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studio

L’illusione di essere élite

di Anna Momigliano

Ritratto della classe aspirazionale, tra meccanismi di compensazione, negazione e lotta di classe anagrafica

London Pekam 01Quando mia figlia ha finito la prima elementare, un genitore della classe ha proposto di fare la cena di fine anno in un all you can eat: che bella idea, ho risposto, non avendo io mai messo piedi in un all you can eat. Poi, però, giunta al ristorante, mi sono bastati pochi minuti per sentirmi fuori posto: tutto mi sembrava triste e pacchiano e insensato. Abbiamo mangiato del pessimo sushi e ogni adulto ha sborsato trenta euro, più o meno la stessa cifra che spendo per mangiare decentemente. Prima, quando uscivamo con qualche compagno di classe, andavamo in qualche hamburgheria nobilitata (nella nostra zona ce ne sono tre, di cui due in aree pedonali dove si possono sguinzagliare i bambini) oppure a farci un brunch domenicale, tutte operazioni altrettanto economiche e meno alienanti. Il fatto è che nell’ultimo anno abbiamo cambiato scuola, spostandoci molto più lontano dal centro di Milano, ed è stato un cambiamento antropologico prima ancora che geografico.

Nella materna all’interno della cerchia dei navigli che frequentavamo, le mamme giovani vestivano Muji e Petit Bateau, le tate dispensavano gallette di riso e frutta biologica, e all’uscita si affollavano curatissime nonne in bicicletta. Nella nuova scuola il tasso di babysitter è calato, i bambini fanno merenda con le Camille del Mulino Bianco, le mamme più curate sfoggiano fondotinta opachi e bauletti firmati. È cambiato il contesto socio-economico, ma non è soltanto una questione di reddito: certo, le famiglie del centro tendono a essere più benestanti, però non è sempre così. Le case, per cominciare, si ereditano, oppure si acquistano prima che un quartiere diventi gentrificato, e infatti tra i genitori della vecchia scuola c’erano anche un’altra coppia di giornalisti spiantati, una docente a contratto della Statale e due professori del liceo; davanti alla nuova scuola, poi, vedo parcheggiato più di un Suv. È una differenza di etologia, prima ancora che di classe.

Più o meno nello stesso periodo, m’è capitato di leggere un libro di cui si diceva un gran bene sulla stampa americana (quello di leggere soprattutto giornali stranieri è un altro vizio di un certo ceto urbano cosmopolita, che talvolta si traduce nel ritrovarsi fuori sincrono rispetto ai media nostrani, raccontava Francesco Guglieri in un gran bel pezzo su Pagina99). In The Sum of Small Things: A Theory of the Aspirational Class, pubblicato dalla Princeton University Press a fine maggio, la sociologa e urbanista Elizabeth Currid-Halkett teorizza l’avvento di una nuova categoria sociale unita più da una sensibilità etica ed estetica che da parametri economici: una «nuova élite culturale» che si concentra nelle grandi città globali e che rivela la propria posizione «attraverso significanti culturali che trasmettono l’acquisizione di una conoscenza e di un sistema di valori». La «classe aspirazionale», come la definisce, si distingue per linguaggio, per i consumi culturali (l’abbonamento al New Yorker, sostiene l’autrice, è uno dei segni distintivi) e per la ricerca di prodotti «da intenditore» accompagnata da una certa ossessione per l’autenticità e la trasparenza: che si tratti di formaggi da gourmand o di birra artigianale, di scrub biodegradabili o di t-shirt prodotte in Europa, ogni acquisto deve rifuggire la massificazione e «raccontare una storia». Un altro tratto ricorrente è una notevole cura della persona, incarnata in corsi di yoga, pilates e crossfit, che, nelle donne, si somma a una ritrovata vocazione a una genitorialità tradizionale: allattamento al seno prolungato, pappe fatte in casa, e via dicendo. È una categoria che si sovrappone soltanto in parte alla “classe creativa” teorizzata un decennio fa da Richard Florida e a quella dei cosiddetti “knowledge workers”, i professionisti altamente qualificati, perché implica il possesso di conoscenza, ma non necessariamente di quelle conoscenze richieste sul mercato.

La teoria di Currid-Halkett può essere riassunta in due punti. Primo, le nuove élite culturali, se paragonate con quelle che le hanno precedute, tendono a dedicare molte più risorse ai beni immateriali rispetto a quelle che dedicano ai beni materiali, dunque istruzione, viaggi, corsi e abbonamenti a Netflix hanno la precedenza rispetto a tappeti ed elettrodomestici; però quando si dedicano ai beni materiali, lo fanno con un’attenzione al dettaglio quasi maniacale. Sono due facce della stessa medaglia: viviamo nell’era dell’abbondanza, in cui tutti possono accumulare oggetti, dunque chi desidera distinguersi dalle masse non ha che da consumare meno e consumare meglio (uno dei capitoli più interessanti è dedicato alla “voluntary simplicity”, la semplicità volontaria che non è anticonsumismo, e nemmeno decrescita felice, ma una dichiarazione di sapere apprezzare le cose giuste; la parola “organic”, biologico, è ripetuta quaranta volte nel libro; “artigianale” quattordici e “autentico” dodici). È l’opposto, e insieme la conferma, di quello che Thorstein Veblen diceva della classe agiata alla fine dell’Ottocento, quando sosteneva che la funzione principale dei loro «consumi vistosi» era differenziarsi dai più: in un’epoca in cui i consumi vistosi sono alla portata di molti, se non proprio di tutti, l’élitismo si rifugia in quelli che Currid-Halkett definisce i «consumi non vistosi». Il suo secondo punto è che la classe aspirazionale è una classe, anche se include individui di reddito assai diverso tra loro: «Ci sono membri della classe aspirazionale che sono ricchi, avvocati di grandi studi che spendono fortune in rette universitarie dell’Ivy League e in fragole biologiche. Altri, come gli sceneggiatori disoccupati e i laureati in design, possono a malapena partecipare economicamente a questo mondo, ma trovano altri mezzi per affermare l’appartenenza a esso».

Per promuovere il libro, Currid-Halkett ha messo a punto un test in cinque punti. Fai parte della classe aspirazionale se, uno, «compri cose che ti fanno sentire una persona migliore» e, due, «i “consumi non vistosi” rappresentano una fetta importante della tua spesa»; se, tre, fare il genitore per te è un «nuovo status symbol» e se, quattro, «parli di idee e non di cose», insomma se ti muovi a tuo agio nelle cene dove si chiacchiera dell’ultimo podcast; infine, se disponi del tuo tempo con una discreta flessibilità, perché lavorare da casa fa molto élite. Stando a questo inventario, rientro in pieno nella categoria. Eppure. Eppure qualcosa mi dice che è sbagliato pensare a me stessa come élite, e non è falsa modestia, e neppure un cedimento allo Zeitgeist populista; più banalmente, i documenti che ho consegnato al commercialista per la dichiarazione dei redditi raccontano che non c’è nulla che mi separi dalle masse. E pensare che nel malandato ambiente delle professioni culturali sono quasi una privilegiata, perché ho un posto fisso cui si somma qualche buona collaborazione: non sono la «fascia alta dei morti di fame», come Michele Masneri ribattezzò sul Foglio, citando Walter Siti, i freelance pagati ottanta euro a pezzo; sono quell’insipida classe media che, incidentalmente, condivide la sensibilità e i titoli di studio con una certa élite. Non credo di essere un caso isolato, ma se la figura dell’intellettuale povero si presta bene a essere romanticizzata, quella dell’intellettuale borghese piccolo piccolo innesca una dissonanza cognitiva che è difficile da mandare giù.

L’elemento meno convincente di The Sum of Small Things consiste proprio nel mettere sullo stesso piano élite culturale ed élite economica, quasi a dire che sono la stessa cosa e che, anche quando non lo sono, poco importa: «Gli hipster disoccupati frequentano gli stessi caffè degli sceneggiatori che hanno successo a Hollywood», scrive a un certo punto l’autrice, come se bastasse un frappuccino a chiudere la questione. Che senso ha parlare di élite, come fa Currid-Halkett, ignorando le divisioni di reddito? E la sua teoria della classe aspirazionale può essere applicata al contesto italiano, dove la disparità tra istruzione e reddito è forse ancora più marcata? Per chiarirmi le idee, ho fatto due chiacchiere con Massimo Zanetti, un sociologo che si occupa proprio di classi sociali e che insegna all’università della Valle d’Aosta. Prima di tutto, dice Zanetti, bisogna distinguere tra «classe» e «ceto»: la classe, specie nella concezione di Max Weber, dipende dalla posizione in relazione al mercato del lavoro, mentre il ceto è una forma di distinzione sociale legata agli stili di vita e ai consumi culturali. In tempi recenti, puntualizza, «lo squilibrio tra condizione reddituale e ceto si sta verificando più frequentemente». Questo è particolarmente vero in Italia, prosegue il sociologo, «dove le differenze di classe corrono soprattutto sulle linee generazionali»: in altre parole, più siamo vecchi, migliore è la nostra posizione in relazione al mercato del lavoro; o, parafrasando una vecchia battaglia di Studio, in Italia la vera lotta di classe è quella anagrafica, e questo si traduce in una sovrapposizione ancora minore tra élite culturale ed élite finanziaria. Zanetti qui introduce una chiave di lettura interessante per capire certe dinamiche di consumo delle élite culturali: «I consumi hanno sempre un aspetto simbolico. Se voglio mantenere una distinzione, ma ho pochi mezzi per farlo, allora una buona strategia è accentuare questo aspetto simbolico. Creo nuovi segni distintivi, in alcuni casi, magari, facendo di necessità virtù: basti pensare a come l’uso della bicicletta in città non sia più vissuto come una diminutio ma come un segno di distinzione».

46300 euro il reddito mediano di una famiglia negli Stati Uniti

35900 euro in Francia e Germania

33120 euro in Gran Bretagna

28300 euro in Italia

27900 euro in Spagna

E se fosse questo il punto dei «consumi non vistosi», una scorciatoia per differenziarci a basso costo? Certo, comprare cibo da connoisseur costa più che comprare cibo standard da supermercato, ma non poi così tanto di più. Vestirsi da American Apparel costa più che vestirsi da Zara, ma è una differenza facilmente affrontabile. Lo stesso vale per un abbonamento a Internazionale o a un centro yoga fighetto, tutte cose che ci permettono di esorcizzare la nostra ansia di essere uguali alla massa, pur senza avere grandi risorse per farlo. Già qualche anno fa Mark Greif, il cofondatore di N+1, teorizzava che, dietro a quelli che definiremmo consumi evoluti si nasconde una forma di compensazione per «i giovani di classe medio-bassa che sanno muoversi con stile» ma non godono di grandi mezzi: «Soltanto in base alla coolness dei loro vestiti possono essere “superiori”: la sapienza hipster compensa l’immobilità economica», ha scritto sul New York Times in tempi non sospetti, quando si poteva ancora utilizzare la parola “hipster” senza il rischio di sembrare ridicoli. È più o meno la stessa cosa che, più recentemente, ha scritto Raffaele Ventura su IL: «La verità è che gli status symbol sono in fin dei conti molto più preziosi dei beni normali: sono il nostro appiglio per “restare nel club”, ovvero tentare di resistere al declassamento e alle sue concretissime conseguenze».

Se uno ci pensa, è molto vebliana questa cosa e le esigenze che si nascondono dietro i «consumi non vistosi» negli anni Dieci sono le stesse che si nascondevano dietro i «consumi vistosi» dell’Ottocento: devo separarmi della massa, però la distanza economica tra me e la massa si sta assottigliando – quando c’è ancora – e il risultato è che non solo devo elaborare nuovi modi, meno vistosi, per distinguermi dai più, ma, addirittura, avverto un’esigenza maggiore di distanziarmi da loro, proprio per esorcizzare questo ravvicinamento indesiderato. Forse però, oltre alla compensazione, c’è anche un altro meccanismo freudiano in atto. Nel suo besteller del 2011, Chavs: The Demonization of the Working Class, il giornalista inglese Owen Jones si domandava come mai nessuno più volesse più definirsi classe lavoratrice. Riportava, tra le altre cose, un dialogo surreale con un amico economicamente malmesso, che però si ostinava a sostenere: «Ok, per la casa dove vivo e per quello che guadagno sono working class, ma per tutto il resto, per esempio l’istruzione, mi sento classe media». Questo, suppongo, si chiama diniego. La mia impressione è che sta accadendo qualcosa di simile con le cosiddette élite che sono élite soltanto per i loro consumi culturali: a pochi piace pensarsi povero, ma ancora a meno piace pensarsi borghese piccoli piccoli, e così ci ritroviamo in una fase di negazione collettiva.

Ho esposto i miei dubbi a Currid-Halkett, l’autrice di The Sum of Small, che mi ha risposto in una email: «Credo che il concetto di una classe aspirazionale legata da una valuta più culturale che economica diventi ancora più interessante da osservare, in una situazione dove il capitale culturale non conferisce automaticamente una stabilità economica e dove esiste una sovrapposizione minore tra livello culturale e reddito». Quello che intendeva dire è che la sua analisi si riferisce a un contesto, quello americano, dove l’élite culturale coincide spesso (seppure non sempre) con l’élite economica; ma che potrebbe essere applicata, e a maggior ragione, a un contesto come quello italiano, che «permette di vedere la vera espressione di questa nuova élite per quello che è veramente, cioè persone che danno la priorità a particolari significanti culturali indipendentemente dal prezzo e che a volte fanno scelte culturali che non sono allineate con la loro posizione economica». È un’analisi interessante, che però contiene anche qualche elemento consolatorio. Non riesco a togliermi l’idea che, dietro a questo modo di vedere le cose, si nascondano meccanismi di compensazione e di diniego.

Qualche giorno fa ero a una festa sulla terrazza di un piccolo appartamento milanese pieno di libri e di persone interessanti, uno di quei dinner party estivi frequentati da giornalisti, editor e scrittori, dove capita spesso di sentire parlare altre lingue e, più raramente, d’incontrare persino qualche nome noto. Seduta vicino a me c’era un’autrice nigeriana di discreta fama internazionale: abbiamo parlato di quello di cui ci si aspettava avremmo parlato in una situazione del genere. Io le ho detto che avevo letto un paio di suoi editoriali sul New York Times e che mi erano piaciuti e lei mi ha detto, azzeccandoci, che «mi sembra di riconoscere un po’ di Ivy League in te». Immagino volesse essere un complimento. Però è stato come un pugno nello stomaco, perché la prima cosa che ho pensato è stata che, difficilmente, un giorno potrò pagare una retta all’Ivy League per mia figlia. In un passaggio particolarmente lucido del suo saggio, Currid-Halkett nota come molti dei membri meno economicamente affermati della classe aspirazionale abbiano pur sempre ricevuto un’educazione costosa: «Il New York Times costa solo due dollari e cinquanta, ma la capacità di capire tutte le parole che contiene e le sue allusioni culturali implica un’istruzione pagata profumatamente». Se tutto quello che sono, che cosa leggo, come consumo e le parole che scelgo, è il prodotto del fatto che i miei genitori hanno potuto mandarmi a studiare all’estero, allora cosa potrò lasciare di me? Forse una élite culturale che non è ricca esiste davvero, come dice Currid-Halkett, però è destinata a estinguersi nel giro d’una generazione.

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