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Verona e dintorni

di Franco Romanò

c570717d b888 480c 82d5 04ec46fcb24f 680x382L’aggressione omofoba e nazista di Verona non può essere ridotta semplicisticamente a effetto dell’esistenza di un governo Salvini (Conte è un prestanome senza dignità e Di Maio solo il primo napoletano che si è fatto fregare da un milanese), sebbene come appare evidente dal 4 marzo in poi le aggressioni di questa natura siano aumentate e con una escalation di pericolosità continua. Non si può tuttavia distaccare questo evento da un processo di più ampia portata e durata nel tempo e che ha le sue origini negli anni ’80 del secolo scorso. Proprio ripensando a questo mi sono ricordato di due libri importanti, uno recente di Marco Revelli, Non ti riconosco, un Grand Tour che comincia in Brianza e finisce a Taranto (guarda caso), Einaudi 2016. Rileggendo la sua drammatica descrizione della fine del mito del nord est, la memoria mi ha riportato al secondo libro, un romanzo – forse il solo - che abbia colto fin dall’inizio che cos’erano i distretti industriali e chi erano i personaggi di quella effimera fortuna: Vita standard di un venditore provvisorio di collant di Aldo Busi, con i suoi due protagonisti, Angelo Bazarovi e Celestino Lometto. Busi seppe condensare in questi due uomini che si mescolano fino a diventare un personaggio unico a due teste, per poi separarsi nel finale, un mostro sociale, i cui esemplari si sono poi moltiplicati. Revelli si occupa marginalmente della tipologia umana, ma mette maggiormente in evidenza gli aspetti tragicomici di alcuni progetti da un punto di vista sociologico e li condensa in due capitoli. Il primo è dedicato a Consonno, paese dell’alta Brianza che avrebbe dovuto diventare la Las Vegas d’Italia, il secondo dedicato appunto ai distretti industriali del nord est.

Ciò che stupisce ad anni di distanza dalla pubblicazione del romanzo – credo il più grande di Busi – e del suo linguaggio, è la capacità di anticipare i tempi, di vedere attraverso l’antropologia dei personaggi, il futuro di un’intera comunità. La vicenda inizia nel 1979 e si svolge nel mantovano; ma in realtà in una terra di mezzo, una cerniera fra Lombardia e nord est veneto. Bazarovi, infatti, è un laureando in lingue all’università di Verona. La sua vita un po’ errabonda e un po’ trasgressiva, che condivide con altri, cambia quando incontra Celestino Lometto, ma il romanzo comincia dalla fine e cioè quando Angelo ha già abbandonato il suo mentore. Lometto è un nome metafora, ma anche ossimoro: un omuncolo dal punto di vista antropologico e una cieca macchina da guerra come imprenditore. Produce collant e ha bisogno di un traduttore per aggredire il mercato estero: una joint venture perfetta con il giovane laureando a corto di soldi. Il loro primo incontro avviene a casa di Bazarovi, dove Lometto arriva insieme a Nicola – un amico di Angelo - che gli fa da autista ma non si ricorda bene la strada. Ecco come si presenta l’imprenditore.

Una massa di carne in sudore trattenuta da una canottiera bianca e pantaloncini corti azzurrognoli si discarica dal sedile sull’asfalto rovente. La faccia scarmigliata… l’uomo è una palla birillica di grasso con estremità che si trascinano fino al cancelletto:

ak semo ak semo,… col casso Cak semo!... Via Pulcini, via Subert, e via Suman, e ‘sta via Verdi de figa niente, Ma gnint, gnint, Canker.”

La via finalmente si trova e Angelo è lì ad attenderli:

Oh finalmente eccoci qua. Piacere Celestino Lometto.”

La sua performance linguistica e caratteriale, però, è appena cominciata. Entrano in casa e l’ineffabile imprenditore chiede:

Possi cavam li scarpi , vaco che mal da pe’. Ah non c’avrebbe una bacinella con un po’ di acqua fredda?”Pag 40-41

Il caldo gli ha fatto venire il mal di piedi e Lometto smania. Bazarovi è stralunato ma esegue, porta l’uomo nel bagno e lui i piedi li mette nel bidè: è proprio lì che i due cominciano a parlare d’affari. Con il suo linguaggio colorito e ostrogoto, nonché con il suo vitalismo, Lometto soggioga Angelo, anche perché l’imprenditore non ha nulla da obiettare sull’omosessualità del giovane; indifferente a tutto sul piano personale, sa che l’altro gli serve ed è questo che conta. Se mai con Lometto bisogna tirare sul prezzo, contrattare ogni volta il proprio compenso. Fra i due nasce una complicità malsana, ma Angelo e Celestino potrebbero essere anche la stessa persona scissa in due parti. Il giovano laureando con un vago orientamento di sinistra in politica, cerca di far leva sulla sua cultura e intelligenza, ma l’altro lo incalza con il suo buon senso senza orizzonti:

E poi che te ne fai dell’intelligenza? Con quella i collant non li vendi mica.”

Ha ragione lui, nell’economia selvaggia del just in time delivery, non esiste programmazione o intelligenza, ma astuzia e presenza costante, perché bisogna stare sempre sul pezzo per arrivare un secondo prima degli altri, avere magazzini snelli per contenere le spese fisse e muoversi come dei tarantolati. Mai una distrazione, mai un momento di sosta. Per questa ragione Lometto lo coinvolge anche nei suoi rapporti famigliari perché lo vorrebbe sempre con lui, come uno schiavo. Angelo è esasperato, ma la sua è un’acredine inconcludente, perché capisce che con tutta la sua sensibilità e cultura dovrà fare il venditore di collant come l’altro, il futuro non gli promette grandi scelte diverse. Quando un giorno si trovano in Germania e hanno qualche ora a disposizione, Angelo propone a Celestino la visita a un museo o a una chiesa.

Ma quale chiesa, quale museo, noi siamo qui per vendere collant:”

Alle rimostranze di lui che gli fa notare che hanno qualche ora di tempo libero in attesa di un incontro, Lometto lo guarda stranito. La cultura è un pericolo in quanto tale, o è qualcosa di così estraneo alla sua vita che neppure nel tempo libero gli può sorgere un desiderio simile. Sui tre figli e i loro nomi dobbiamo soffermarci un poco: Ilario, Berengario e Belisario. I fasti guerrieri e religiosi di un lombardo-veneto proto leghista sul punto di nascere si riflettono nella nominazione. Quanto alla moglie e madre dei tre, meridionale di origini, governa la casa e le relazioni come se fossero un mondo parallelo a quello del marito, che le vuole bene sinceramente, ma con l’ottusità tipica di chi non riesce a domandarsi se l’altro è felice o meno. La relazione stretta con la famiglia farà percepire ad Angelo, che dietro l’apparente serenità di Edda, si cela una donna inquieta e per nulla felice, ma che rovescia il proprio disagio sulle altre donne, come si vedrà nel prosieguo dell’opera. Lo stile proto leghista di Lometto si sposa in modo cervellotico e insulso con il mito americano. Come nell’immaginario degli imprenditori brianzoli, Consonno doveva diventare la Las Vegas d’Italia, così Lometto sogna un figlio presidente degli Stati Uniti e quando Edda rimane incinta del quarto, la manda a partorire proprio là, ricorrendo a mezzi più o meno legali per procurarsi un passaporto americano. Lometto rappresenta forse l’esemplare nascente di una nuova razza padrona, come veniva detto in quegli anni? Per niente, non ne ha la capacità e neppure la volontà: la sua infondo è un’azienda famigliare nella quale tenta di fagocitare anche Angelo. Quanto alla moglie Edda, il suo compito primario è quello di organizzare la vita domestica con attenzione alle economie di scala, mentre i tre figli attendono di seguire il padre nell’impresa; in realtà Edda è capace di ben altro, come si capirà nel finale. In ogni caso, quello è l’orizzonte massimo di Lometto, che non arriva neppure a sfiorare il sodalizio con altri imprenditori, se mai a servirsi della politica locale. Quando l’euforia per la crescita dei distretti industriali si rovescerà nel suo opposto anche gli imprenditori verranno lasciati del tutto soli ad affrontare una crisi più grande di loro, che ne spingerà diversi al suicidio. Lometto non è un borghese, è un germe di quello che in grande sarà Berlusconi, per certi aspetti; per altri è il prodotto della dissoluzione del ciclo produttivo fordista e della sua polverizzazione in micro imprese che saccheggiano il territorio cementificandolo di capannoni. Chi è a capo di quelle aziende non sa guardare aldilà del proprio naso, sebbene commercino con tutto il mondo: quando la cuccagna improvvisamente finisce, non hanno difese.

Angelo Bazarovi, il giovane laureando, in un primo tempo subisce la personalità di Lometto, pur disprezzandolo. Anche per lui e per il suo amico Nicola sono cambiati i tempi. Da sempre gli studenti universitari fanno lavoretti, ma prima era per pagarsi gli svaghi, ora li fanno per vivere. La precarietà è dietro l’angolo anche per i laureati e Angelo lo sa, non può rifiutare un lavoro redditizio come quello che gli offre Lometto, anche se non ha alcuna garanzia, nessun contratto, niente; solo una competenza di nicchia che può però sfruttare finché dura. Inoltre, il coinvolgimento nella vita della strana famiglia lo attira perché, data la sua condizione di marginalità, un luogo caldo in cui ogni tanto rifugiarsi, è prezioso. Tanto più che Edda ha in lui un confidente, poco pericoloso perché l’omosessualità di Angelo è una protezione per tutti; anche per Celestino, che manderà proprio lui ad accompagnare la moglie negli Stati Uniti quando il parto è prossimo. Angelo comincia a distanziarsi dal suo mentore quando capisce che l’attività di Lometto e moglie ha una parte visibile e una sommersa. Un altro dei meriti del romanzo, a distanza di anni, è di avere intravisto che nella nascente globalizzazione si assottigliavano i confini che separano l’economia legale da quella criminale. Durante una trattativa con una misteriosa coppia di svizzeri per una partita di collant a un prezzo molto vantaggioso, giunge dai due la proposta di una misteriosa transazione che si rivela essere poi niente altro che il contrabbando di orologi di grandi marche, probabilmente un passo verso traffici ancor più pericolosi; infatti è così, come in un gioco di scatole cinesi, una proposta serve a sondare la possibilità di andare sempre oltre. Al centro un misterioso prodotto, il Captacaz, una specie di antesignano del viagra, che diventerà la mina vagante e tragicomica che accompagnerà la vicenda fino alla sua conclusione. Angelo cerca di sottrarsi, Lometto traccheggia e del resto che differenza c’è fra contrabbando, traffici illeciti ed economia legale quando si lavora in nero comunque? Dove sono i contratti? Anche quando esistono, sono labili tracce di un rapporto, per cui un qualunque camion può trasportare insieme a frutta e verdura anche la droga che rifornisce i mercati cittadini: a Milano ne sappiamo qualcosa. Intanto la gravidanza di Edda prosegue bene, ma la sorpresa è dietro l’angolo. Il figlio tanto agognato e sognato come futuro presidente degli Usa è una figlia down, Aurora Giorgina Washington Lometto. A quel punto l’imprenditore perde la testa e chiede ad Angelo di ucciderla o farla sparire, ma lui si ribella. Mi fermo, qui per non togliere a chi non avesse ancora letto il romanzo il piacere di scoprire (o di riscoprire) come Busi saprà guidare il lettore fuori dal gorgo in cui lo ha trascinato. Vita standard di un venditore provvisorio di collant è un’opera complessa, nella quale Busi usa tutta la varietà delle strutture narrative novecentesche: dall’uso spregiudicato del flash back ai salti temporali, dalla condensazione di alcuni eventi decisivi in pochi giorni, al suo contrario, dilatando il tempo e usando la divagazione. Qualcosa in quest’opera ricorda il Faulkner de L’urlo e il furore sia per il linguaggio espressionista, sia per la torsione dei corpi, fino alla caricatura, che Busi infligge ai suoi personaggi con sapiente crudeltà. L’opera, percorsa da momenti di sulfurea comicità, è una tragedia moderna, che ha pure una piccola catarsi; piccola perché i suoi personaggi non sono degni di una tragedia, pur essendo tragico il contesto in cui si muovono. Naturalmente la parola non va presa nel senso del modello classico: la presenza di un comico grottesco e surreale lo esclude. Eppure nel destino di questi uomini e donne, c’è una premonizione che si rivelerà quanto mai realistica. Del resto, non c’è forse qualcosa di nuovo nella tipologia di alcuni fatti criminali accaduti nei tardi anni ’80 e poi ’90 nel nord Italia, in pochi chilometri quadrati? Non penso alla banda del Brenta e a Felice Maniero, faccia d’angelo, malavitosi normali legati alle mafie, bensì a un lungo elenco di uomini e donne di una tipologia ben diversa.

Il primo e più noto è Pietro Maso di Montecchio di Crosara in provincia di Verona insieme ai suoi tre compagni di ventura, Marco Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato. I quattro uccidono Antonio e Maria Rosa Maso per entrare in possesso di un’eredità valutata un miliardo. Nel 1994 Eleonora Perfranceschi, veronese, morì per 500 mila lire in contanti e tre stanze in affitto; uccisa dalla figlia Nadia Frigerio, 33 anni, che voleva la casa a disposizione dove fare soldi in fretta prostituendosi. Nel compiere il delitto fu aiutata da Marco Rancani, suo protettore. Si prosegue con il delitto Armando, avvenuto nel 1994 a san Bonifacio, sempre provincia di Verona e a dieci chilometri di distanza da Montecchio. La Procura ha riaperto il caso dopo 17 anni, iscrivendo nel registro degli indagati cinque persone: le due figlie della donna, Katia e Cristina, e tre loro amici. L’ipotesi è di omicidio volontario premeditato e il movente sarebbe una questione di soldi. La catena di delitti arriva fino a tempi assai prossimi. Nel 2008 e sempre a Verona, Alessandro Mariacci uccide con due pistole prima la moglie, poi i tre figli di 3, 6 e 9 anni; dopodiché si suicida. Il giudice delle indagini preliminari Guido Taramelli ha firmato l’archiviazione del procedimento così come richiesto dal sostituto procuratore perché non ci sono altre responsabilità per quella tragedia, se non quella di Alessandro Mariacci. Nel suo caso non c’era l’ossessione di accumulare ricchezza, ma la paura di perderla. Tante erano state le ipotesi vagliate dagli inquirenti i quali, alla fine, hanno considerato attendibile quella economica: il commercialista aveva ucciso la sua famiglia in preda all’angoscia di non poter mantenere il tenore di vita conservato fino a quel giorno. Identico il movente del delitto di Grezzana (siamo sempre in provincia di Verona) ma nel 2006. Claudio Rubello uccide la moglie Paola Costa, 43 anni e la figlia Jennifer di 10, poi colpisce a martellate i figli Thomas di 16 anni e Anthony di 14, che miracolosamente si salvano. Infine il suicidio, con un coltello. Il motivo del raptus? I soldi. “Per le mie stupide disattenzioni ho rovinato la mia famiglia”, riportava il biglietto lasciato sul tavolo in cucina. Quali disattenzioni? Rubello da alcuni giorni era molto preoccupato: faceva il padroncino per conto di un’azienda del Gruppo Aia, leader nel settore avicolo, e in quella storia c’entrava perfino l’aviaria: il virus che, oltre a diffondere la psicosi tra la gente, aveva mandato in crisi l’industria dei polli. Il padroncino di Grezzana temeva di dover chiudere baracca: la ditta trevigiana dove portava le carcasse di polli e galline era messa male, c’erano dipendenti in cassa integrazione, prospettive nerissime. Per giunta, Rubello aveva ordinato un nuovo furgoncino, indebitandosi.

Tutti questi delitti hanno una causa comune declinata in modi diversi: impadronirsi dell’eredità dei propri genitori da parte dei primi. Sono figli e figlie che uccidono padri e madri perché il modello dei soldi facili suggerisce loro la scorciatoia più semplice: mettere le mani sull’eredità prima del tempo. Oppure, come nei due ultimi casi, gli assassini hanno ciecamente aderito a un modello di sviluppo economico perverso e criminale, basato sul lavoro nero, l’evasione fiscale, l’iper sfruttamento anche di se stessi; fino al collasso finale. Se nell’individuo si riflette un cristallo dell’accadimento totale, per citare Walter Benjiamin - questi delitti sono emblematici e ascoltare le parole dei loro protagonisti è ancora più istruttivo. Certamente abbiamo a che fare con soggetti che hanno problemi psichiatrici, ma la concentrazione ambientale e certi caratteri comuni ne fanno i sintomi di una nevrosi della comunità cui appartengono. Chiudo il triste elenco con due altri protagonisti di quegli anni: Marco Furlan e Wolfgang Abel, i due ragazzi della Verona bene che incendiavano discoteche e si firmavano Ludwig, in mezzo a deliranti proclami nazisti: Salò, peraltro, non è molto lontana.

Cosa è successo dunque a Verona in questi giorni e quale salto di qualità è avvenuto in realtà? Il primo riguarda l’economia e cioè che, strozzato sempre di più da una crisi nella quale si avvita su se stesso come un pugile suonato e bendato, il nord est ha sommato alle proprie storiche frustrazioni quelle nuove, in un mix di anticultura, imbestiamento e culto della violenza addirittura come valore. La seconda questione riguarda al politica e cioè che i personaggi del romanzo di Busi sono diventati ministri e sottosegretari di questo governo: ma gli altri dove erano?

OPPORSI, MA COME?

Non so più se repetita juvant ma ci provo. Ieri sera, durante il dibattito a microfono aperto di Radiopopolare i Sentinelli di Milano, sollecitati anche da telefonate mediamente più intelligenti che in altre occasioni, hanno detto una cosa sacrosanta e cioè che una lotta che si opponga solo alla violenza razzista incentivata da questo governo, non servirà a molto se non sarà capace di legarsi ad altre situazioni di lotta, prima di tutto quelle che chi sul territorio o sul luogo di lavoro è soggetto a sfruttamento selvaggio mancanza totale di diritti e altro. Hanno citato espressamente a lotta dei lavoratori e delle lavoratrici di Amazon e hanno fatto benissimo. Partendo da questa consapevolezza che mi sembra assai importante e che spero venga confermata da atti, prese di posizione e anche occasioni di confronto, faccio qualche riflessione in più, per punti da sviluppare strada facendo e sperando che almeno si apra un dibattito serio.

Un’ultima considerazione. Che nessuno nelle organizzazioni politiche e sindacali si renda conto di questi pericoli non mi stupisce e anche quei settori sindacali che hanno appoggiato le lotte di lavoratrici di Amazon in questi giorni, nelle loro dichiarazioni fanno di tutto per tenere queste lotte in un ambito salariale e corporativo, che non turbino la grandi manovre politiche che devono continuare ad avvenire altrove. Mi stupisce un po’ di più che non se ne rendano conto collettivi, centri sociali, associazioni che dovrebbero cominciare a sentire l’urgenza di iniziative comuni, senza rinunciare alle proprie differenze, ma facendo un passo avanti nella capacità di ascolto reciproco. Non bastano la chiusura gli atti repressivi già avvenuti a Milano, i tentativi di screditare un’esperienza straordinaria come quella della Rimaflow, le aggressioni a semplici cittadini e cittadine che svolgono azioni di volontariato (vedi Pavia i mesi scorsi) o aderiscono a semplici organizzazioni di quartiere per capire in quale direzione si sta andando?

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