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roars

A proposito di scuola e pedagogia

Risposta a un documento dell’UdS

Marino Badiale, Università di Torino
Fausto Di Biase, Università di Chieti-Pescara
Paolo Di Remigio, Liceo Classico di Teramo
Lorella Pistocchi, Scuola Media di Villa Vomano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera firmata dai professori Di Biase, Badiale, Di Remigio, Pistocchi. Si tratta di una replica a questo documento UdS.

Nota bene: la Redazione è ben lieta di ospitare il dibattito, e desidera precisare che in generale le lettere e i documenti pubblicati su Roars sono espressione del pensiero dei loro autori e non necessariamente degli orientamenti della redazione.

Schermata 2019 04 05 alle 10.28.49Un paio di anni fa l’Unione degli Studenti ha pubblicato un documento[1] dallo stile rudimentale e contraddittorio nei contenuti, che prima rifiuta la valutazione nella scuola, poi attenua il rifiuto e ne chiede soltanto forme diverse; prima considera la bocciatura crimen exceptum, poi boccia senza istruttoria e senza processo questa società – “Di questa società, noi, (sic) possiamo farne (sic) a meno in quanto (sic) essa serve solo a mantenere lo stato di cose presenti” -; prima esige esattamente il modello di scuola che le riforme dell’ultimo ventennio hanno già attuato, poi lancia contro la scuola attuale, benché esaudisca già ogni sua richiesta, addirittura l’appello alla rivoluzione socialista. A differenza dei rivoluzionari di un tempo che, avendo frequentato la scuola gentiliana, sapevano “esprimersi molto bene oralmente e per iscritto”[2], i loro attuali epigoni, educati da una scuola perfettamente armonizzata con le esigenze sessantottine, si esprimono con difficoltà; in compenso, proprio come è accaduto ai loro precursori, resta loro celato che proprio là dove si credono più rivoluzionari non fanno che obbedire ai più profondi imperativi dell’ideologia neoliberale.

Veniamo innanzitutto al tema della bocciatura, che tanto indigna gli studenti estensori del documento. Se se ne continua a parlare dopo che è stata praticamente abolita in gran parte delle scuole, ciò accade perché in questo tema l’antipedagogia neoliberale ha trovato, più che un suo punto di forza, un punto debole della vecchia pedagogia. La bocciatura come problema perturbante è un’eredità della scuola gentiliana.

Al di là dei suoi vuoti filosofemi per cui l’attività pedagogica realizzerebbe quasi una unio mystica tra docente e discente e il docente insegnerebbe nella misura in cui imparerebbe, Gentile organizzò una scuola crudamente selettiva, tale da escludere le masse dalla formazione teorica, per poter riservare i migliori posti pubblici ai figli dei notabili. È anche possibile che la sua riforma abbia restituito l’aura di nobiltà alla cultura umanistica che da sempre la grettezza del businessman respinge come inutile; è comunque sicuro che essa ha provocato gravi danni didattici. Se il docente non ha il compito pedagogico di aiutare tutti ad acquisire almeno le conoscenze e le competenze elementari e a raggiungere il massimo delle loro capacità, ma quello, come si diceva con termine orrendo, di scremare le classi, la sua didattica si avvolge nella contraddizione: come azione pedagogica facilita la comprensione, ma come azione selettiva mira a renderla più ardua; mentre la sua essenza pedagogica le prescrive di incoraggiare gli alunni alle prese con le inevitabili difficoltà di apprendimento, la sua finalità selettiva la invita a scoraggiarli; quando poi la selezione sia guidata dall’istinto di casta, allora si verifica il completo tradimento della scuola pubblica, nel cui spirito è posto l’obiettivo di favorire la mobilità sociale[3].

Già da qui è però chiaro che la bocciatura può essere condannata come strumento antipedagogico soltanto entro il contesto di una scuola di casta; al di fuori di questo contesto ed entro una scuola che, favorendo la mobilità sociale, aiuta ogni discente a superare le difficoltà e lo induce a dare il meglio di sé, bisogna innanzitutto cessare di usare il termine pregiudicante di ‘bocciatura’ e sostituirlo con il termine ‘ripetenza’ e poi comprendere che la ripetenza è uno strumento che in alcuni casi, anche per il bene del discente, è opportuno usare.

Questa comprensione è preclusa a chi sia privo della coscienza di cosa significhi insegnare e apprendere; chiedendo però una scuola più accogliente, non autoritaria, basata su rapporti orizzontali, serena, senza ansie da prestazione, proprio l’Unione degli Studenti testimonia di soffrire di questa privazione. In primo luogo essa auspica qualcosa che è già stato dato in abbondanza; tanto meno si accorge che la ‘scuola orizzontale’ ha prodotto danni enormi ai discenti, alla cultura e alla società, che l’insegnante attuale è andato molto al di là della ‘guida amichevole’ di cui parla Gramsci[4],ed è un badante umiliato che può anche essere aggredito impunemente da alunni e genitori, a tal punto ‘amichevole’ da non essere più guida e da doversi dimenare tra progetti, uscite, gite, film, power point, teatro, mostre, scuola-lavoro, scioperi indetti dall’alto, giornate dedicate a questo e a quello, senza che possa insegnare niente. Questa didattica di cui l’Unione degli Studenti si attende l’attuazione tramite l’azione rivoluzionaria è di fatto già rancida; e lo è perché disprezza la verità banale che nessuno può imparare al posto di un altro, perché ha tradito il principio che il cuore dell’insegnare e dell’apprendere è il lavoro del discente, che ognuno può istruirsi solo se lui stesso memorizza e si esercita.

È Walter Benjamin, in una delle sue formule definitive, ad aver esplicitato ciò che Gramsci presuppone nelle sue lucide argomentazioni – che si impara producendo: si impara a scrivere non leggendo mille libri o facendo mille esperienze, ma scrivendo, si impara a pensare risolvendo problemi – come ricorda Hegel contro l’illusione di poter conoscere la conoscenza prima che conosca: non si impara a nuotare senza entrare in acqua. All’Unione degli Studenti manca la coscienza che imparare è lavoro e che il lavoro è disciplina, cioè una condotta severa di vita, ed è fatica – anche fisica, come ricorda Gramsci[5]. La scuola la allevia, la rende sopportabile, sia dosando le difficoltà di apprendimento sia esaltando l’importanza del suo risultato; essa tradisce però il proprio compito quando, come fa quella odierna, accolla al docente ogni peso obbligandolo a escogitare espedienti didattici così sottili che i discenti imparino senza accorgersene, trastullandosi tra giochi; dal gioco, infatti, può forse derivare qualche virtuosismo particolare, ma non l’apertura coraggiosa all’esistente nella sua dura estraneità né i mezzi per affrontarlo e conciliarlo. Poiché apprendere è lavoro e il lavoro è fatica, la scuola non può fare a meno di valutare se e quanto ogni discente si sia impegnato, e, nel caso in cui questi abbia eluso per pigrizia il suo dovere nel corso dell’anno, ha il dovere di farglielo ripetere. In realtà la ripetenza è un onere non tanto per il discente che vi incorre, a cui anzi si concede tempo per eseguire il lavoro evitato, quanto per la società, che finanzia l’istruzione pubblica, e per gli insegnanti che devono dare di più proprio a chi ha dato di meno.

La prassi indulgente per cui oggi nelle scuole una sufficienza non si nega più a nessuno non può essere affatto interpretata come un avanzamento nel cammino verso il paradiso pedagogico, ma va bollata come una miserevole misura di spending review e come inadempienza dei doveri professionali da parte degli insegnanti, in definitiva come subdola distruzione della credibilità delle istituzioni pubbliche e della cultura. Quando non ci sia l’intento di assicurare la divisione in caste, la ripetenza è uno strumento pedagogico legittimo.

Agli estensori del documento che, lasciandosi trasportare nell’insincerità dal vittimismo giovanile, condannano il modello scolastico attuale come ‘autoritario, meritocratico, frontale e verticale’, occorre rispondere che purtroppo la scuola odierna è il contrario di tutto ciò e assumersi il compito di un’apologia di queste quattro qualifiche.

Purtroppo la scuola attuale non solo non è autoritaria, ma è proprio senza autorità – e il tono spericolato assunto dagli studenti nel loro documento ne è già una prova sufficiente. Essi trascurano che l’interesse fondamentale di chi impara è avere un maestro autorevole da cui assorbire perfino le pause e le esitazioni. Cosa se ne fa lo studente di un insegnante che non conosce la materia, che non lo sa correggere, che non sa rispondere alle domande, che anzi lo rimanda alle sue opinioni? ‘Autorità’ è la forza immateriale acquisita da chi ha imparato, da chi, cioè, ha oltrepassato le sue opinioni e si è innalzato alla scienza delle leggi delle cose, così da disporre di pensieri oggettivi, argomentati. In pedagogia la polemica contro l’autorità è sempre la contraddizione di voler essere allievi ma di non volere avere il maestro.

Poiché volevano in fondo distruggere la qualità della scuola pubblica per creare domanda di scuola privata[6], i riformatori se ne sono appropriati con fierezza e hanno sostenuto che in Italia l’insegnante avesse troppe conoscenze, che il conoscere del docente, anziché affascinare il discente e stimolarne l’emulazione, lo paralizzasse, lo umiliasse, inducesse a ignorare i mille ‘saperi’ (proprio così: saperi) di cui già dispone per via informatica, molto più incisivi sull’attualità di quanto possa esserlo l’anacronistica, la noiosa cultura libresca (proprio così: libresca); il docente doveva dunque scendere dalla cattedra (una dirigente scolastica lottando con tutte le sue forze contro un voto non abbastanza illusionistico ha rinfacciato alla docente che lo aveva proposto di valutare dalla cattedra) e programmare mille espedienti di didattica innovativa perché finalmente gli alunni imparassero ‘in un rapporto orizzontale, sereno, senza ansie da prestazione’, come si dice nel documento dell’Unione degli Studenti.

Purtroppo la scuola attuale non è meritocratica. Il merito contrasta con l’uguaglianza, è vero; ma da una parte anche l’uguaglianza contrasta con il merito, ossia né l’uguaglianza né il merito sono valori assoluti, ma si mediano l’una con l’altro entro la solidarietà sociale; d’altra parte l’uguaglianza è contrastata non solo e non tanto dal merito, ossia da ciò che si consegue mediante il proprio lavoro, ma anche, e in modo più profondo, dalla casualità naturale, per cui si nasce belli o meno belli, forti o meno forti, in questa o in quella famiglia ecc. Oltre la società di classe che si richiama all’ideale del merito, si profila non la società egualitaria, come credono gli ingenui studenti rivoluzionari, – l’uguaglianza è infatti pensabile solo in astratto, essendo la realtà diversa – ma la società di casta. Don Milani, citato sempre a sproposito come oppositore di principio della ripetenza[7], si era accorto come la scuola anglosassone, approdo finale della riforma dell’autonomia, fosse una scuola di casta: “I miei compagni di lavoro erano inglesi e non sapevano scrivere una lettera in inglese. Spesso se la facevano scrivere da Dick. Dick qualche volta chiedeva consiglio a me che ho studiato sui dischi. Anche lui parla soltanto cockney. Cinque metri sopra le nostre teste c’erano quelli che parlano ‘l’inglese della regina’. Il cockney non è molto diverso, ma chi lo parla è segnato. Nelle loro scuole non bocciano. Deviano verso le scuole di minor pregio. I poveri nelle loro si perfezionano a parlare male. I ricchi a parlare bene. Dalla pronuncia si capisce quanto uno è ricco e che mestiere fa il suo babbo.”[8] L’assenza della meritocrazia e della ripetenza a scuola, così agognata dall’Unione degli Studenti in nome dell’uguaglianza astratta, è non meno amata dalle caste neoliberali perché priva la scuola della capacità di promuovere la mobilità sociale.

Anche nella polemica contro il modello ‘frontale gli studenti si alleano alla pedagogia di regime che irride da almeno vent’anni la lezione frontale come sinonimo di inerzia e inefficacia didattica, trascurando non solo che la tradizione millenaria che se ne è servita ha prodotto civiltà, arte e scienza, ma che mai nel lavoro in classe gli insegnanti si sono limitati a tenere conferenze agli alunni e che sempre hanno fatto anche esercitazione. In ogni caso, anche se gli insegnanti si limitassero a tenere conferenze davanti alla classe silenziosa, resterebbe il fatto che la lezione ‘frontale’ non esaurisce la loro didattica, ma ne è soltanto l’inizio. La segue il lavoro personale dell’alunno: memorizzazione delle conoscenze ed esercitazione sui problemi – qui l’alunno non è passivo, è attivo; seguono verifiche e valutazioni, in cui il docente ascolta, legge e corregge il discente, in cui dunque questi è attivo di fronte al docente passivo. In quanto è soltanto l’inizio della didattica e dunque si completa nei suoi passi successivi, la lezione frontale è un metodo efficace; gli altri metodi, quelli applicati nella favolosa Finlandia[9] o in altre terre lontane, ma anche sempre più nella scuola italiana riformata, hanno un’efficacia per lo meno dubbia, perché attribuiscono in modo subdolo al docente tutta la fatica dell’apprendimento dell’alunno e non considerano che risparmiare la fatica dell’apprendimento porta immancabilmente con sé il risparmio dell’apprendimento stesso. La differenza tra il primo metodo e gli altri può forse essere resa intuitiva con una similitudine tratta dalla medicina: alcune terapie, per esempio quelle chirurgiche, implicano l’anestesia del paziente, altre, per esempio le diete, il suo impegno.

L’insegnamento è simile non alla chirurgia, ma alla dietetica: esige la docilità del discente, la sua tenacia, la sua volontà di dotarsi dell’habitus scientifico. I metodi della scuola attuale sono invece ispirati all’operazione in anestesia totale; da una parte, infatti, non meno dei chirurghi rispetto all’eventuale fallimento dell’operazione, oggi gli insegnanti sono ritenuti i soli responsabili dell’insuccesso dei loro alunni, così da essere tentati di rinunciare alla valutazione imparziale per evitarne le conseguenze; dall’altra, il privilegio riservato alla progettualità e all’innovazione rispetto al lavoro di routine dipende dal falso ideale dell’imparare involontariamente, che riduce la didattica ai contenuti acquisibili per gioco – di fatto alla mera socializzazione. Questo ideale suscita un secondo inconveniente: il trasferimento al docente di tutto l’onere dell’apprendimento trasforma la scuola riformata proprio in quella istituzione totale che il documento dell’Unione degli Studenti finge di scorgere nell’antico modello di scuola; in quanto non è finalizzata a trasmettere la conoscenza, la scuola si trasforma in un nido d’infanzia, ma spesso proprio in un manicomio, imbevuto di propaganda ideologica, abbandonato dalla scienza, dalla filosofia, dal gusto, adatto solo a bandire il pensiero critico dalla società e a conformarla all’opinione autorizzata.

La scuola attuale, purtroppo, non è verticale. Nella vita sociale, a differenza di quanto vogliono credere gli studenti estensori, non ci sono soltanto relazioni orizzontali, ce ne sono anche di verticali: quelle tra individui della stessa età sono essenzialmente orizzontali; quelle tra individui di età diversa sono essenzialmente verticali. È così che i bambini crescono obbedendo ai genitori, i giovani maturano rispettando gli anziani e i genitori e gli anziani amano nei bambini e nei giovani la propria immortalità; c’è una ricchezza accumulata che deve scorrere dall’alto in basso affinché la nuova generazione non ricominci da capo e l’eredità culturale non si disperda. In mancanza di questo scorrere non si resta nelle sabbie del primitivismo, ma si sprofonda in una palude di informazioni da cui germina soltanto il delirio della presunzione – per dirla con il prof. Bagnai: il sapere di sapere.

Il rapporto scolastico è un rapporto essenzialmente verticale: non soltanto il docente conosce bene ciò che il discente neanche sospetta, ma deve insistere sull’importanza di ciò che al discente non può che sembrare invecchiato e irrilevante; la scienza, e con essa la didattica, inizia infatti dal semplice, cioè dall’astratto, quindi da ciò che per la sua atemporalità sembra estraneo al presente, incolore rispetto agli scintillanti oggetti d’esperienza. Per il ragazzo lo smartphone è più interessante della sua inappariscente forma di prisma, per il bambino il bastoncino è più interessante del segmento; ma la scienza e la didattica non possono iniziare dal concreto: il concreto è particolare e permette di conseguire solo abilità parziali, non estensibili a situazioni sempre nuove; soltanto il semplice è universale, contiene cioè le leggi che valgono per infiniti casi, la cui acquisizione genera proprio quelle competenze che la didattica di regime invano opina di poter perseguire con il semplice rifiuto delle conoscenze[10].

Poiché occorre imporre temi e oggetti che all’inesperto sembrano necessariamente aridi e ininteressanti, poiché si impara con il propriolavoro di memorizzazione e di esercitazione, non in ogni caso coercizione e punizione sono un pretesto con cui gli insegnanti scaricano le loro pulsioni sadiche sui discenti, ma sono una possibile implicazione della cosa stessa: sono strumenti didattici da usare con oculatezza come tutti gli altri. E nessuno ha mai preteso che generassero l’attitudine allo studio. Essa è la capacità di attenzione che nasce dalla curiosità naturale, dalla docilità a cui si è abituati dalla vita familiare, ma si nutre dell’autorevolezza dell’insegnante, dalla passione con cui coltiva la sua materia, dal grado in cui la padroneggia. Aver disprezzato la scienza degli insegnanti, aver preteso la loro trasformazione in tecnologi della didattica, di fatto in animatori, è stato il più grande delitto contro le condizioni soggettive della cultura dal dopoguerra, a cui oggi dobbiamo alunni che non solo ignorano l’esistenza del congiuntivo e del passato remoto, che non solo non sanno localizzare sulle carte geografiche l’Inghilterra, la Francia, la Russia, ma soprattutto non riescono a capacitarsi dell’importanza di queste conoscenze.


Note
[1] Il documento è leggibile al seguente collegamento: https://www.roars.it/online/la-buona-scuola-e-quella-che-non-ha-bisogno-della-bocciatura/
[2] Massimo Bontempelli, Il Sessantotto. Un anno ancora da capire. CUEC, Cagliari 2008, p. 36.
[3] Questo obiettivo appare già nel mito del terzo libro della Politeia di Platone (414d – 415d): gli uomini sono fatti della stessa terra, ma gli dei mescolano a caso in quella di ciascuno polvere d’oro o d’argento o di bronzo e ferro: i governanti devono respingere i propri figli dalle classi superiori in quella dei produttori quando capiscano che sono impastati con polvere di bronzo e ferro, accogliervi i figli dei produttori che siano impastati con polvere d’oro.
[4] Gramsci lo avrebbe voluto negli ultimi anni di superiori, e soltanto in questi, per ridurre la frattura tra scuola superiore e università di allora: “Ecco dunque che nella scuola unitaria la fase ultima deve essere concepita e organata come la fase decisiva in cui si tende a creare i valori fondamentali dell’”umanesimo”, l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore specializzazione…” (A. Gramsci, Quaderni del carcere. Gli intellettuali, Editori Riuniti 1977, p. 132); in questa fase ultima, e soltanto in questa, il docente deve esercitare “solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell’Università.” (Ibidem, p. 133). E che gli estensori del documento abbiano pesantemente distorto il pensiero di Gramsci generalizzando indebitamente a tutte le fasi dell’istruzione un modello che egli pensava limitato all’ultima fase delle superiori, è provato dalle seguenti affermazioni: “La lingua latina e greca si imparava secondo grammatica, meccanicamente; ma c’è molta ingiustizia e improprietà nell’accusa di meccanicità e di aridità. Si ha a che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti, che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinari e metodici. Uno studioso di quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore di seguito, se da bambino non avesse coattivamente, per coercizione meccanica assunto le abitudini psicofisiche appropriate? Se si vuole selezionare dei grandi scienziati, occorre ancora incominciare da quel punto e occorre premere su tutta l’area scolastica per riuscire a far emergere quelle migliaia o centinaia o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno (se pure si può molto migliorare in questo campo, con l’aiuto dei sussidi scientifici adeguati, senza tornare ai metodi scolastici dei gesuiti).” (Ibidem, p. 140)
[5] Cfr. ibidem p. 146.
[6] Cfr. la dichiarazione del sen. Mario Monti ad Agorà estate del 28/07/2015: “Una famiglia, se investe nella casa, fa sicuramente una cosa bella. Spesso questo investimento è a scapito dell’investimento nell’educazione dei figli. Per creare una maggiore occupabilità nel mercato del lavoro delle giovani generazioni, l’investimento nell’educazione è quello più importante.” Si può ascoltare l’illuminante proposta dopo il minuto 50 del filmato al seguente indirizzo: http://www.imolaoggi.it/2015/07/30/monti-quando-ce-la-casa-di-proprieta-il-mercato-del-lavoro-e-meno-mobile/. Cfr. anche le importanti osservazioni sulla scuola francese, che ha conosciuto una riforma in tutto simile a quella della scuola italiana ma con dieci anni di anticipo, in Barba-Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2016, pp. 163-165. In particolare si considerino le parole del docente di scienze economiche e sociali citate a p. 165: “Un’offerta (di istruzione) privata diversificata e di buon livello è esplosa nel corso degli ultimi anni in risposta al degrado del servizio (scolastico) pubblico sempre più a corto di soldi e a una domanda sociale (di istruzione qualificata) sempre più forte, alimentata dalla volontà disperata dei genitori di riuscire a far entrare i loro figli nell’ascensore sociale o, almeno, di evitare loro la disoccupazione. L’insieme di queste nuove offerte (di istruzione privata) costituisce ormai un sistema, un arcipelago dalle ramificazioni infinite, di cui il denaro costituisce la chiave di accesso.”
[7] Mentre chi sopporti la fatica di leggere prima di citare troverà: “Il problema qui (nelle scuole superiori e nelle università) si presenta tutto diverso da quello della scuola dell’obbligo. Là ognuno ha un diritto profondo a essere fatto eguale. Qui invece si tratta solo di abilitazioni. Si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri. Per esempio per le patenti siate severi. Non vogliamo essere falciati per le strade. Lo stesso per il farmacista, per il medico, per l’ingegnere.” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, p. 111)
[8] Ibidem, p. 102.
[9] Sui disastri della didattica finlandese siamo ben informati dai preziosi articoli del compianto Giorgio Israel; ex multis: http://gisrael.blogspot.com/2011/05/il-bluff-della-matematica-finlandese.html.
[10] Il timore pedagogico dell’astratto ha creato disastri irreparabili perfino nelle scuole elementari: molti imputano al metodo globale di apprendimento della scrittura la maggior parte delle attuali dislessie. Cfr. per esempio https://www.orizzontescuola.it/dsa-lorigine-sarebbe-colpa-dal-metodo-insegnamento-nei-primi-anni-scuola/, oppure le testimonianze contenute in https://www.pensareoltre.org/index.php/it/approfondire/206-disturbi-pensareoltre-intorno-al-metodo-globale.
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