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ponsimor

Prefazione a Schiavitù del terzo millennio

di Dante Lepore

Dante Lepore, Schiavitù del terzo millennio, ©Associazione Culturale PonSinMor,  www.ponsinmor.info, Gassino Torinese, pp. 400, Offerta minima € 15, e-mail: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

index833Prefazione

Questo saggio fu motivato da una polemica, sorta oltre due anni fa, tra militanti già impegnati in attività sindacale e politica, in occasione della stesura di un documento orientato a favorire un movimento per la rivendicazione del salario garantito, che ne distinguesse i fondamenti marxisti rispetto ai vari propugnatori del «reddito universale di cittadinanza» (da UniNomade , Fumagalli ed altri, fino al movimento 5 stelle).

Nell’elaborazione del documento c’erano allusioni alla «schiavitù» da me proposta e intesa come condizione permanente dei lavoratori produttivi in una società divisa in classi, ma che alcuni intervenuti interpretavano come espressioni puramente evocative e «retoriche» non corrispondenti alla condizione giuridica attuale definita più «dignitosa» proprio perché, a loro dire, il lavoro salariato, se inteso e denominato in termini di «schiavitù» salariata, potrebbe risultare soltanto offensivo per gli operai e non portare a risultati auspicabili, possibili e immediati nelle attuali condizioni socio-economiche e politiche. Sarebbe necessario di conseguenza rendere tali condizioni ancora migliori e sempre più avanzate nella direzione della libertà, concepita come il lato opposto del male assoluto, la schiavitù.

Nel saggio si dimostra che questa idea è una forma di ipocrisia e una distorsione di fondo che mistifica la natura fortemente dispotica e coercitiva del rapporto di lavoro salariato che non è mai tra liberi ed eguali ma nasconde un cinico disprezzo dell’essere umano ridotto a merce forza lavoro, avvilito anche come essere biologico, ad un grado ancora ignoto ai tempi della schiavitù antica quando i prigionieri erano «salvati» (da cui il termine «servus», da «servare») per usarne il lavoro, mentre oggi molti bambini (e non solo!) vengono rapiti per essere squartati per prelevarne gli organi di cui esiste un florido mercato, e le stesse cifre della tratta di esseri umani, peraltro ipocritamente definita «illecita», superano largamente le razzie e tratte del passato. Si tratta di una ipocrita sostanziale accettazione del capitalismo come del migliore dei mondi possibile e un potente freno alla presa di coscienza della necessità di uscire da questo modo di produzione. Questa presa di coscienza, ostacolata oggi da una pletora di ceti parassiti e lacchè interessati a puntellare un sistema sociale che li foraggia, avverrà nel momento in cui a livello di numeri sempre più consistenti, i lavoratori si renderanno conto che il furto del loro tempo di vita li sta rendendo delle larve peggiori degli schiavi antichi. Dalla crescita di quella presa di coscienza, unita al carattere ecologico del ripristino del lavoro come ricambio organico, ossia del metabolismo tra uomo e natura spezzato dal capitalismo, sarà possibile l’avvio di un processo di tanti nuovi Spartaco di un mondo ormai globalizzato

Ironia delle cose fu che in quella fase comparivano nelle manifestazioni pubbliche sempre più insistentemente cartelli e striscioni con scritte, anche in inglese, allusive alla schiavitù, sul tipo affine alla loro stessa ideologia: «Siamo lavoratori e non schiavi!».

Le riflessioni successive mi hanno stimolato ad investigare il problema della schiavitù, sia nel suo profilo storico che in quello teorico, sia dal punto di vista della critica dell’economia politica in Marx ed Engels, sia, in parte, dell’antro-pologia sociale e dei suoi risvolti anche sul piano etico e ideologico. Come «categoria economica», la schiavitù di cui ora si parla nel libro coincide con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in una società divisa in classi antagoniste ormai assuefatte a sopportare all’indefinito, come i maiali di Circe, una condizione di sottomissione al regno della necessità, cioè di una mitizzata «libertà» senza uguaglianza sociale, che è esattamente quella forma che configura la schiavitù salariata, quella che asservisce non tanto gli individui quanto le classi, a causa della ormai compiuta separazione del lavoro dalle proprie condizioni naturali di attuazione operata dal capitalismo, e che non risulta affatto essere quella condizione libera e dignitosa rispetto al male assoluto additato nella schiavitù (sempre immaginata e mitizzata e mai conosciuta).

Per arrivare ad una conclusione come questa, che facesse da filo conduttore della ricerca, è stato necessario non solo affrontare via via anche alcune annose questioni sulla nascita della schiavitù e sul suo declino, ma altresì focalizzarne il contesto preistorico, ossia la formazione delle classi. Queste erano nate dalla divisione sociale del lavoro per realizzare e garantire una produzione e riproduzione non solo della comunità biologica ma anche di quegli elementi improduttivi della società sganciati dal lavoro direttamente produttivo e impegnati in attività specialistiche, prima nella costruzione di attrezzi e poi nella custodia delle riserve ed eccedenze agricole, prima nel tempio e poi nelle varie istanze della amministrazione del palazzo anche del nascente potere politico. Si discute anche sulla variegata semantica che anticamente si articolava in un’altrettanto variegata terminologia indicante quella che oggi denominiamo «schiavitù» e che era termine assente nell’antichità fino al medioevo, quando il «servus» comincia ad implicare altre condizioni e compare il termine «sclavus» nelle sue varie denominazioni locali. L’analisi di Marx, in ciò concorde con Engels, è cruciale nella concezione della schiavitù come «categoria economica», presente in tutte le fasi storiche dell’evoluzione del lavoro e dei rapporti di lavoro fra esseri umani organizzati nelle varie formazioni sociali. Questo non significa affatto che la presenza della schiavitù dia luogo a identici modi di produzione, identici sia dal punto di vista sincronico sia diacronico.

La schiavitù antica (ma in parte anche quella corrente, anche se in forma «invisibile» o «irregolare» o «illegale» o «illecita») si presentava, quando non debitoria, come utilizzo del prigioniero vinto, un outsider , proprietà del padrone, come uno strumento o un bene in mano al padrone. Nell’antichità non si annoverano formazioni sociali che superino il 30% di lavoro in forma schiavista, e comunque gli schiavi erano talmente indispensabili da configurare quello che ancora oggi chiamiamo «modo di produzione schiavista», anche se è raro trovare questo termine in Marx, per il quale, come è noto, l’unico modo di produzione sotto osservazione era quello capitalistico, che tutti li sussume realmente. Del resto la condizione di lavoratore salariato non era affatto diversa da quella dello schiavo, neppure per Cicerone!

Le altre «forme» di produzione esistono, spesso affiancate, compresenti, e si presentano come opzioni nel corso della storia; a volte si presentano come Zwittenformen (forme miste) ed è questa concezione della storia che permea questo lavoro e trova alimento e conferma da numerose osservazioni dai Grundrisse , che nel II capitolo sono ampiamente documentate, e in netto contrasto con ogni concezione graduale, ascensiva, unilineare della storia, anche di certo marxismo scolastico. Ne consegue una demolizione sistematica dell’ideologia secondo cui il lavoro salariato sia più «libero», più dignitoso, rispettoso cioè di quella «dignità» umana, di cui non è mai dato intendere il significato, un lavoro esente da coercizione, rispetto ad una schiavitù di maniera e di evocazione, immaginata come il male assoluto e termine di confronto in negativo, con lo scopo di orpellare il mito del lavoro, quello che nobiliterebbe l’uomo, e magnificare le sorti progressive del capitalismo. La schiavitù antica, per converso, spesso era preferibile rispetto al lavoro, libero sì ma in condizione di povertà, tale da consentire a «liberti» e «clienti» o altri servi come certi banchieri ad Atene, di essere più ricchi e apprezzati dei padroni, e comunque c’era un ampio «spettro» (espressione di M. I. Finley) di figure sociali comprese nel concetto generale del servus o in quello greco di doûlos , così a Roma come nel mondo greco. Allo stesso modo oggi ci sono varie categorie sociali comprese nel lavoro salariato (es. gli schiavi per debito, ecc.). Persino l’amministratore delegato della FCA Marchionne è giuridica-mente un «lavoratore salariato» ma il suo salario, come equivalente, oscilla tra la somma di quelli di 1800 e 1900 dei «suoi» «liberi» colleghi operai salariati. Da solo, un uomo ne vale un’intera grande fabbrica.

Il percorso del saggio tocca pertanto anche gli aspetti sovrastrutturali, di percezione e giustificazione della schiavitù anche quando l’opinione comune sostiene che tale accettazione e giustificazione non ci fosse. Si va dalla più antica filosofia greca ad Aristotele agli illuministi fino ad Adam Smith e a Taylor, passando per i padri della Chiesa e all’innesto di altre ideologie nel frattempo sedimentate intorno alla categoria economica della schiavitù, dal razzismo al colonialismo, al sessismo. Né manca il lavoro d’inchiesta sul fenomeno della cosiddetta schiavitù «di ritorno», della tratta legata ai movimenti migratori e alla formazione delle megalopoli e dell’urbanesimo diffuso, alle guerre, e dunque alla ripresa, di quel fenomeno mai interrotto in alcune zone del mondo, specie nel continente africano, delle razzie di «bestiame umano».

In questi due anni di incubazione del lavoro, c’è stata in proposito una cospirazione di eventi tutti dello stesso segno, che han fatto si che quella che era una realtà «invisibile» venisse alla luce dapprima con le caratteristiche dello scandalo, poi di quelle dell’assuefazione. Sono questi gli anni focalizzati nell’inchiesta, in cui il problema della circolazione della manodopera sul mercato mondiale ha generato prima i centri di accoglienza, poi i CARA, dando luogo a forme di lavoro gratuito, alle baraccopoli e ghetti disseminati nelle campagne e ai margini delle periferie urbane, dal Pakistan, dal Bangladesh, dal Brasile amazzonico, all’India all’Africa alla Puglia (con tratte e caporali dalla Bulgaria ad Abu Dhabi alle pendici del Gargano) e al Piemonte…. Bimbi in miniera, nelle fornaci, bimbi che raccolgono il cacao, il coltan per i telefonini, bimbe vendute per i bordelli in Birmania, o a Parigi e Londra con la scusa di imparare le lingue. E poi ci sono i morti per eccessivo lavoro (fino a 24 ore, senza interruzione…) come il Karôshi giapponese, ma presente in varie forme, e non ultimi i suicidi, come quelli seriali alla Foxconn. E poi c’è lo sfruttamento «col sorriso» alla Amazon…ma nel dettaglio la lista si faceva così lunga che ho dovuto, come si suol dire, darci un taglio, anche per l’insistenza e impazienza di alcuni compagni. Il lettore vi troverà le fonti per approfondire e seguire la cronaca di quello che imparerà a distinguere come ordinaria schiavitù nell’era del capitale del terzo millennio cominciato.

Mi fermo qui, sperando che l’indice consenta una idea complessiva. Ultima avvertenza: anche la bibliografia è divenuta veramente tanto ampia, al punto che dalla parte di inchiesta sono stato costretto ad eliminarne moltissima, proprio perché ogni giorno emerge una schiavitù sommersa legata a tragedie che cominciano a fare cronaca.


Dante Lepore, Gassino Torinese, 18 settembre 2017
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