie di “idea a priori”, bensì deriva dallo scambio come sua necessità intrinseca22. E questo è il motivo per cui nessuna riforma del denaro, cioè del mezzo di circolazione, può eliminare quelle contraddizioni. Questo è molto importante perché serve a contrastare alcune delle teorie più trite della sinistra anticapitalista e alcune interpretazioni più vetuste della prospettiva marxiana: il riferimento al denaro come fattore di “alienazione” dell’attività sociale (il denaro che si interpone tra gli individui e le cose complicando inutilmente i loro rapporti fino a diventare oggetto di desiderio esso stesso), l’idea che l’espropriazione dei capitalisti abbia come fine una gestione dispotica dell’economia, l’idea che socializzazione e collettivizzazione significhino sacrificio dell’individuo.

Marx risponde anticipatamente a queste accuse proprio analizzando il problema del superamento del denaro, superamento che implica una trasformazione radicale dei rapporti sociali e produttivi. Ad es., l’idea degli anarchici proudhoniani di sostituire il denaro con “cedole-lavoro” (cioè con qualcosa che certificasse il lavoro erogato dagli individui) quindi eliminando il mezzo-denaro considerato fonte di “alienazione” e “reificazione” della libera attività degli attori sociali, lascia invece del tutto invariate le contraddizioni del sistema produttivo23. Altrove, Marx sottolinea come una riforma del denaro che tendesse a ricondurre tutto il circolante all’attività di una banca centrale potrebbe risolvere le contraddizioni del sistema produttivo solo trasformando la banca centrale in un’istituzione onnisciente che non si limiterebbe a controllare ma dovrebbe inevitabilmente intervenire attivamente nella sfera della produzione come una specie di super-capitalista collettivo24.

Nel Capitale Marx critica l’idea che la forma capitalistica della proprietà privata possa essere considerata naturale, poiché la proprietà è sempre una specifica modalità sociale di appropriazione della ricchezza prodotta (socialmente). E qui Marx scrive senza mezzi termini che il superamento del modo di produzione capitalistico non consiste in un ritorno ad antiche forme comunitarie di proprietà, bensì in una diversa articolazione del rapporto tra individuo e collettivo, così che si realizzerebbe per la prima volta un modo di produzione in cui l’appropriazione individuale della ricchezza sociale avrebbe come fine l’individuo stesso, libero ed autonomo. Il fine della produzione in una società comunista non sarebbe quindi più la proprietà privata bensì ciò che Marx chiama proprietà individuale25.

E’ ovvio che anche il problema del rapporto tra qualità e quantità viene ridefinito in una situazione che si è lasciata alle spalle i rapporti sociali capitalistici. Ma non nel senso di un ritorno al “qualitativo” in quanto piattamente contrapposto al “quantitativo” magari riducendo il volume e la velocità degli scambi a condizioni più “umane” come auspicano i teorici della decrescita o i cultori dello slowfood. Come se esistesse una misura universale/naturale della velocità o del volume degli scambi sociali, qualcosa che potesse fungere da modello al di fuori o al di là della società nel suo darsi storico. Come se la società curtense del medioevo o lo scenario per-industriale della prima modernità dovessero essere più vicini ad una qualche immutabile essenza umana. Discorso dal quale è inevitabile che si finisca poi nelle secche del primitivismo più infantile che identifica ciò che è proprio dell’umano con ciò che si trova più vicino alla sua origine “naturale”.

 

9. Cambiare il potere senza prendere il mondo

Si vede come il deficit di elaborazione teorica da parte di gran parte della galassia antagonista su questi punti si saldi fin troppo facilmente al desiderio di interpretare il mondo a partire da un’angolazione particolare vissuta come intrinsecamente buona e che coincide, quasi sempre, con il proprio percorso, i propri valori, i propri desideri. Il primato del privato e del personale si fonda qui sulla cancellazione di ciò che potrebbe politicamente trascenderli. Manca in tutto ciò il necessario complemento oggettivo al desiderio, ciò che potrebbe fare da collante reale, da tessitura effettivamente universale dei bisogni individuali. In altri termini, mancando un’adeguata teorizzazione del sistema delle merci e del denaro, manca anche un valido sostituto a quel necessario, per quanto contraddittorio, fenomeno di universalizzazione e socializzazione dei bisogni che essi incamerano. Dunque non resta che declamare la necessità che tutti i desideri si incontrino magicamente per rovesciare l’attuale sistema di potere, senza che venga indicato come ciò potrebbe essere possibile, dove risiederebbe il comune che si pretende di definire a partire dal mero desiderio individuale. Ed ecco che la prospettiva antagonista senza teoria del capitale finisce per coniugare un moralismo di fondo (“tutti dovrebbe fare come me!”) ad una mistica del desiderio (“quando tutti desidereranno cambiare, il mondo cambierà”) senza che sia possibile indicare il come di tale accordo e, anzi, finendo per rifiutare tutto ciò che pretende andare in direzione di una qualsiasi articolazione di tali istanze.

Un eccellente modello (in negativo) di cosa sia la militanza anticapitalista può essere fornito da uno scritto che ha avuto un’effimera fortuna al tempo dei movimenti no global degli anni ‘90, ovvero Cambiare il mondo senza prendere il potere di Holloway. Si tratta di un testo che ben sintetizza una forma mentis che va ben al di là della diffusione che esso ha effettivamente avuto all’epoca della sua pubblicazione. Si può dire che Holloway sintetizzi alla perfezione il limite dei movimenti antagonisti fondati sul rifiuto del potere e sul rifiuto del denaro. Questi due assi della protesta di certi ambienti no global sono tra di loro strettamente legati: il rifiuto dell’uno comporta il rifiuto dell’altro, l’incomprensione del primo concetto si fonda e a sua volta fonda l’incomprensione dell’altro.

L’idea di Holloway ruota precisamente intorno a questi due fuochi. Da un lato, il potere rappresenta l’alienazione dalla società, qualcosa che si erge al di sopra delle dinamiche e delle relazioni sociali immediate. Il male incamerato dallo Stato sta proprio in questa perdita di immediatezza. Dall’altro, il denaro rappresenta l’estremo esito e la conseguenza inevitabile di tale processo di estraneazione della società da se stessa: il denaro è male perché si interpone tra le prassi sociali e i loro scopi, tra i bisogni e la loro soddisfazione. Benché Marx avesse ben visto e criticato in anticipo questa banalizzazione dello Stato e del Denaro, gli si rinfaccia una focalizzazione sul potere statale e sul mondo dell’economia come due errori complementari e necessari che avrebbero decretato il fallimento del marxismo “ortodosso”. In questo discorso, “alienazione”, “feticismo”, “merce” e “denaro” rappresentano dunque altrettanti aspetti di uno stesso processo di reificazione ed estraneazione della società, tanto che la loro relazione diventa spesso indistinguibilità: non si capisce cosa sia causa di cosa e su quale elemento occorra intervenire per modificare l’assetto sociale complessivo. Ma in realtà, proprio la negazione di un centro del potere (sia esso lo Stato, sia esso il mondo delle relazioni produttive) è al tempo stesso il presupposto e l’esito di questo discorso. Si combatte, per dir così, un po’ “tutto insieme” (l’alienazione, il feticismo, la merce, il denaro...) , quindi niente in particolare.

Holloway tenta, in realtà, di trovare un elemento originario che innesca le dinamiche di oppressione e lo fa ricorrendo proprio alla categoria del “potere”. Esiste un potere che è possibilità di fare, dunque estrinsecazione di un potere virtuale operativo, ciò che Holloway chiama “poter-fare”26. Poi esiste invece un potere come comando sugli altri, dunque esercizio di controllo e gestione del poter-fare altrui e questo è ciò che Holloway chiama “potere-su”27. Ma questa visione si riduce, come si vede, nuovamente a quella concezione vitalistica, atomistica e immediatistica tipica della sinistra antagonista: il “poter-fare” viene concepito come originariamente puro, incontaminato da ogni dinamica di reificazione perché immaginato nella forma di un’azione che sgorga spontaneamente dagli individui e rimane nel loro raggio immediato di azione e controllo. Ma se così fosse, esso non sarebbe ancora un fatto sociale. Ammesso, e non concesso, che un tale stato idilliaco di armonia tra il soggetto e i suoi atti sia mai esistito, certo esso precede il rapporto autenticamente sociale che si origina solo nel momento in cui il soggetto non dispone più interamente delle conseguenze e del senso dei suoi atti: solo quando l’altro è co-implicato originariamente nel mio fare, quando non domino la serie delle cause e degli effetti in cui il mio fare si inserisce, solo allora il mio fare può essere qualificato come sociale28. Dunque, delle due l’una: o il “poter fare” immaginato da Holloway non è sociale, oppure, se lo è, deve essere già originariamente alienato. Ecco allora che tutta la dimensione dell’economico, che in Holloway rappresenta una degenerazione del fare che implica relazioni di potere, inerisce all’essenza del fare stesso, è un elemento ineludibile dello sviluppo sociale di cui la modernità capitalistica è un esito altrettanto legittimo, non una “deviazione” rispetto ad una legge dei rapporti sociali immaginata come “naturale”.

Stesso discorso per quanto riguarda lo Stato. La concezione del potere di Halloway è infatti qui indicativa perché la lotta contro lo Stato è lotta contro il potere-su che “reifica” la vita sociale. Holloway vede nello Stato un “irrigidimento”, una “falsificazione” del flusso originario della vita che sarebbe invece anti-identitario. Lo Stato sarebbe l’istanza che esercita e garantisce il “blocco” del carattere fluido dell’azione sociale, obbligando i soggetti all’assunzione di una “identità” statica che rinnegherebbe il dinamismo dei singoli e della società nel suo complesso per meglio ordinarla e controllarla dall’alto. Con la conseguenza che ogni attività politica rivolta nei confronti dello Stato soffrirebbe inevitabilmente di un analogo irrigidimento, di una analoga limitazione di prospettiva e concentrazione di energie. Occorrerebbe invece dedicarsi a sciogliere quell’irrigidimento impedendo che il flusso delle energie sociali si incanali nei percorsi dell’economico e della politica istituzionale. Stato, merce e denaro sarebbero espressione di “disumanizzazione” e ciò che è propriamente “umano” si porrebbe al di qua della loro introduzione nelle dinamiche sociali. Contro di essi si tratterebbe quindi di fornire delle “anticipazioni di una società umana”29 ma, come al solito, non è chiaro come, visto che si è negato lo spazio di condivisione che solo potrebbe sollevare il fare individuale in direzione della socializzazione: i due pilastri della socializzazione moderna, infatti, tanto quello politico (lo Stato) quanto quello economico (lo Scambio), sono stati cancellati dall’orizzonte come forme degenerate di relazione sociale. Con il che, nonostante ogni assicurazione in contrario, quello che resta è veramente solo “un ritorno romantico a qualche mitica età dell’oro”30. Altrettanto sintomatico il fatto che la critica alla politica tradizionale e istituzionale venga condotta accusando il Partito degli oppressi che intendesse prendere il potere di volersi ergere a “Soggetto Onnisciente” che suppone “conoscere la totalità”31. Ma abbiamo già visto come il problema della totalità non vada affatto inteso nel senso di riuscire a gestire i singoli rapporti sociali dall’alto, poiché la possibilità di pensare la totalità sociale non sorge dalla somma empirica dei singoli atti sociali bensì dalla legge che li organizza e li trascende dall’interno. Sociale, nel senso della totalità sociale, è appunto ciò che si pone oltre l’orizzonte del singolo attore sociale e anche del mero aggregato degli atti dei singoli attori sociali. Nella società capitalistica questa totalità pone il problema dello scambio universale regolato dalla legge di autovalorizzazione del capitale. Aggredire il problema dello sfruttamento a livello sociale significa, appunto, andare a colpire il luogo (non fisicamente localizzabile ma logicamente determinabile) in cui si origina quella totalità di rapporti in quanto totalità32. Rinunciare al campo della lotta economica, rinunciare al campo della lotta politica in senso istituzionale, significa, molto semplicemente o ritenere irrilevante quella totalità, un’entità immaginaria che smetterebbe di sussistere nel momento in cui si smettesse di arginarne gli effetti di ritorno per dedicarsi “ad altro”, oppure pretendere di raggiungere la totalità per mera somma di atti individuali, confondendo dunque fatalmente il piano particolare dell’empirico con quello dell’universale-astratto.

Ovviamente il discorso va rovesciato: il riduzionismo qui è solo quello praticato da Holloway e dai movimenti antagonisti che ne ricalcano il pensiero, ovvero l’idea che si debba rinunciare in toto alla lotta sul piano economico e a quella sul piano istituzionale e questo perché è l’assunto di partenza ad essere infondato. Non c’è alcuna pura relazione sociale che venga successivamente coartata, reificata e alienata dalla modernità capitalistica. I rapporti sociali sono fin dall’inizio mediati, oggettivati, altri rispetto alle intenzioni degli agenti, è la loro intrinseca natura sociale a renderli tali. Dunque, diventa altrettanto sintomatica l’espressione usata da Holloway, secondo cui lo Stato avrebbe il compito di “disarticolare” i rapporti sociali spontanei per dare loro “forma”33. In effetti, è proprio questo che lo Stato, come agente sociale, fa. Ma “dare forma” significa, nel linguaggio filosofico classico, dare senso, rendere intellegibile, dunque condiviso, razionale. Ciò che emerge dall’attività sociale diffusa (e che è già, lo ripetiamo, alienata rispetto a se stessa, rispetto alle intenzioni e alla volontà di ogni singolo agente che interagisce nei processi sociali, dunque è già reificata e ultra-individuale seppure in forma oscura e opaca), può in effetti ricevere dalle istituzioni una forma intellegibile, cioè assumere un senso e un significato a livello dell’universale. Può dunque ricevere il suggello dell’astrazione (tramite la legge, il denaro o l’attività tecno-scientifica ecc.) che la rende tale, piuttosto che essere l’effetto cieco di scambi e di relazioni privi di una intenzionalità comune. Lungi dall’essere mera “alienazione” delle prassi sociali spontanee, questo momento universale-astratto esprime piuttosto il tentativo di raggiungere una prassi che sia autenticamente condivisa e dunque autenticamente sociale. Di quale forma si tratti (se di una forma rivolta all’arricchimento e al potere di pochi, oppure di una forma che contribuisca all’arricchimento e al potere di tutti), non decide il fatto che essa passi attraverso le categorie dell’economico o l’attività dello Stato, bensì, appunto, il modo specifico in cui l’economia e lo Stato intervengono nei processi produttivi e decisionali. Cancellato il problema della totalità, della socializzazione e dell’universale, ciò che resta è il privato e il personale in balia della totalità, della socializzazione e dell’universale violenti della privatizzazione capitalistica.

La lotta al capitalismo declinata come stile di vita, dunque, non solo fallisce il colpo sul versante critico-negativo, ovvero nel determinare il luogo di attacco al capitale. Per lo stesso motivo, fallisce anche nella capacità progettuale-positiva che dovrebbe sostituire il regime capitalistico. Perché in tutti i progetti emancipativi vissuti come “stile di vita”, e sia pure come stili di vita “comunitari”, manca l’elemento dell’universalizzazione. Soppressa la metamorfosi del capitale in merce e denaro come elemento di mediazione che produce la cooperazione oggettiva tra i produttori, con che cosa si intende sostituire quel processo reale di socializzazione? Con la semplice volontà di associarsi. Ma su quali basi? Con quale garanzia di efficacia reale? Con quale misura della sua razionalità intrinseca? È ovvio infatti che il glocal (“pensare globalmente e agire localmente”) è solo uno slogan che non può sostituire tali processi, né ne offre un metodo di analisi, poiché essi, sorgendo sotto l’auspicio di un desiderio, sfuggono per definizione alla necessità. Risulta piuttosto plausibile che si disegnino scenari opposti: quelli in cui, al posto della cooperazione e della socializzazione della produzione in senso globale, prevalga l’atomizzazione, il trionfo di logiche e interessi particolaristici, la celebrazione dell’identitarismo e del protezionismo.

Comments

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Maurizio Enzo lazzer
Monday, 08 May 2017 13:17
Io credo di essere d'accordo con le sue tesi dopo aver a fatica analizzato il testo; le difficoltà dipendono dai miei limiti di formazione.
In più mi sento di di aggiungere che sia coerente col marxismo considerare che attualmente il capitale (che appunto deriva da caput capo come vertice del comando, ma anche capo come mente), ha spostato la matrice del plusvalore dalla produzione al consumo di massa; voglio dire chela uniformazione della vita entro i ritmi produttivi-che coinvolge l'uomo ed suo contesto di natura e cultura-ha condizionato la matrice del plusvalore, ha condizionato in maniera irreversibile la mente nella maggioranza delle persone-esclusi i monaci e gli eremiti-a dipendere dal plusvalore prodotto con tutte le conseguenze dirette che fanno capo alla follia ed alla infelicità ed indirette che danno luogo alle guerre, alla distruzione dell'ambiente e della stessa coscienza sia individuale che sociale, .L'individuo è diventato alienato da quello che egli stesso produce;la conseguenza è la svalutazione accelerata del lavoro in sè, della sostanza fisica ed intellettuale del lavoro, della conoscenza e creatività teorico-pratica spostata dall'uomo alla macchina produttiva; produce quindi la sua stessa alienazione ; l'atto del conoscere finisce anche esso per essere un elemento del consumo alienato che alimenta l'atto produttivo chiudendo il circuito della formazione del plusvalore.
I sintomi sono evidenti:per esempio le varie forme patologiche di dipendenza,la perdita di soledarietà entro ed oltre il gruppo di appartenenza,la perdita della conoscenza della natura, lo svuotamentodel senso concreto del discorso filosofico,lo smarrimento della disciplina e dei codici interpretativi del testo scritto,l'ignoranza e la aggressività che connotano rapporti interpersonali,il teatro dell'assurdo a cui è ridotta la nostra vita quotidiana, l'invadenza dei media ecc. ecc.
Ma come lei mi insegna dal contesto nascono gli elementi che si sono mimetizzati che sovvertono la realtà, anzi che rivelano la realtà.........
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