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Ancora su "Letture sul dramma di Macerata"

Una replica ad Alessandro Visalli

di Mario Galati

L'articolo di Alessandro Visalli sui fatti di Macerata (qui) ha suscitato un vivo dibattito nei commenti e un'articolata replica di Eros Barone (qui). Anche Mario Galati, chiamato in causa nella discussione, ci offre il suo contributo

maerata sonIn altre parole, se entro il modo di produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano anche inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la sua logica viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica ) diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel 1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista sociale”.

Se Visalli si fosse attenuto a questa sua citazione non sarebbe incorso nella contraddizione di sostenere il carattere storico-sociale delle categorie di razionale e irrazionale e, nel contempo, di sostenere, sostanzialmente accettandola da Buffagni, la persistenza di forme irrazionali archetipiche connaturate all’essere umano, quali possono essere quelle rappresentate nel mito greco. Un conto è contestare una determinata razionalità storicamente determinata, specificandone il carattere ideologico e la funzione apologetica e strumentale, eventualmente, altro conto è l’irrazionalismo, ossia la rinuncia a spiegare razionalmente, scientificamente (proprio così, con tutte le approssimazioni, la parzialità, le distorsioni e i difetti possibili) i fenomeni umano-sociali, relegandoli sbrigativamente nella dimensione della trascendenza, metafisica o “naturale” che sia, e dell’eternità.

E’ cosa scontata che la razionalità presentata dalla scienza economica borghese non è una razionalità assoluta, ma l'astratta razionalità dell'uomo borghese, mercantile. Ovvero, la razionalità propria di uno specifico sistema di produzione e di relazioni sociali.

Pertanto, il discrimine vero non è tra razionalità e irrazionalità, ma tra diverse razionalità determinate da diversi rapporti storico sociali e contrastanti interessi. I quali si trovano intersecati nella medesima società, come risultato della storia e dei rapporti di classe in essere.

Non è corretto, pertanto, contrapporre ai comportamenti utilitari razionali borghesi comportamenti "irrazionali" che provengono da una sfera magari trascendente. Quei comportamenti irrazionali sono in realtà razionalità determinata dal processo storico culturale o da interessi diversi. E se spostiamo il discorso dal comportamento e dal pensiero “economico” all’irrazionalità in generale, il risultato non cambia. Poiché il pensiero non è il risultato di un processo calcolatore, "razionale", neutro e separato dalla sfera emotiva, recondita e inespressa, "irrazionale". La stessa conoscenza non è un processo che prescinde dal sentimento (conoscere, sapere e capire sono cose diverse; capire implica la compenetrazione nell'oggetto, la partecipazione sentimentale, il sentire, diceva Gramsci).

Rimane da stabilire quanto di quell'irrazionalità, impulsivitá, atavismo, sia moto naturale (equivalente, in sostanza, a trascendente) e quanto, invece, sedimentazione storica o sintesi inconscia di interessi sociali.

In questo senso dico che si tratta di diversa razionalità, come lo stesso Amin sembra confermare..

Qualcosa l’aveva già anticipata Vico qualche secolo fa, ma se diciamo ciò forse un po’ lo dobbiamo sicuramente a Marx, ma anche a Engels, contro il quale si continua ad esercitare un vero e proprio sport “antipositivista”, che prescinde bellamente dal suo reale pensiero.

Se Visalli si fosse attenuto alla citazione riportata, non avrebbe proceduto poi nel farsi sostenitore, sostanzialmente, della separatezza tra un mondo calcolatore, dominato dalla tecnica, razionale, capitalistico, e un mondo prigioniero della tradizione, dell’irrazionale o diversamente razionale, contadino precapitalistico; i quali mondi, secondo i suoi desideri, conservando ciascuno la sua “economia politica”, nonostante siano ormai indissolubilmente intrecciati, possono e debbono entrare in contatto, instaurando giusti rapporti, volontariamente e volontaristicamente su iniziativa di un non meglio precisato “potere pubblico” occidentale, in un processo che può essere ben ricondotto nello schema contrattualistico illuministico-liberale, a dispetto della rivendicata estraneità.

Proprio perché si rifiuta l’ ”identitaria” dialettica materialistica storica, sfugge che non di due economie politiche si tratta, ma di una ormai, della quale le diverse realtà esaminate sono le facce.

Per sgombrare il campo da possibili equivoci, diciamo che si può essere sostanzialmente d’accordo su quanto Visalli sostiene circa lo sfruttamento capitalistico, la mercificazione e la riduzione ad esercito industriale di riserva di interi popoli costretti e indotti a migrare. Il tutto all’interno del processo di mondializzazione (globalizzazione è termine ambiguo per il suo uso ideologico) del capitale che impone la sua logica astratta, svuotando le identità e plasmando soggetti funzionali alle sue necessità di forza-lavoro o di consumo.

E non è affatto ipotesi da escludere che la “secolarizzazione”, in un contesto di smarrimento generato dal rapido incontro del capitalismo (con la sua tecnica, la sua razionalità astratta, quantitativa, calcolante, mercificata, produttivistica, col suo tempo lineare misurabile, col suo danaro e chi più ne ha più ne metta) con i rapporti sociali tradizionali e il retaggio culturale tradizionale, etnico, “antropologico”, produca fenomeni come quello di Macerata.

Certo, il rapido incontro di un mondo e una cultura tradizionale con il capitalismo può generare uno smarrimento ed una situazione di anomia, colmata da un intreccio sincretico tra le due culture (la secolarizzazione della cultura tradizionale e il rito magico collettivo piegato alle esigenze individuali, all’avidità di guadagno). Ma è la cultura tradizionale che si impadronisce dei nuovi rapporti sociali o sono i nuovi rapporti sociali che si impadroniscono della tradizione (comunque, anch’essa trasformata, non più la stessa)?

Però queste considerazioni di tipo sociologico non ci dicono ancora nulla. Il vero problema è: la dimensione tradizionale, magico-religiosa, sacrale, irrazionale, è eterna, comunque latente e destinata a riaffiorare carsicamente e fatalmente per il fatto di essere natura, o impronta ancestrale, primordiale, o, a scelta, trascendenza spirituale? Oppure questa è il portato della storia e di relazioni economico-sociali determinate e, quindi, passibile di estinzione?

Vediamo cosa dice Marx a proposito del mito.

E’ compatibile la concezione della natura e dei rapporti sociali, che sta alla base della fantasia greca, e perciò dell’arte greca, con le filatrici automatiche, con le strade ferrate, con le locomotive e con i telegrafi elettrici? Dove va a finire Vulcano di fronte a Roberts & Co., Giove di fronte al parafulmine, ed Ermete di fronte al Crédit mobilier? … Che ne è della Fama a petto della Printinghousesquare? … E’ forse possibile Achille con la polvere da sparo e con il piombo? O, in generale, l’Iliade è compatibile con il torchio tipografico o, più ancora, con la macchina tipografica? E con i torchi del tipografo non vengono meno necessariamente i cantari e le saghe e la Musa? E quindi non scompaiono i presupposti necessari della poesia epica?” (1)

Ogni mitologia vince e domina e plasma le forze della natura nell’immaginazione e mediante l’immaginazione: scompare, perciò, una volta che si sia instaurato il vero dominio su di esse” (2).

Ma se ci limitassimo a queste citazioni potremmo pensare che l’estinzione della concezione mitologica, religiosa, irrazionale, possa essere la semplice conseguenza dello sviluppo tecnico-scientifico. E invece constatiamo benissimo che un elevato grado tecnologico convive nelle nostre società con maghi, fattucchiere, oroscopi, gioco d’azzardo, mitologia spicciola della società dello spettacolo; con l’irrazionale e con la religione (anche se per la sfera religiosa il discorso è più complesso). Ma questo è un paradosso solo apparente, poiché l’insicurezza, la precarietà, l’incertezza, l’oppressione, la “nebbia ideologica”, proprie della società capitalistica attuale, non possono non generare fenomeni del genere, che si presentano come forme e tentativi di controllo di una realtà che sfugge e domina come forza estranea e oscura. Solo una concezione razionalistico-positivistica può pensare che la sfera dell’irrazionale si estingua con il semplice sviluppo della tecnica e con la dimostrazione razionale della realtà (anche perché spesso pensa che l’irrazionalismo sia solo il prodotto del fraintendimento e dell’ignoranza dei fenomeni naturali). Ma Marx non è un positivista, bensì un materialista storico.

Allora bisogna leggere ancora Marx.

Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano giorno per giorno agli occhi degli uomini rapporti chiaramente razionali tra gli uomini medesimi, e tra essi e la natura. La struttura del processo sociale della vita, e cioè del processo materiale della produzione, si sbarazzerà della sua mistica cortina di nebbia, soltanto quando essa figuri come prodotto di uomini liberamente associati, sotto il loro cosciente controllo condotto secondo un piano .” (3)

Dunque, non di un mero sviluppo della tecnica e di una razionalità astratta è conseguenza il dissolvimento di forme irrazionalistiche, arcaiche o moderne, bensì dello sviluppo dei rapporti sociali di produzione (sino al comunismo, cioè all’organizzazione degli uomini liberamente associati che svolgono un cosciente controllo del processo materiale di produzione secondo un piano).

Allora è evidente che occorre tornare ai (anzi, rimanere nei) rapporti di produzione (“Parliamo dei rapporti di produzione”, ebbe a dire qualche anno fa il compianto Edoardo Sanguineti, citando Brecht). Rapporti storico-sociali di produzione, attraverso i quali gli uomini si rapportano tra loro e la società si rapporta alla natura.

Astratto razionalismo e irrazionalismo non sono le uniche categorie in opposizione. Manca la terza alternativa: i rapporti di produzione, il materialismo storico.

Positivismo, razionalismo astratto e irrazionalismo sono facce della stessa medaglia, che prescindono dalla mediazione storico-sociale dei rapporti di produzione, appunto. E se ciò è vecchia ideologia identitaria, allora vuol dire che occorre riprendere questa identità.

Il che non significa, riprendendo sempre vecchi canoni identitari, che elementi ideologici, sovrastrutturali, dileguino immediatamente al mutare della configurazione dei rapporti produttivi. Il loro retaggio, la loro persistenza, la loro sedimentazione, può continuare per periodi relativi o assumere un nuovo significato, pur mantenendo una medesima forma esteriore. O possono sorgerne di nuove, legate a nuove contraddizioni sociali. Quando, però, si naturalizzano queste forme e queste persistenze come elementi antropologici ineliminabili ed eterni, si cade nell’irrazionalismo. E l’irrazionalismo è compagno della reazione.

Vi è poi l’altro problema della neutralità o meno, o dell’oggettività, della scienza e della tecnica e la stessa nozione di progresso.

Nel mio fugace commento richiamato da Visalli, intendevo dire che le teorie scientifiche (nel senso moderno, da Galilei in poi, intendo) non possono essere ridotte a semplice statuti disciplinanti (non “disciplinari”, come scritto in un commento fatto con lo smartphone, non esente da errori), nel senso di complesso di proposizioni regolative-performative (per usare un termine che non mi piace usare, fosse solo per il fatto che rimanda anche a Judith Butler). Ossia, nel senso agnostico e soggettivistico kantiano, di una attività dell’intelletto che dà forma ad una realtà amorfa e inconoscibile; questa definizione di scienza non mi sembra accettabile neanche nella sua sostanziale variante della teoria dei paradigmi di Kuhn.

Certo, Visalli non disconosce la validità della scienza e delle conquiste scientifiche. Sa che facendo ciò si potrebbe scadere nel ridicolo. Ma indulge con una certa superficialità verso il formalismo, il soggettivismo, il pensiero relativista e forse postmoderno.

Constato che anche Visalli ritiene che la teoria di Kuhn non è soddisfacente. Ma constato anche che la sua definizione di scienza sembra formalistica e priva di contenuto, di oggetto. La scienza, il pensiero scientifico come “ habitus mentale e … insieme molto largo e comprensivo di pratiche sociali dotate di meccanismi verbali di inclusione ed esclusione “ si può adattare a tutto. E’ evidente che questa definizione non contempla l’ipotesi che la scienza sia attività conoscitiva di un oggetto reale, né attività veritativa. Certamente, non nel senso di semplice rispecchiamento meccanico nella mente del soggetto della realtà esterna oggettiva, ma prassi che non può prescindere dal rapporto soggetto-oggetto. Con tutto ciò che ne consegue (ideologia, approssimazione e parzialità della conoscenza, ecc.).

E’ certo, quindi, che anche la scienza non è esente dall’ideologia (tutto è ideologia storicamente transeunte, diceva Gramsci, anche il marxismo, sulla base dei suoi stessi presupposti teorici). Ma ciò comporta la sua invalidità?

Lo stesso vale per la tecnica. E’ indubbio che lo sviluppo della tecnica, le direzioni che assume, non sono neutrali, ma orientati dal contesto economico-sociale e dalle necessità di un dato sistema, al quale sono funzionali. Ma ciò vale ad escluderne la validità?

E lo sviluppo borghese della scienza e della tecnica, non rappresenta forse anche sviluppo universale, progresso?

Alla constatazione del segno e della funzionalità classista non può conseguire necessariamente la negazione della validità universale e dell’oggettività del progresso scientifico.

Il conflitto dialettico, la contraddizione, nella visione hegelo-marxiana non è mai tra entità e categorie la cui alterità è separatezza (questo pensiero fa parte del pensiero postmodernista della differenza), ma è contraddizione interna all’oggetto, inscritta nella sua unità e totalità. Ossia, gli elementi in contraddizione, in relazione tra loro, concorrono alla determinazione di un’unica realtà, che appartiene a tutti e alla quale tutti appartengono.

In altri termini, la storia umana e lo stesso conflitto di classe è da leggersi nella realtà della storia universale, nella quale può trovare posto l’idea del progresso, anche alla luce della categoria di “apprendimento” (e anche lo Zeitgeist hegeliano, depurato dal suo idealismo, ha un suo reale significato). Ebbene, le conquiste scientifiche della società borghese, ideologiche e organiche alla società borghese quanto si vuole, possono essere assorbite all’interno di un altro sistema di relazioni sociali, o perdono ogni loro validità in un altro contesto?

Per rimanere su un piano di concretezza, basso e banale quanto si vuole, quando la scienza e la tecnica borghese arrivano a costruire trattori e macchine agricole che aumentano la produzione e scongiurano il pericolo per la comunità di soccombere per carestia, hai voglia a parlare di tecnica borghese e di non neutralità della scienza che la sottende. Su questa base l’organizzazione socialista dovrebbe rifiutare il progresso tecnico conseguito dalla forma sociale precedente, il quale verrebbe ridotto a mera ideologia. Stesso discorso vale per la cultura in generale, sulla quale torna alla mente la critica leniniana del “Proletkult”.

Certo, parlare del nostro tempo come del “tempo del dominio della tecnica” è molto suggestivo. Heidegger è affascinante (non per me). La metafisica è suggestiva; ed è molto intellettuale in confronto ai rozzi bisogni materiali di una società che ha bisogno di nutrirsi, vestirsi, non schiattare di fatica e di oppressione. Secondo questa affascinante concezione, non sono più i capitalisti (meglio: il capitale; che però nulla sarebbe senza capitalisti e salariati, poiché il capitale è un rapporto sociale, e se viene a mancare uno dei termini del rapporto, scompare anche il capitale) a dominare e a piegare la tecnica alle loro necessità. E’ la tecnica a dominare. La quale, ridotta ormai ad ipostasi, si impadronisce della società. Ed essendo per sua natura capitalistica, quando viene utilizzata in una società senza capitalisti, si impadronisce dell’intera società e la plasma capitalisticamente. Anzi, forgia il capitalismo senza capitalisti.

Si comprende bene la coerenza di queste concezioni teoriche generali con le concezioni economico-sociali esposte da Visalli (ovviamente antileniniste, poiché non può essere altrimenti sulla base dei suoi presupposti).

E qui torniamo al punto delle due o una economia politica, del giudizio sull’Unione Sovietica come capitalismo senza capitalisti, delle soluzioni utopistiche e forse reazionarie, piccolo-contadine, e della lettura di Marx e dell’obščina.

Visalli conosce benissimo il giudizio di Marx, di Engels, e di Lenin sul ruolo storico progressivo del capitalismo e sulla necessità di superarlo, non di tornare indietro. Conosce benissimo la critica al socialismo utopistico e anche all’anticapitalismo reazionario e romantico. Nel marxismo il comunismo non è un ideale ascetico di sottoconsumo, ma una organizzazione storico-sociale che si fonda sull’innalzamento delle forze produttive e che è reso possibile solo da questa condizione, a meno di non volere il rozzo egualitarismo della miseria. Non innalzamento della quantità di merci, ovviamente (i “fiumi della ricchezza” che scorreranno nel comunismo non sono fiumi di merci, ma ricchezza di valori d’uso e di relazioni sociali), ma non bisogna dimenticare che le merci, pur essendo prese per il loro valore di scambio, sono anche valori d’uso. I medesimi valori d’uso, in un contesto capitalistico prodotti sotto forma di merce e per mezzo di lavoro astratto, in un contesto socialista possono essere prodotti non in forma di merce e per mezzo di lavoro concreto, continuando ad utilizzare la scienza e la tecnica acquisite.

Con il solito esempio rozzo e banale, forse che il grano prodotto dai trattori capitalisti per la vendita sul mercato cessa di essere grano in grado di sfamare quando, in una società comunista, viene prodotto a mezzo delle medesime macchine agricole?

Gli operai che lavorano in modo organizzato in una fabbrica che è di proprietà comunista, cioè di loro proprietà, del lavoratore collettivo, senza capitalista, erogano lavoro astratto o lavoro concreto? La forma è apparentemente la stessa, ma la sostanza non credo. Muta il segno di classe, mutano i rapporti proprietari, muta anche la sostanza.

Tutta la concezione dialettica e materialistica storica di Marx, Engels e Lenin, piaccia o meno, non poteva condurre ad esiti diversi.

Evidentemente Visalli, e non solo, non condivide questa concezione alla radice, non perché ormai superata dai tempi. E cerca allora di immaginare un Marx che la ripensa, la modifica, la rigetta in tarda età, appoggiandosi alle sue poche righe sulla mir e l’obščina russa, facendogli dire ciò che non dice e che non può dire. Naturalmente, in questa favola il “positivista” Engels e il suo allievo Lenin hanno provveduto a celare e distorcere il vero pensiero di Marx. E la tradizione comunista novecentesca ha completato l’opera (o il “tradimento” comunista novecentesco, secondo questa versione).

Allora è opportuna qualche considerazione su ciò.

Si è detto sopra che il comunismo non può essere un ritorno al passato, ma il superamento dialettico del presente. Non è la divisione egualitaria della miseria, ma può poggiare solo sullo sviluppo delle forze produttive.

I riferimenti “censurati” di Marx all’obščina farebbero venir meno quello storicismo progressista e deterministico (pretesamente cucito su Marx da Engels e Lenin e che, in realtà, era proprio del positivismo della Seconda Internazionale e che ha sfiorato anche personalità come Antonio Labriola, come si vedrà in seguito) che non solo vorrebbe necessario il passaggio al capitalismo come condizione dell’instaurazione del socialismo, ma che lo ritiene inevitabile. Farebbe venir meno quella filosofia della storia, secondo le parole dello stesso Marx. Nella prefazione all’edizione russa del Manifesto del 1882 e nella lettera a Vera Zasulic del 1877, Marx sembrerebbe dire: non occorre passare per il capitalismo; il passaggio al comunismo in Russia può avvenire sulla base dell’obščina, della comune rurale russa. Ma è davvero così?

Si affaccia ora il problema: la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già disciolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà essa passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà essa attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che trova la sua espressione nella evoluzione storica dell'occidente?

La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l'odierna proprietà comune russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista.” (4).

Prima osservazione: l’obščina non è il comunismo, ma solo il punto di partenza per una organizzazione comunistica (stesso concetto ripetuto nella lettera a Vera Zasulic) (5).

Seconda osservazione: il ragionamento di Marx si inserisce in un contesto universale internazionale. L’obščina può essere il punto di partenza per un nuovo ordinamento sociale comunistico senza passare per il capitalismo, soltanto perché l’esperienza storica capitalistica, con il suo sviluppo delle forze produttive è già realizzata in altri paesi. Questa esperienza può essere assunta dal popolo russo, sia nel senso di escludere gli aspetti negativi, sia di assumere gli aspetti progressivi (a cominciare dalla produttività e dalla tecnica, per es.). E tutto in stretto rapporto con la rivoluzione europea (se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino). Più chiaro di così… (Da notare la coincidenza con la concezione di Gramsci espressa nella nota su Labriola, di cui in seguito).

Mi sembra che l’interpretazione sia opposta a quella di Visalli.

E’ solo la contemporaneità di questi due mondi, capitalistico e comunitario russo, che permette di evitare le Forche Caudine del passaggio al capitalismo in Russia per procedere verso il socialismo.

Ma qui c’è Lenin e il suo antipositivismo! La rivoluzione socialista che si realizza nell’anello debole della catena imperialistica e non nella sua metropoli. La visione unitaria, mondiale, universale, della storia, dell’economia, della società. La “rivoluzione contro il capitale” di gramsciana memoria.

Qui c’è la Rivoluzione d’Ottobre, il socialismo in URSS e le rivoluzioni anticoloniali del ‘900.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i sogni utopistici piccolo-contadini rivolti alla Nigeria e al Chiapas?

Attenzione che io non contesto il diritto e l’opportunità di queste comunità di difendersi dal capitalismo e di proteggere una loro economia di sussistenza. Anzi. Ma il problema è: si tratta di attività difensiva o di soluzione storica definitiva?

In Nigeria il capitalismo c’è già. E’ evidente che non vi sarà più un ritorno alle economie contadine di sussistenza locali. L’orologio della storia non tornerà indietro grazie a fantomatici “poteri pubblici”. La battaglia decisiva è per il superamento del capitalismo, per il socialismo. E se questo non rientra nei piani dei nostalgici dell’idillio contadino (o del feudalesimo, come Heidegger) e dell’irrazionale storico, sotto forma di anticapitalismo-antisocialismo che amalgama nella stessa pasta del produttivismo razionalista e del dominio della tecnica il capitalismo e l’esperienza storica socialista del ‘900, non ha importanza.

Le economie povere, vuoto o pieno che siano, vengono attratte e dominate dalle economie ricche. E’ un dato di fatto che nessuna lamentazione sentimentale può evitare. E’ la storia del colonialismo e del neocolonialismo. Si può riconoscere tutta la dignità che meritano, ma ciò non evita la loro sottomissione e il loro sfruttamento da parte delle economie ricche e forti.

Nel Manifesto dei comunisti del 1848 e in altri scritti, il colonialismo e la mondializzazione capitalistica, l’accumulazione originaria, la funzione della violenza e del male, non sono letti e approvati attraverso una chiave religiosa fatalistica, ma constatati come necessità storiche di tendenze di sviluppo oggettive. Guardare le vittime della colonizzazione come agnelli sacrificali sull’altare del progresso, e sostanzialmente approvare tutto questo, non ha mai fatto parte della tradizione marx-engelsiana-leninista. Al contrario. Semmai questa lettura era presente nella socialdemocrazia riformista, complice del colonialismo.

Marx ed Engels non hanno mai negato il carattere progressivo del sistema capitalistico di produzione, ma al contempo misero a nudo, spietatamente, tutti gli aspetti disumani di esso. Essi compresero chiaramente e chiaramente espressero che soltanto percorrendo questa strada l’umanità può acquisire le fondamentali condizioni materiali del suo affrancamento reale e definitivo, del socialismo. Ma il riconoscimento della necessità economica, sociale e storica dell’ordinamento sociale capitalistico e il motivato ripudio di ogni ritorno a epoche ormai superate, non smussano affatto la critica operata da Marx e da Engels nei confronti della civiltà capitalistica; ché, anzi, la acuiscono.” (6).

Gramsci riporta e critica un aneddoto riferito ad Antonio Labriola, al quale sarebbe stato chiesto: “Come fareste ad educare moralmente un papuano?”. La risposta sarebbe stata: “Provvisoriamente lo farei schiavo … E questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se per i suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra.”. Annotava Gramsci che questa risposta era da avvicinare all’intervista data da Labriola sulla questione coloniale e concludeva che il ragionamento di Labriola non era “dialettico e progressivo” ed era da annoverarsi tra lo “pseudo-storicismo”, “un meccanismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo” (7).

Non mi sembra di potere attribuire questo evoluzionismo pseudo-storicista, escluso per Marx, a Engels, a Lenin e alla tradizione comunista.

Gramsci pensava un’altra soluzione:

Mi pare che storicamente il problema sia da porre in un altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale che è giunto ad un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) “accelererare” il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la nuova esperienza. Così quando gli inglesi arruolano reclute tra i popoli primitivi, che non hanno mai visto un fucile moderno, non istruiscono queste reclute all’impiego dell’arco, del boomerang, della cerbottana, ma proprio istruiscono al maneggio del fucile, sebbene le norme di istruzione siano necessariamente adatte alla “mentalità” di quel determinato popolo primitivo. Il modo di pensare implicito nel pensiero di Labriola non pare altrettanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello “pedagogico” religioso del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che “la religione è buona per il popolo”. (popolo = fanciullo = fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione, ecc), cioè la rinuncia tendenziosa a educare il popolo.” (8).

Gramsci rigettava la soluzione autoritaria di tipo coloniale, evidenziandone la concezione retriva e antistoricistica alla base. Gramsci era moralmente avverso a soluzioni autoritarie coloniali, ma non dimenticava l’universalità della storia e il rapporto pedagogico implicito in ogni relazione umana. Certamente nel pensiero di Gramsci non trova spazio il cosiddetto “pensiero della differenza”.

In qualche modo Visalli accoglie la necessità di relazioni tra i popoli e le loro economie, ricche e povere, improntate alla cooperazione e non allo sfruttamento e al dominio. Il fatto è che rimane nel vago sul sistema economico sociale che, per la sua organizzazione oggettiva, può relazionarsi secondo quella modalità. Il capitalismo non può farlo. Il “potere pubblico” è un’entità vuota.

Ma guardiamo la questione dell’obščina russa sul piano storico.

Questi terribili bolscevichi, censori e traditori di Marx, hanno fatto la rivoluzione e hanno impiantato un capitalismo senza capitalisti in URSS, invece di lasciar fare il suo corso alla comune rurale russa. Non solo hanno fatto la rivoluzione, ma poi hanno pure distrutto, con la collettivizzazione, questa creatura tanto cara a Marx.

Ma è davvero così?

Già quando scriveva Marx l’obščina era in netta decadenza, nonostante fosse ancora molto estesa sul territorio agricolo (“questa forma in gran parte già disciolta”). Quando ne scriveva Engels, qualche anno più tardi, il processo di dissoluzione era ancora più avanzato. Molti contadini andavano in città come operai e mantenevano l’assegnazione delle strisce di terra comunitaria attraverso i familiari: era solo un’integrazione del reddito. La conduzione e l’organizzazione della produzione era arcaica, improduttiva. E la mir, l’organo di governo comunitario, si era praticamente ridotto a esattore delle tasse per lo Zar, atteso il principio di responsabilità collettiva della comunità per le imposte. Tuttavia, nella rivoluzione del 1905, i contadini dell’obščina parteciparono con combattività, tanto che lo zarismo decise di dissolverla, non dimostrandosi quell’istituto di conservazione contadina che si pensava fosse.

Ma, a parte ciò, in Russia si era ormai avviato lo sviluppo capitalistico dell’industria e dell’agricoltura. Si era accentuata la divisione del lavoro e lo scambio tra industria e agricoltura. La steppa e i territori del Sud furono oggetto di una specie di colonizzazione. Si sviluppò un’agricoltura capitalistica che nulla aveva a che fare con l’obščina, e che scambiava la sua produzione con l’industria della Russia Centrale. Se nel 1882 circa la metà del suolo agricolo era interessato dall’obščina, a fine secolo la colonizzazione della steppa e delle terre del sud avevano spostato questo rapporto a favore dei rapporti capitalistici nelle campagne.

Basterebbe consultare il mirabile studio di Lenin del 1898, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, (9) per capire che l’obščina non fu disciolta dai bolscevichi, ma dallo sviluppo capitalistico.

Durante la collettivizzazione, vera e propria lotta di classe, i bolscevichi ne liquidarono i residui.

Quale delitto!

Il passaggio all’economia kolkoziana risolse il problema dei contadini poveri, determinò un aumento della produzione agricola, eliminò le carestie periodiche, eliminò l’incertezza e le oscillazioni dell’economia di NEP e assicurò la regolarità degli approvvigionamenti agricoli (cosa necessaria in caso di prevedibile guerra) e garantì lo sviluppo dell’industria (una plusproduzione agricola è fondamentale per lo sviluppo industriale), dalla quale l’agricoltura fu a sua volta garantita (è stata mirabile la produzione dei trattori e l’organizzazione delle stazioni dei trattori). E’ stato un processo grandioso.

Senza questa corsa “produttivistica” “dominata dalla tecnica” i Russi, e non solo, sarebbero stati schiavi di Hitler. Solo Simone Weil, Heidegger e l’utopismo messianico di un certo marxismo occidentale, come scrive lo studioso marxista D. Losurdo nel suo ultimo lavoro sul marxismo occidentale (10), potevano rimproverare questo all’URSS.

Il problema di ridurre il differenziale tecnico e produttivo con i paesi capitalistici avanzati è stato ed è il problema dei paesi decolonizzati. La rivoluzione coloniale non si ferma alla fase della cacciata dei colonizzatori e dell’indipendenza, ma prosegue con il rafforzamento economico. Altrimenti si rimane preda delle potenze di sempre, con rapporti di tipo neocoloniale. Frantz Fanon lo aveva capito benissimo. Il paese colonizzatore ad un certo punto poteva dire: “Volete l’indipendenza? Va bene, prendetevela. Ma adesso crepate”.

E’ il problema che si sta affrontando in Cina.


NOTE
  1. Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica; citazione tratta da György Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano 1966, pag. 306. Il passo citato è altresì reperibile direttamente, con leggere differenze di traduzione, in Marx, Per la critica dell’economia politica, Newton Compton Editori, Roma 1976, pp. 257-258.
  2. Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, citazione tratta da György Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano 1966, pag. 309. Il passo citato è altresì reperibile direttamente, con leggere differenze di traduzione, anche in Marx, Per la critica dell’economia politica, Newton Compton Editori, Roma 1976, pag. 257.
  3. Marx, Il capitale, citazione tratta da György Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano 1966, pag. 307. Il passo citato è altresì reperibile direttamente, con leggere differenze di traduzione, in Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, pag. 93.
  4. Marx, Prefazione all’edizione russa del Manifesto del 1882, reperito su https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-82.htm
  5. Cfr. su https://palomarblog.wordpress.com/2017/08/10/marx-sulla-rivoluzione-russa/
  6. György Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli 1966, pag. 230.
  7. Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1955, pp. 116-118.
  8. Antonio Gramsci, ibidem.
  9. Alcuni brani scelti dell’opera di Lenin Lo sviluppo del capitalismo in Russia sono consultabili su: http://xoomer.virgilio.it/primomaggiointernazionalista/testi/lenin/brani_tratti_dallo_sviluppo_del_cap_in_russia.htm
  10. cfr. D. Losurdo, “Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere”, Laterza, Roma-Bari 2017).

Riferimenti bibliografici
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