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L’origine della diseguaglianza. Da Rousseau al Paleolitico

di Cristina Cecchi

origine della disuguaglianza 510«Infatti è facile vedere come tra le differenze che distinguono gli uomini ve ne siano parecchie che passano per naturali, mentre sono solo il prodotto dell’abitudine e dei diversi generi di vita che gli uomini adottano in società.»

«Può esservi un uomo tanto depravato, pigro e feroce, da costringermi a provvedergli i mezzi di vita mentre se ne sta in ozio?»

«Ignorate che una moltitudine di vostri fratelli, muore, o soffre nel bisogno di ciò che voi avete di troppo, e che vi ci sarebbe voluto un consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano per poter prelevare sui mezzi di sussistenza comune tutto quel che andava al di là del vostro bisogno?»

«È contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, […] che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario.»

Jean-Jacques Rousseau

«Liberté, égalité, fraternité ou la mort». O, per dirla con Jeremy Corbyn, «For the many, not for the few». Dacché la modernità è nata, una porzione della specie umana non ha smesso di anelare all’eguaglianza, mentre un’altra, cospicua porzione ha continuato a brigare per la sua sussistenza, possibilmente a proprio favore.

Oggi il dibattito ferve più che mai, si moltiplicano gli studi e le pubblicazioni, economisti si arrovellano per proporre programmi più o meno realizzabili di riduzione del divario socioeconomico. Ma la domanda radicale rimane sempre la stessa: la diseguaglianza è naturale o costruita dalla società? E, se è costruita, ha davvero ragione di esistere?

 

Da Rousseau…

Nel novembre 1753 Le Mercure de France pubblica il tema del nuovo concorso dell’Accademia di Digione: «Quelle est l’origine de l’inégalité parmi les hommes et si elle est autorisée par la loi naturelle?». Dopo un idillico ritiro meditativo a Saint-Germain, dove, nel folto della foresta, cerca di ritrovare la schiettezza dell’uomo primitivo, il 12 giugno 1754 Jean-Jacques Rousseau completa la stesura del Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini che fu alla base della rivoluzione dell’Occidente europeo.

Per rispondere al quesito dell’Accademia Rousseau cerca di arrivare a vedere l’uomo tal quale l’ha fatto la natura; ma non è facile discernere attraverso i mutamenti che il corso dei tempi e delle cose ha apportato alla costituzione originaria, distinguere ciò che appartiene all’essenza da ciò che le circostanze e i progressi hanno aggiunto o cambiato rispetto allo stato primitivo. Rousseau studia i libri di viaggio e i grandi teorici del diritto naturale, ma sa che la sua impresa ha carattere approssimativo: è impossibile scorgere, al di là delle stratificazioni sovrapposte, la natura e l’uomo naturale. Il suo selvaggio non è verità storica, ma un’astrazione, un ragionamento condizionale; la migliore ipotesi di lavoro disponibile.

Due sono le specie della diseguaglianza:

«l’una, che chiamo naturale o fisica perché è stabilita dalla natura, e che consiste nella differenza d’età, di salute, di forze del corpo e di qualità dello spirito o dell’anima; l’altra, che si può chiamare diseguaglianza morale o politica perché dipende da una sorta di convenzione che è stabilita, o per lo meno autorizzata, sulla base del consenso degli uomini. Questa consiste nei differenti privilegi di cui alcuni godono ai danni degli altri, come essere più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche farsene obbedire».

Rousseau non si chiede tanto quale sia la fonte della diseguaglianza naturale (risposta implicita nei termini) o se esista un nesso essenziale fra le due diseguaglianze (se, cioè, quelli che comandano valgano necessariamente più di quelli che obbediscono e se la forza del corpo o dello spirito si trovi sempre negli stessi individui in proporzione della potenza o della ricchezza) – ovviamente, la pletora di papi e sovrani imbelli che la storia ci ha presentato, di ricchi e potenti inetti alla cui parata tuttora assistiamo ci dice che no, non c’è un nesso razionale ed essenziale fra le due diseguaglianze: la diseguaglianza naturale delle forze fisiche e delle abilità mentali ha un ruolo nella differenza di esiti di vita dei singoli, ma ben ridotto rispetto a quanto oggi si vorrebbe far credere. Rousseau si propone invece di spiegare per quale catena prodigiosa di fatti la maggioranza della popolazione umana abbia potuto risolversi ad accettare il privilegio della minoranza.

«Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti”.»

È questo il momento della svolta. La proprietà, e in generale il privilegio, sono un’impostura. In natura non sono. Ma ogni impostura è fragile, perché si regge solo sulla credulità altrui. Se le vittime dell’impostura dicessero: No; se si rivoltassero contro l’impostura, l’impostore fuggirebbe a gambe levate, perché senza la sua maschera perderebbe anche la sua sostanza. Se i cittadini dicessero No, non daremo venti miliardi dei nostri soldi duramente guadagnati – e finora quando si chiedeva che venissero usati per il bene comune ci si sentiva rispondere che non esistevano – per evitare il naufragio a enti privati che hanno fatto sempre soltanto i propri interessi e dentro i quali i pochi si sono arricchiti in faccia ai molti, saremmo in presenza di una scelta che cancella secoli e millenni non solo di ingiustizia, ma soprattutto di irrazionalità. Ma questa scelta non è stata fatta, l’impostura ha regnato sovrana e quasi senza oppositori e la diseguaglianza ha potuto ingrassarsi e prosperare, da tutte le parti nel mondo, in tutto il tempo del mondo.

«Da quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’eguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare con le messi la schiavitù e la miseria.»

La spinta all’accumulazione, che nasce in primo luogo dalla paura di non avere abbastanza per la sopravvivenza e in secondo luogo dal desiderio di assicurarsi una sopravvivenza migliore, porta alla proprietà, e in definitiva a quello che poi sarebbe stato chiamato il capitale. Da lì l’umanità si è divisa in chi aveva questo accumulo e chi non l’aveva, chi aveva quindi gli agi e chi li invidiava e si affannava per procurarsene un simulacro.

«Ora, quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta, conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto, mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi, dal canto loro, […] pensarono solo ad assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo divorare uomini.»

È questo il tempo del bellum omnium contra omnes. L’uomo non è homini lupus per natura – anzi, per Rousseau l’umano nel suo primissimo stadio è un individuo solitario, senza relazioni con i suoi simili –, ma lo diventa nel percorso che l’umanità compie da giovinezza a decrepitezza, da innocenza a corruzione. E non nel diritto naturale, né nella razionalità, sta la legittimazione della diseguaglianza di ricchezze. A rigor di logica, il ladro non esisterebbe se non esistesse la proprietà; inoltre, dato che la proprietà è un furto, nessuno è vero ladro se non colui che attinge alle risorse comuni più degli altri, cioè il possidente, ovvero, in termini moderni, il capitalista. L’idea abusiva che alcuni abbiano diritto anche alla porzione altrui e che questo diritto vada difeso è l’antenata della Confindustria, dei partiti repubblicani e di tutti i conservatori del globo. La diseguaglianza è nata con questa usurpazione originaria, e da allora non ha smesso di avvilire il genere umano.

Dall’accaparramento, dalla diseguaglianza di ricchezze si è generata poi un’altra specie di diseguaglianza: quella di potere.

«Il ricco, incalzato dalla necessità [di proteggere se stesso e i propri averi], finì con l’ideare il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario. […] “Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza distinzione il potente ed il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna concordia.”»

È così che nascono il patto sociale e il potere costituito modernamente intesi. Ed è così che lo stato e il potere sono stati dall’inizio ovviamente in mano ai ricchi, in difesa dei ricchi e delle loro proprietà.

«Questa fu, almeno è probabile, l’origine della società e delle leggi, che ai poveri fruttarono nuove pastoie e ai ricchi nuove forze, […] facendo d’una accorta usurpazione un diritto irrevocabile, e assoggettando ormai, a vantaggio di pochi ambiziosi, tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.»

Lo stato politico resterà sempre imperfetto perché viziato all’origine – a meno di essere disposti a ripensarlo dalle sue stesse fondamenta, a partire dall’abolizione della proprietà privata.

Ma per Rousseau c’è un ulteriore elemento alla radice della diseguaglianza: il desiderio di primeggiare. Quella celebre colpa di chi per primo cintò un terreno e disse «È mio» più che avidità esprime superbia. Da quando l’uomo ha scoperto la considerazione, ognuno ha preteso di avervi diritto. Ognuno aspira a instaurare una diseguaglianza che lo ponga in posizione di privilegio.

«Potrei infine provare che, se si vede un pugno di potenti e di ricchi al culmine della grandezza e della fortuna, mentre la folla striscia nell’oscurità e nella miseria, ciò si deve al fatto che i primi tengono in pregio le cose di cui godono solo in quanto gli altri ne sono privati, e che, senza mutar condizione, smetterebbero di essere felici se il popolo smettesse di essere miserabile.»

La reputazione, la brama di distinguersi.

«Tale è in effetti, la causa vera di tutte queste differenze: il selvaggio vive in se stesso; l’uomo socievole, sempre proiettato fuori di sé, non sa vivere che nell’opinione degli altri, ed è, per così dire, solo dal loro giudizio che trae il senso della propria esistenza.»

L’uomo, creando diseguaglianza socioeconomica e cercando di collocarsi quanto più possibile in alto nella piramide da lui stesso generata, aspira non solo a un maggiore soddisfacimento dei propri bisogni primari – soddisfatti fin dai primi gradini della piramide –, ma soprattutto a generare una struttura che gli assicuri di avere persone a lui soggette e inferiori, in sostanza ad avere riconoscimento. Se, inghiottiti tutti i tesori del mondo, ridotti alla desolazione tutti gli uomini e infine annientatili, privatili della vita stessa, il nostro eroe rimanesse da solo nell’universo, avrebbe fallito il suo scopo, sarebbe sovrano nel deserto e questo non gli darebbe soddisfazione alcuna. L’uomo vuole essere re perché ha bisogno dell’ammirazione dei sudditi per distinguersi dal caotico buio primordiale dell’assenza di senso nell’essere. In questi termini la diseguaglianza è il prodotto della competizione, ma di una competizione di natura metafisica, una rivalità per risorse non materiali. E questa è, probabilmente, la ragione sovrana per cui l’uomo ha imboccato la via della diseguaglianza anziché dell’eguaglianza. Una ragione irrazionale.

La conclusione di Rousseau è perentoria: «è contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, […] che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario».

Ma dopo aver appurato che la diseguaglianza è un’istituzione contro natura, che fare? Rousseau ha pensato storicamente il problema delle origini della diseguaglianza, ma non si è preoccupato di risolvere il problema escatologico della sua fine nella storia umana. Il Discorso non si chiude su una costruttiva «negazione della negazione», non annuncia né invoca una risoluzione rinnovatrice che consenta un nuovo cominciamento della storia. Non si appella alla rivoluzione. Per il disilluso Rousseau l’unica via è un’educazione che ripercorra le tappe del processo umano dall’isolamento naturale alla società, ma senza vizio:

«Invece di pensare che per noi non ci sia né virtù né felicità, e che il cielo ci abbia abbandonati senza soccorso al decadimento della specie, sforziamoci di ricavare dal male stesso la medicina che deve guarirlo. Correggiamo, se possibile, i difetti dell’associazione generale con nuove forme di associazione» (dal Manoscritto di Ginevra).

Non, come interpretava Voltaire, per tornare a camminare a quattro zampe, bensì per riconquistare al lume della ragione ciò che prima si possedeva per puro istinto; per farsi levatrici nella nascita dell’uomo nuovo.

Il lume della ragione: di questo si tratta? Una comprensione intellettuale e un’adesione morale a quella che, stando a questa ricostruzione, sarebbe la legge naturale dell’eguaglianza? Detto altrimenti: siamo nati eguali ma la storia ci ha diviso, con esiti più che infausti per la maggioranza dell’umanità, e ora dobbiamo fare uno sforzo di volontà per cancellare l’errore, fare appello alla moralità (nel caso siamo della schiera dei privilegiati) per rinunciare ai nostri vantaggi e istituire una socialità finalmente equa? E in che cosa consiste la realizzazione dell’eguaglianza: nel distribuire a tutti i cittadini indiscriminatamente gli stessi vantaggi o nel distribuirli in proporzione al merito di ciascuno? Esiste un’eguaglianza ingiusta?

Comincio dalla fine. Non tutti hanno bisogno di tutto allo stesso modo, perciò una distribuzione a pioggia delle risorse è senz’altro irrazionale prima che ingiusta. Ma: storie narrano che sul monte Taigeto, presso Sparta, venissero abbandonati i bambini deformi perché intemperie e bestie feroci ne facessero boccone. Ora, gli anziani sono individui che hanno prodotto e che a un certo punto, pur non producendo più, chiedono di essere comunque destinatari di risorse collettive in virtù di quelle prodotte nel corso della vita; ai bambini si prestano tutte le cure pensando che un giorno saranno individui produttivi; che fare dunque con coloro che mai hanno prodotto e mai produrranno perché fisicamente o mentalmente incapaci di farlo? Se non si vuole essere la civiltà del Taigeto, è necessario scorporare la fruizione dei beni e dei servizi comuni dalla produttività individuale, cioè dall’abilità e dal merito; il che significa far valere il principio della solidarietà sociale. Significa riconoscere che non c’è alcun criterio universale per misurare il valore del contributo di una persona, quindi il merito in base al quale questa dovrebbe guadagnare qualcosa in misura minore o maggiore di altri, e che ciò accade in primo luogo perché la ricchezza è un prodotto sociale, collettivo, di tutte le generazioni attuali e precedenti; in secondo luogo perché il demerito è a sua volta sociale, collettivo: il fatto che una persona meriti meno perché produce di meno o in qualche modo vale di meno è in larga parte riconducibile a fattori collettivi più che di indolenza o scarsità di doti personali. «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» volevano sia Marx sia gli anarco-comunisti, che prevedevano una forma di associazione volontaria ed egualitaria senza stato in cui vigesse la comunizzazione dei beni e dei servizi, distribuiti a ogni persona attraverso un’economia gestita dalla comunità – distribuiti non in proprietà, ma in uso individuale. E se davvero qualcuno possedesse più saggezza, più intelligenza, in generale più capacità degli altri, si potrebbe prevedere una diversificazione delle funzioni sociali, che non comporta affatto necessariamente la soggezione di uno all’altro o maggiori ricchezza e benessere per uno rispetto ad altri. Tutto ciò significa, insomma, ripartire beni e servizi secondo i bisogni senza considerare il lavoro che è stato compiuto dal singolo individuo, senza commisurarli al merito, senza decretare la diseguaglianza. Anche perché, nel dubbio, è meglio dare di più a chi forse non lo merita pienamente che dare di meno a chi lo meriterebbe.

Perché? Perché, infine, l’eguaglianza? Per la storia? Per la legge morale? Non solo. Credo soprattutto per la ragione della pietà. Jeremy Waldron in One Another’s Equal: The Basis of Human Equality, da poco pubblicato presso Harvard University Press, statuisce l’eguaglianza morale fondamentale, cioè pari dignità e rispetto, in base all’eguaglianza fondamentale, cioè alla considerazione che tutti gli esseri umani – nonostante le diverse capacità e caratteristiche naturali – sono comunque esseri umani, fanno parte della stessa specie e di conseguenza devono essere destinatari di un trattamento eguale da parte dei loro consimili, in barba ai privilegi di nascita o di merito. Lo spazio umano è continuo, non discreto: qualunque essere faccia parte dell’insieme umanità deve essere trattato come eguale a qualunque altro essere faccia parte dello stesso insieme; nessuna differenza organica, funzionale, di costume e via discorrendo può sottrarre alcunché a questa osservazione. Fare tutti parte dello stesso insieme umanità comporta empatia verso l’altrui sorte, pietà per l’altrui sofferenza – e questa è una sensazione istintiva, non un parto cerebrale. L’eguaglianza è una prescrizione della nostra natura. La sua realizzazione non è opzionale.

 

… al Paleolitico

Rousseau si sbagliava su molte cose. E aveva ragione su molte cose. Antropologia, sociologia e archeologia ai suoi tempi non erano ancora nate: i dati affidabili erano pochissimi, le notizie derivavano perlopiù da aneddotici resoconti di viaggio. Lo sforzo intellettuale di Rousseau è stato immenso e ha prodotto risultati immensi, per certi versi tuttora insuperati, ma oggi per ricostruire l’origine della diseguaglianza ci si può servire dei dati archeologici disponibili per i popoli antichi e dei dati antropologici per i popoli moderni che ancora vivono come gli antichi. È l’operazione compiuta da Kent Flannery e Joyce Marcus con l’opera The Creation of Inequality: How Our Prehistoric Ancestors Set the Stage for Monarchy, Slavery, and Empire, pubblicato da Harvard University Press per la prima volta nel 2012 e tuttora inedito in Italia.

Chiunque siamo, ovunque viviamo, qualunque lingua parliamo, qualsiasi siano i nostri costumi e le nostre credenze e il colore della pelle, all’incirca due milioni di anni fa i nostri progenitori vivevano in Africa, erano neri ed erano eguali. È stato soltanto intorno al 15.000 a.C. che la diseguaglianza ha fatto la sua comparsa sul pianeta Terra. Durante il Paleolitico, fino al 10.000 a.C., cioè fino alla fine dell’ultimo periodo glaciale, tutti i gruppi umani, nell’ordine dei cinque milioni di individui, vivevano di caccia, pesca e raccolta, in regime di diretta dipendenza dalle risorse naturali fornite dall’ambiente; le società di cacciatori-raccoglitori, specialmente quelle senza clan, non conoscevano monarchie ereditarie né apparati burocratici e avevano un’organizzazione politica che non andava oltre il livello della famiglia estesa, che conduceva una vita nomade vivendo dei prodotti della caccia, della pesca e della raccolta dei vegetali commestibili e abitava in accampamenti temporanei al di sotto delle cinquanta persone. Poiché la vita nomade imponeva che ogni donna fosse in grado di accudire un figlio alla volta, le nascite erano limitate in modo che tra un figlio e l’altro passassero all’incirca quattro anni. Queste società erano generalmente egualitarie: usavano condividere il cibo, di cui quindi la parte in eccesso non veniva conservata; il capo era tutt’al più un custode della terra, che non aveva alcun privilegio sociale né potere coercitivo. Si scambiavano doni anche con persone non appartenenti al nucleo ristretto, e i doni venivano ricambiati al massimo nel giro di due anni tassativamente con oggetti non superiori in valore, cosa che altrimenti avrebbe stabilito un rapporto di superiorità. Creata una rete di solidarietà attraverso il dono, in tempi difficili un nucleo bisognoso avrebbe potuto trovare ricetto nell’accampamento del nucleo con cui aveva stabilito quel rapporto. Le disparità di benessere economico erano mal tollerate e si usava l’arma dell’ironia per prendersi gioco di chi violava la norma sociale dell’egualitarismo; se un individuo persisteva nel comportamento antiegualitario, si usava una segnalazione attiva ed evidente di antipatia come monito. La meritocrazia era rifuggita: anche in un’attività potenzialmente ad alto tasso di disparità come la caccia, in cui una diseguaglianza naturale in forza, agilità e abilità di tiro poteva portare a diseguaglianza dei risultati, venivano adottate misure che la rendevano impossibile. Presso i !Kung – popolazione del deserto del Kalahari, che tuttora vive tra Namibia e Botswana –, per esempio, gli uomini, che cacciano da soli o in gruppi cooperanti di fratelli, cugini, parenti a vario titolo, hanno ciascuno frecce ben distinguibili da quelle degli altri; l’uomo la cui freccia uccide la preda ha il diritto di decidere in quale modo la carne viene divisa, e avvantaggiare così sé e i propri familiari più stretti. Per evitare che la carne migliore tocchi sempre al cacciatore migliore, attraverso un sistema di scambio di doni chiamato hxaro gli uomini !Kung si scambiano le frecce in modo che a ciascuno dei cacciatori del gruppo, e non sempre agli stessi, tocchi d’essere accreditato dell’uccisione della preda – indipendentemente dal fatto che sia stato lui a scagliare la freccia – e quindi di poter scegliere come dividere la carne. I nostri antenati, insomma, vivevano in piccoli gruppi, non conoscevano l’accumulazione di capitale e si adoperavano attivamente per preservare l’eguaglianza e la solidarietà sociale.

Non tutti i nostri antenati, però, hanno continuato a vivere in quel modo. Alla fine del Pleistocene, con l’estinzione di molti mammiferi di grossa taglia per via dei cambiamenti climatici e della caccia esercitata dall’uomo, divenne sempre più difficile vivere di caccia e raccolta; fu così che l’uomo si dedicò alla produzione autonoma di cibo, che lo rendeva meno dipendente dalle condizioni naturali. Questa rivoluzione compiuta dai nostri avi, chiamata neolitica, rappresenta l’atto di nascita dell’agricoltura e del controllo dell’uomo sulla natura: piante e animali da quel momento sono stati al servizio della specie umana. Nel Neolitico, all’incirca dal 9500 a.C., si passò dall’accampamento al villaggio permanente e organizzato, dalla caccia all’allevamento, dalla raccolta all’agricoltura, dalla vita nomade alla vita stanziale. I popoli sedentari potevano allevare tutti i bambini che riuscivano a sfamare: l’intervallo tra due nascite successive si ridusse a circa due anni, contro i quattro dei cacciatori-raccoglitori. La natalità più elevata e la capacità di sostentare un maggior numero di uomini per ettaro di territorio favorirono l’aumento della popolazione. Il modello di sussistenza e la tecnologia di cui una cultura dispone, insieme alle risorse che l’ambiente naturale offre, esercitano una grande influenza sullo stile di vita dei popoli, sul loro universo simbolico di riferimento e di conseguenza sull’organizzazione sociale di quella cultura. Lentamente ma inesorabilmente, con la rivoluzione agricola e il conseguente aumento demografico prima e il progresso nella lavorazione dei metalli poi, alcuni dei nostri avi cominciarono a creare società più grandi, con livelli di diseguaglianza crescente. Lo sviluppo di società complesse comportò il cambiamento delle logiche sociali; tutto iniziò a basarsi sul principio dell’accumulazione. Accumulare cibo significava condividerne di meno: il meccanismo della generosità reciproca si inceppò. Le famiglie a cui meglio riusciva di accumulare cibo potevano fare doni di valore difficilmente eguagliabile dalle altre, creando quindi relazioni asimmetriche: diventavano le famiglie notabili, quelle a cui bisognava prestare ascolto e che potevano parlare in vece dell’intero gruppo davanti agli ospiti. Chi aveva di più poteva fare mostra dei propri possedimenti senza incorrere nella sanzione sociale, anzi: cominciava a essere guardato come un fortunato da invidiare. L’egualitarismo venne scardinato dal principio dell’accumulazione e da quello, conseguente, del prestigio. La gerarchia, la stratificazione sociale prese forma, e fu la forma di una piramide che progrediva dal livello degli uomini «da nulla», alla maggioranza, ai notabili, al capo, che aveva al suo servizio svariati uomini «da nulla». Intorno all’8000 a.C. nel Vicino Oriente, al 2500 a.C. sulle Ande e al 1500 a.C. in Messico nacquero la lotta per il potere, i leader, la meritocrazia. La diseguaglianza divenne un obiettivo da perseguire.

Il passaggio successivo fu dalla meritocrazia alla nobiltà ereditaria. Come già aveva visto Rousseau, la diseguaglianza è il risultato degli sforzi di qualcuno di essere pensato e trattato come superiore; dunque non è stato (solo) il frutto del surpulus generato dall’agricoltura o dall’aumento demografico o dell’accumulo di maiali e altri animali. Per rendere ereditaria la diseguaglianza bisogna convincere gli altri membri del proprio gruppo di essere superiori, e garantire tale superiorità ai propri discendenti – siano essi meritevoli del privilegio o meno. La diseguaglianza è orchestrata: un’operazione di manipolazione attiva e consapevole della logica sociale da parte di agenti umani. Nella Mesopotamia del 5300-5000 a.C., nel Perú e nel Messico del 1200-1000 a.C. nacquero la stratificazione sociale, le classi ereditarie, la divisione tra élite e non élite, l’aristocrazia. Il rango forniva la giustificazione per la disparità di benessere economico.

Poi venne il regno, a perpetuare le forme di diseguaglianza preesistenti e crearne di nuove. Una delle società in competizione sul territorio prese vantaggio sulle altre e si espanse, sottomettendo i vicini e trasformando le società rivali in province tributarie di un territorio più ampio. Si generò così un livello gerarchico ulteriore, che abbisognava di un titolo più alto: non più capo, ma re. Di pari passo nacquero le città capitali e i palazzi, le corti e i monumenti, le tombe regali più magnificenti di quelle di tutti gli altri: ambienti artificiali che non avrebbero potuto essere più lontani dallo stato di natura di Rousseau. L’urbanizzazione è stata una conseguenza della costruzione del potere. Poiché di solito i popoli non si sottomettono volontariamente, fu necessario creare una forza armata, da cui conseguirono la guerra e la schiavitù; il bisogno di difendersi da vicini così aggressivi generò una reazione a catena nei territori confinanti: la comparsa di un regno fornì il modello per la formazione di molti altri. È a questo momento della storia che data l’origine della discriminazione su base etnica: l’etnocentrismo è una tendenza visibile anche nei villaggi delle società primigenie, i cui abitanti consideravano i propri costumi superiori a quelli dei vicini, ma solo a questo momento data una vera e propria cittadinanza di secondo livello su base etnica. Rispetto ai tempi dell’aristocrazia, il potere era concentrato nelle mani di un solo uomo; ma la dimensione del territorio superava quella governabile con le istituzioni precedenti: il cambiamento nell’amministrazione e nell’ideologia si tradusse nella formazione dello stato. Lo stato, dunque, nacque da società che già possedevano un certo grado di diseguaglianza ereditaria. Se in Egitto le società con distinzioni di rango apparvero tra il 5000 e il 3000 a.C., è circa al 3100 a.C. che risale l’inizio della monarchia con la dinastia zero; in Mesopotamia ciò avvenne anche prima, intorno al 3700-3200 a.C., con il periodo Uruk negli odierni Iran e Iraq.

Ma furono i Sumeri (circa 3000-2000 a.C.) – i Sumeri, che da bambini ci insegnavano ad ammirare perché hanno inventato la scrittura, fermando l’infanzia onirica del mondo e dando avvio alla memoria dell’umanità: la storia è davvero la storia degli oppressori – il popolo che in età antica portò al massimo grado di raffinatezza il leviatano della diseguaglianza. I Sumeri per primi privatizzarono la terra; l’aristocrazia ereditaria – i cui figli nutrivano le fila di regnanti, funzionari d’alto livello, sacerdoti e giudici della corte suprema – aveva grandi possedimenti, terre lavorate per loro da gente comune e da schiavi; non c’erano quasi più terre che non fossero private. Il territorio venne diviso in province amministrative, ciascuna con un governatore, una capitale e una gerarchia di città, grandi villaggi e piccoli villaggi. Si perse l’egualitarismo tra unità territoriali – l’eguaglianza non è solo tra umano e umano, ma anche tra unità territoriale e unità territoriale – e vennero l’urbanizzazione e la divisione del lavoro modernamente intese. I Sumeri per primi crearono uno stato burocratico e una classe politica professionale. Secondo alcuni storici dell’economia il santuario sumerico era una vera e propria azienda, l’antesignano delle grandi corporation attuali in economia capitalistica. Giudici e ufficiali giudiziari dispensavano la giustizia in accordo con le regole sancite dalle leggi; mentre prima si rispondeva al furto, all’omicidio e in generale alla violenza a livello individuale o di famiglia, di clan, di villaggio, presso i Sumeri divenne responsabilità statale attuare una serie di punizioni – dalla semplice multa alla pena di morte per lapidazione – codificate per dare l’apparenza di giustizia in una società peraltro molto corrotta. L’ideale sumerico era l’ordine, e il metodo per ottenerlo era l’obbedienza a centinaia di norme, interpretate per il povero dagli aristocratici. Nacquero il sistema di tassazione e la moneta, i prestiti con alti interessi e i debiti schiaccianti. E, regina fra le innovazioni, il monopolio della forza da parte dello stato, con tanto di esercito e leva obbligatoria. Il matrimonio divenne un contratto legale tra un uomo e una donna – probabilmente fu proprio dai Sumeri che gli autori aramaici dell’Antico Testamento mutuarono l’idea che il matrimonio dovesse essere ristretto a un uomo e una donna –: le flessibili relazioni matrimoniali delle società egualitarie, che potevano presentarsi in sei o sette varietà e comportavano una famiglia estesa, in cui le cure parentali erano distribuite e gravavano meno sulla sola donna rispetto a quanto avviene nella famiglia nucleare, vennero arbitrariamente ridotte al rapporto monogamico su base maschile, perché non poteva essere permesso nulla che non garantisse all’uomo la certezza che il suo erede maschio fosse il frutto del seme suo e non altrui. Cambiò l’organizzazione della famiglia, la prima cellula sociale; cambiò l’organizzazione dei rapporti sociali.

Un’altra istituzione che può essere fatta risalire ai Sumeri è l’impero, cioè un macrostato ogni provincia del quale una volta era stato un regno indipendente: sotto Sargon (che secondo la tradizione regnò fino agli ottantacinque anni di età, cioè fino al 2215 a.C.) nacque il primo impero della Mesopotamia e del mondo. Nella ricostruzione di Rousseau sul passato dell’umanità, questo rappresenta lo stadio finale: era in società come quella dei Sumeri che il povero firmava il contratto sociale, accettando la diseguaglianza eterna. Il resto è cronaca recente.

Nel 2500 a.C. praticamente ogni forma di diseguaglianza nota all’umanità era stata generata da qualche parte del pianeta e le società di eguaglianza reale erano state gradualmente relegate in luoghi in cui nessun altro voleva abitare. I creatori dei primi regni non erano consapevoli di generare un nuovo tipo di società: volevano solo eliminare i rivali e accrescere i sudditi. Una volta che esiste un modello, tuttavia, questo è per sempre una possibilità nel novero delle varianti, e può evolversi. Ma non bisogna dimenticare che non tutte le società stratificate si sono evolute in regni: a tutt’oggi, oltre alle società industriali e postindustriali esistono sia società agricole sia gruppi umani che sono rimasti cacciatori-raccoglitori. La diseguaglianza è un fenomeno storico, non una necessità logica né evolutiva. La nascita di società umane complesse, che ha il suo ultimo approdo nella società postindustriale, è paragonabile alla crescita ipertrofica in biologia. Nell’evoluzione biologica, l’aumento demografico è considerato una misura di successo: una specie cresce a spese di un’altra; magari alcuni nuovi geni l’hanno resa più adattiva, oppure un cambiamento nell’ambiente ha favorito i suoi geni preesistenti. L’evoluzione sociale è diversa. Alcuni degli aumenti demografici umani più significativi sono seguiti all’introduzione dell’agricoltura, un mutamento che non ha avuto nulla a che fare con i geni. La decisione di abbandonare la vita nomade e vivere in villaggi stabili, la crescita di aggressive società basate sul rango e la creazione di regni espansionistici sono state spesso accompagnate da aumenti demografici. Beninteso: non sono l’agricoltura e la vita stanziale – quindi un passaggio evolutivo di per sé neutro dal punto di vista della diseguaglianza – ad aver incrementato il livello di diseguaglianza nell’umanità e ad aver dato il la a tutti gli sviluppi successivi. L’agricoltura e la possibilità di accumulare sono stati solo il mezzo che (quel che Rousseau chiamava) l’amor proprio di alcuni – agenti umani che si sono battuti per avere maggiori privilegi rispetto ad altri che invece resistevano a questo processo – ha potuto sfruttare per ottenere privilegio sociale, dal quale poi è derivato il resto. E il resto è storia: può essere modificato. Primitivo non significa superato; evoluto non significa migliore. Perché la storia non procede linearmente e l’evoluzione sociale è un fiume con molte lanche, meandri abbandonati dalla corrente che se tornassero vitali potrebbero spostare il corso e la foce di centinaia di leghe.


Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, in Scritti politici, a cura di Maria Garin, introduzione di Eugenio Garin, vol. I, Laterza, Roma-Bari 2013
Kent Flannery e Joyce Marcus, The Creation of Inequality: How Our Prehistoric Ancestors Set the Stage for Monarchy, Slavery, and Empire, Harvard University Press, Cambridge 2014
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