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Mark Fisher: per un’economia politica dell’inadeguatezza

di Francesca Coin

N00544 10Il due marzo abbiamo presentato a Esc Realismo Capitalista, il libro di Mark Fisher di recente tradotto dalla nuova casa editrice NERO (2018). È stata l’occasione per provare a mettere in fila alcuni pensieri circa l’importanza di questo autore, al netto dei molteplici riverberi emotivi derivanti dal significato politico, intimo, intellettuale, del suo pensiero e della sua vita.

Vorrei ragionare non tanto sul pensiero o sulla figura di Mark Fisher, ma proprio sulla “Funzione Fisher”, espressione che Valerio Mattioli, traduttore e curatore del libro, riprende nella sua splendida introduzione da Robin Mackay, per provare a sintetizzare la capacità di Fisher di intrecciare i piani discorsivi più eterogenei sino a toccare i nodi meno manifesti della nostra sensibilità politica.

Ho incontrato il lavoro di Mark Fisher nel 2011, nel momento in cui Capitalist realism era già uscito e Fisher stava lavorando alla pubblicazione di Ghosts of my Life. Il mio incontro con il suo lavoro nasceva dal bisogno di trovare dell’aria oltre la cultura politica italiana. Ero rientrata da pochi anni in Italia, e nella mia testa erano rimaste aperte questioni biografiche, teoriche e politiche che non riuscivo ad articolare. Erano anni di letargo, per me, come avrebbe detto Deleuze, anni in cui provavo a rimettere le parole insieme, con dei piccoli balbettii che seguivano il corso dell’intuizione, degli incontri o del caso.

Il nodo fondamentale era il bisogno di capire che cos’è che aveva così profondamente lacerato la mia capacità di agire nel mondo, cos’era stato così violento da farmi perdere le parole, in una specie di processo di de-alfabetizzazine e ri-alfabetizzazione continua. L’attrazione per gli scritti di Mark Fisher nasceva qui.

Dovessi dirlo dal punto di vista teorico, direi che l’intera sua opera si concentra precisamente sull’impossibilità adattiva che segna la relazione tra la sensibilità umana e il mercato autoregolato, à la Polanyi. Il trait d’union di quell’incontro era, se vogliamo, precisamente la lacerazione, la ferita che segna la relazione patogena tra la governance neoliberale e la sensibilità.

Una lacerazione che nel lavoro di Fisher era semplice sintomo dell’incompatibilità antropologica tra le due, ma che buona parte della letteratura esistente, nella mia percezione di allora, trascurava tragicamente a favore di analisi fortemente estetizzanti, e profondamente adattive, della società della competizione.

La lacerazione era il punto d’incontro tra la mia esperienza e la sua opera. Fisher, infatti, aveva un segreto, di cui io, come migliaia d’altri lettori, sentivamo il bisogno, conosceva il linguaggio della traduzione. Sapeva, in altre parole, in che modo l’economia politica produceva capitale umano lacerato e sapeva in che modo tracciare vie di fuga, percorsi a ritroso che consentivano, è qui il tragico paradosso, di uscirne vivi. Il quadro emotivo in cui dobbiamo inserire gli scritti di Mark Fisher è quello della società neoliberale, una società che è più facile intendere à la Polanyi a partire dalla tendenza a trasformare terra, moneta e individui in merci.

Tutto questo avveniva, agli occhi di Fisher, a un costo sociale altissimo, che Fisher soleva guardare anzitutto dal lato del malessere individuale, tema che nelle sue parole non trovava mai lo sguardo giudicante del valutatore ma al contrario l’accoglienza intima denudata dal pudore quotidiano, al punto che, paradossalmente, le sue parole sembravano tracciare, con la precisione metodologica che solo può la sensibilità, un’economia politica del disagio psichico nell’epoca neoliberale. Dico malattia, disagio, malessere o patologia, senza indulgervi eccessivamente. Quel che intendo, tuttavia, in modo certamente impreciso, agli occhi di un analista, sono tutte quelle lacerazioni che hanno il sapore del quotidiano, dell’ansia, dello xanax, della depressione.

Negli scritti di Mark Fisher, la patologia dell’epoca contemporanea è inscindibile dalla governance neoliberale. C’è un libro cui ricorro sempre, per raccontare tutto questo, si tratta di Loneliness, di John T. Cacioppo e William Patrick (2008). Loneliness interpreta la patologia neoliberale come conseguenza inevitabile della società della competizione. Per Cacioppo e Patrick, la competizione non è solo catallaxy o individualismo metodologico. La competizione è anzitutto solitudine. Negli scritti di Cacioppo e Patrick, l’epoca neoliberale inizia, non a caso, nel momento in cui gli sguardi cessano d’incontrarsi.

“Mi ricordo l’anno in cui il contatto tra gli sguardi è finito. Non fu un grande cambio demografico. Sembrava solo semplicemente che le persone avessero smesso di relazionarsi le une con le altre. Ora questo paesino è uno dei luoghi più soli della terra. Le persone sono vagamente paranoiche, ipersensibili e autoriferite. I salari sono alti, il costo della vita è astronomico e tutti sono in debito, vivono in case da milioni di dollari e mangiano pizza da asporto”. (Email from a man in California, citato in Cacioppo e Patrick, 2008: 200)

Per Cacioppo e Patrick, l’epoca neoliberale è anzitutto l’epoca della solitudine. C’è troppa verità, in uno sguardo. Guardarsi negli occhi significa anzitutto fidarsi. La mia vicina, per esempio, quando abitavo ad Atlanta, diceva sempre di prendere le strade secondarie, quando rientrava da lavoro, per non essere vista. Il fatto stesso di essere guardata la lasciava per un attimo indifesa di fronte al giudizio altrui. Ci sono due assunzioni, in questo processo. La prima è che l’altro sia intrinsecamente pericoloso, antagonistico, espressione stessa della minaccia. La seconda è che nel suo sguardo possa divenire manifesto qualche cosa di noi che non vogliamo si veda: il nostro essere inadeguati, insufficienti e in ultima analisi colpevoli – di non aver fatto abbastanza, di non avere ottenuto abbastanza, di non essere abbastanza. “Ho passato mesi e mesi nella mia stanza, uscendo solo per ritirare la posta o per acquistare un minimo di cibo necessario”, scriveva Mark Fisher in Good for Nothing.

Nella mia esperienza, la vita quotidiana nella patria della competizione era assai simile. Ricordo settimane intere passate in isolamento, senza parlare con nessuno, in un assoluto trionfo dell’imperativo della produttività. Il fatto è che la solitudine non è, in Mark Fisher, una condizione soggettiva. È il risultato di un’architettura sociale fondata precisamente sulla competizione.

Abbiamo parlato a lungo di individualismo metodologico, in riferimento all’impostazione neoclassica. Bisognerebbe parlare di antagonismo metodologico, per rendere meglio la situazione, quella specie di guerra sociale che induce masse di soggetti individualizzati a competere tra loro per ottenere il riconoscimento del mercato. In una specie di scenario alla Hunger Games, film che spettacolarizzava la guerra sociale e che Mark Fisher non a caso riprendeva spesso, l’epoca neoliberale è una specie di guerra sociale nella quale hell is other people – l’inferno sono gli altri.

Questo era un trucco, però. Nella stessa pellicola, la furbizia del potere dispotico consisteva nell’imporre regole del gioco tali da premiare chi faceva fuori tutti gli altri – questa la trama di Hunger Games. Nel contesto in cui viviamo, tale è il fine della competizione – Fisher parla di burocrazia, quella sorta di cultura dell’audit cui dedica la parte finale del libro. In questo contesto, l’accento sull’inadeguatezza, il timore di non aver fatto abbastanza, di non avere ottenuto abbastanza, di non essere abbastanza è il riflesso stesso di un sistema fondato sulla competizione che costringe a giudicarsi sempre con lo sguardo violento del mercato. I meritevoli raggiungono i target, sopravvivono la cultura d’audit, sono all’altezza del riconoscimento sociale. Tutti gli altri rimangono inutili per il mercato e inutili per la società. Costretto a competere contro tutti per la sopravvivenza, l’individuo di cui parla Mark Fisher vive un conflitto interiore irrisolto. Da un lato, è costretto a vincere sempre contro i competitori. Dall’altro, deve subordinare continuamente alla competizione tutto ciò che considera importante.

In The truth about burnout, Maslach e Michael P. Leiter parlavano di una sorta di “lacerazione tra ciò che le persone sono e ciò che devono fare” – lo stesso significato che Fisher attribuiva alla parola sidetracked – l’idea di sentirsi continuamente sabotati nella propria etica dalle priorità del mercato. La malattia, in questo contesto, è inscindibile dalle regole della società neoliberale. Fisher nobilita, per certi versi, il malessere, considerandolo come una forma di intima resistenza alla competizione; espressione stessa della sensibilità di chi rifiuta la guerra come condizione di accesso alla riproduzione.

Commentando un testo dei primi anni Novanta, “I sentimenti dell’aldiqua”, Christian Marazzi descriveva esattamente questo. Non c’è da stupirsi, diceva, se la nostra epoca è una celebrazione dei mediocri, in riferimento all’attuale congiuntura economica e politica. La mediocrità è avvantaggiata, in questi anni, perché non si danna del futuro del mondo, non è tormentata dalle crisi di coscienza, è impermeabile all’emotività altrui, e può serenamente dedicarsi al perseguimento del proprio tornaconto personale. In quest’interpretazione, l’individuo che trionfa nell’epoca neoliberale è una specie di opportunista senza intelligenza o un gaudente senza cuore, à la Weber, un imprenditore di sé disincarnato, la cui tendenza auto-compiaciuta alla competizione sembra l’incarnazione disinibita dei desiderata della scuola di Chicago. Spiace dirlo, ma temo che talvolta siamo cascati nel tranello del pensiero neoliberale.

Negli ultimi anni c’è stata una specie di pudore in Italia a parlare del malessere sociale. In modo talvolta acritico, l’individuo neoliberale era presentato come un individuo sostanzialmente adattivo, conquistato senza remore alla competizione, assai estetizzato, incarnazione strutturale della razionalità del libero mercato. Nello stesso discorso critico, in questo senso, sembrava infiltrarsi un ideale di soggettività callosa cui erano precluse le fragilità. Per molti versi, l’indisponibilità ad accettare le lacerazioni sembrava subdolamente legata al bisogno di insistere sulla potenza per non inquinare di malessere il prossimo avvento della rivoluzione. Tragicamente, l’ottimismo insurrezionalista somigliava talvolta a un monito morale, teso ad ammutolire tutte le lacerazioni di cui stiamo parlando – l’ansia, la solitudine, l’inadeguatezza o la depressione, appunto, per non rammollire l’orizzonte rivoluzionario.

L’abbaglio in sé non sarebbe stato un problema, non fosse che l’imperativo alla potenza suonava talvolta come una specie di spregio per le fragilità. Il bisogno di trovare dell’aria oltre la cultura politica italiana nasceva da questo, in quel 2011, dall’assenza di spazi emotivamente sicuri nei quali discutere l’anima patogena dell’epoca contemporanea, come se il fatto stesso di riconoscerla nella sua violenza potesse aprire a un rischio di sconfitta, un orizzonte post-virile a tal punto consapevole dell’avversità dei rapporti di forza che era meglio non parlarne. Era più facile insistere sul volontarismo, sull’indipendenza, su un richiamo nauseabondo alla potenza, sperando che a furia d’incitazioni la rivoluzione sarebbe ritornata.

Il ricorso a Fisher nasceva in quel momento, come esito del bisogno di trovare un interprete di due processi egualmente importanti, la violenza neoliberale e i suoi effetti patogeni sulla soggettività e sulle relazioni sociali. In questo senso, l’accento sull’indipendenza è stato, secondo me, problematico. In un contesto vieppiù descritto dalla diffusione a macchia d’olio del malessere sociale, l’esito di quel sostanziale richiamo morale al silenzio è stato l’esacerbarsi della solitudine politica. Esiste il risentimento di classe, diceva Mark Fisher, ma non esiste la coscienza di classe, a indicare precisamente la necessità di disinnescare la solitudine neoliberale. Non ci vuole tanto, nella mia testa, per intuire come mai, in un contesto tormentato dalla valutazione e dall’esclusione continua, la destra sia divenuta seducente come strumento di rivalsa e di compensazione.

In tutto questo, è quantomai benvenuto che la casa editrice NERO ci abbia regalato questa traduzione. Non si tratta, infatti, di indulgere nell’“ideologia dell’interiorità”, come la definiva Fisher, né di sentirsi impotenti di fronte alla violenza del mercato. Il punto è ripartire dall’esperienza per tornare all’economia politica, per denudare, a un tempo, le cause della violenza e la sensibilità diffusa nella popolazione.

In una delle interviste raccolte ai margini del referendum in Grecia, nel 2015, la frase che più mi colpiva riguardava questo. La notte del referendum, mi raccontavano, le persone avevano ricominciato a guardarsi negli occhi. C’era come una rinnovata fiducia in piazza che si esprimeva anzitutto nelle interazioni, come se d’un tratto fosse chiaro che il nemico era altrove; come se d’un tratto fosse chiaro che la causa del dissesto finanziario non viveva nella porta accanto; come se d’un tratto fosse chiaro che la società non era colpevole, né tantomeno complice, della condotta patogena del mercato.

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