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poliscritture

Sulla violenza nella storia

di Ennio Abate

Moro ritrovamento corpoLa questione della violenza nella storia, ora anche in una dimensione “gobalizzata” (in passato affrontata su Poliscritture almeno qui, qui, qui e qui), resta irrisolta . Meglio insistere a interrogarsi sul fenomeno. Da tutti i possibili punti di vista. Senza mai arrendersi all'”evidente” e finire per sublimarla o esorcizzarla. Va bene anche partire da materiale “datato” o “passato” o riflettendo a distanza di anni da questo o quell’evento traumatico.All’indomani della discussione scaturita dal post di Donato Salzarulo sugli anni ’70 (soprattutto nella sua seconda parte: qui) e per continuare ad approfondire, pubblico dal mio “Riordinadiario 2005” le ben meditate e ancora lucidissime e attuali “Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo” di Peppino Ortoleva. Apparvero il 5 agosto di quell’anno sul sito della LUHMI (Libera Università di Milano e del suo hinterland, promossa da Sergio Bologna) e vale la pena rileggerle e rifletterci. Aggiungo il mio intervento e le conclusioni dello stesso Ortoleva (purtroppo non più accessibili on line a quanto vedo, ma di cui avevo conservato una copia). Chi volesse conoscere il resto della discussione lo trova qui (andando in ‘Archivio’ > ‘Sul terrorismo’). Un’ultima precisazione. Ad Ortoleva, che nella sua replica scriveva: «La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo. In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza», rispondo sia pur a distanza di anni di concordare invece in pieno con lui: no, per me pure non è la coscienza individuale (o soggettiva) a misurare da sola il valore di un’azione. Lo può essere (forse) un “io/noi” capace di proporre e attuare – fosse solo per poco tempo (nella storia le rivoluzioni sono lampi) – un progetto razionale e condiviso evitando sia i deliri incontrollati dell’”io” sia quelli standardizzati dei “noi” eterodiretti. [E. A.]

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Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo

di Peppino Ortoleva

1. Il terrorismo è un’arma. E’ un’arma peculiare, certo, per il tipo di “combattente” che richiede e che crea, e soprattutto per il carattere indiretto della sua azione, che non mira a infliggere danni alle forze avversarie ma a disorientare l’opinione pubblica.

Ma è un’arma, e come tale il suo uso va collocato all’interno di una strategia, o almeno di una tattica. Se li consideriamo in quanto arma tutti i diversi tipi di terrorismo possono essere tutti ricondotti ad alcuni princìpi comuni.

2. Il terrorismo suicida è antico quanto il terrorismo moderno: nascono insieme, nel crogiuolo ideologico del populismo russo. Dal punto di vista del singolo terrorista, l’azione suicida può essere una prova di fanatismo irrazionale. Dal punto di vista del gruppo che ne fa uso è uno strumento perfettamente razionale in quanto pressoché impenetrabile alle infiltrazioni. Qualunque riserva di potenziali suicidi, per motivi religiosi, ideologici, o psicologici, è una risorsa per un gruppo terrorista. Non necessariamente l’ideologia che conduce i singoli terroristi al suicidio è la stessa di chi li comanda; è più probabile il contrario.

3. Il terrorismo abbassa drasticamente il costo della partecipazione ai conflitti, inteso in termini economici, politici, militari, e anche come fabbisogno di combattenti. Chi lo usa può “pesare” in un conflitto in modo assai più che proporzionale alle risorse impiegate. Dopo due secoli nei quali partecipare a una guerra ha significato un impiego progressivamente crescente di risorse di ogni genere, la guerra terroristica introduce nuove possibilità: moltiplica i possibili contendenti e rende instabili le alleanze. Ricostruire un modello di conflitto bipolare, in questo contesto, può essere un puro esercizio ideologico: che crea consenso e legittima, in chi combatte il terrorismo, grandi spese in larga parte non bene finalizzate.

4. Anche per effetto del processo appena descritto, le guerre degli ultimi tre decenni, a cominciare dai paesi sottosviluppati, sono state caratterizzate infatti dalla compresenza di tre-quattro contendenti, ciascuno dei quali ha fatto ricorso, in momenti decisivi, a forme di terrorismo soprattutto al fine di evitare processi di pacificazione che potessero emarginarlo. Il terrorismo è strettamente parente delle politiche di creazione sistematica dell’odio (massacri selettivi, gesti di puro orrore), in quanto serve a contrastare ogni compromesso non voluto. Questo modello, ormai ampiamente sperimentato nel sud del mondo, sembra ora in procinto di trasferirsi nel mondo sviluppato.

5. Prima di domandarsi come si possa sconfiggere il terrorismo, ci si deve chiedere che cosa vuol dire sconfiggerlo. Nel caso delle Brigate Rosse, la questione era relativamente semplice. Il gruppo sfidava apertamente il monopolio della forza in capo allo Stato, lo Stato ha ristabilito il monopolio con tutti i mezzi e ha vinto. Nel caso del terrorismo del nuovo secolo, si intravvedono tre diverse linee di azione: ristabilire il monopolio della forza in capo ai singoli stati; stabilire un unico monopolio della forza in capo a uno Stato che si pone come garante della sicurezza globale; tenere vivo un conflitto permanente con un soggetto più o meno fantasmatico identificato come “minaccia terroristica globale” in vista di un’ipotetica vittoria campale. Sono tre obiettivi inconciliabili tra loro, eppure a parole sono oggi compresenti nella linea politica dell’amministrazione USA.

6. In realtà il terrorismo è sì una concausa della fine del monopolio statale della forza, ma ne è soprattutto un sintomo. Sono all’opera oggi complesse e mutevoli coalizioni tra stati (o parti di apparato pubblico), grandi aziende, gruppi politico-religiosi, organizzazioni criminali. I conflitti fra queste coalizioni non hanno finora assunto, e forse non sono destinati ad assumere, la forma tradizionale della guerra, però le loro strategie comportano il ricorso a un ampio ventaglio di mezzi. Il terrorismo è un’arma. Va inoltre tenuto presente che è interesse di tutte le coalizioni vestire i conflitti che conducono con altri panni, più comprensibili e più capaci di mobilitare risorse e consenso: dalla guerra di civiltà all’impegno per la sicurezza dei cittadini.

7. Continuare a combattere il terrorismo senza tenere conto del fatto che si tratta di un’arma, senza cercare di comprendere chi lo usa e al servizio di quale strategia, senza chiarire democraticamente quale assetto si voglia costruire sulla sua sconfitta, è peggio di un delitto, è un errore.

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Intervento

di Ennio Abate

Gentile Peppino Ortoleva,

ho letto con interesse le sue Sette tesi e, come da invito della LUHMI, le invio alcune mie osservazioni e obiezioni:

 

Tesi 1. Condivido la definizione (“neutra”, mi pare) del terrorismo come «arma». Permette di accantonare la demonizzazione del fenomeno. Andrebbero però esplicitate chiaramente le sue implicazioni. Ad esempio, quest’arma va condannata in assoluto o – come tutte le armi – va giudicata a seconda degli scopi per cui la si usa? (Mi pare che lei propenda per la seconda ipotesi, quando scrive «e come tale il suo uso va collocato all’interno di una strategia, o almeno di una tattica», ma non sono sicuro…).

Inoltre, se il terrorismo viene riconosciuto come un’arma e dunque come uno strumento in grado di ottenere alcuni effetti reali,la domanda etica e politica – onesta e ineludibile – da porsi è: oggi abbiamo o possiamo trovare in tempi stretti altre armi o strumenti capaci di ottenere effetti reali più decisivi e più positivi dell’uso che del terrorismo vanno facendo sia gli Usa e i suoi alleati sia le élite islamiche dissidenti dal cosiddetto “Islam moderato”?

E – successiva implicazione – gli uomini e le donne, che qui “da noi” desiderano ancora per tutti la libertà, la pace, la fine o la diminuzione delle diseguaglianze, che devono fare? Tentare di “impadronirsi” di quest’arma (come una volta si diceva della macchina repressiva dello Stato) e volgerla a fini migliori di quelli vaghi o anacronistici (per noi!) proposti dai “terroristi islamici”?Spingere gli Stati nazionali (o quel che resta dell’Europa) a sganciarsi dalla politica imperiale degli Usa? Sperare nelle «moltitudini»?

Non condivido invece, in questa tesi, l’affermazione «non mira a infliggere danni alle forze avversarie ma a disorientare l’opinione pubblica». Già questo risultato mi pare un danno. Si può pensare che l’azione terroristica non sia di per sé decisiva, che non elimini le forze a cui si contrappone, ma di sicuro le logora, le scompiglia e le costringe ad agire come prima non agivano.

La crisi dei riferimenti culturali e politici in Occidente è davvero devastante. E dentro questa crisi il “terrorismo islamico” ottiene effetti paralizzanti o logoranti insperati. L’apparato di dominio statunitense (in difficoltà) fronteggia questo disorientamento endogeno del mondo occidentale cancellando Stato di diritto e Onu e ignorando le istanze dei movimenti, cioè dichiarando (e praticando) una reazionaria «guerra al terrorismo», senza «cercare di comprendere chi lo usa e al servizio di quale strategia, senza chiarire democraticamente quale assetto si voglia costruire sulla sua sconfitta» ( per riprendere le sue parole). E senza capire – aggiungerei – che cos’è il “terrorismo islamico”. Ma quest’ultimo disorienta una parte dell’opinione pubblica occidentale, provoca l’incarognimento di un’altra sua parte e contemporaneamente orienta con forza (o condiziona pesantemente) quella che a livello mondiale fa riferimento all’Islam o ne è suggestionata.

 

Tesi 2. Pur apprezzando l’intento di dare spessore storico all’analisi del fenomeno, parlare di «terrorismo suicida» e di «terrorismo nel Ventunesimo secolo» mi pare una generalizzazione che elude il presente. Noi siamo di fronte ad un terrorismo che – cautamente virgolettando – dobbiamo chiamare «islamico». Perché i suoi portavoce all’Islam collegano le loro azioni terroristiche. E possono in un certo senso farlo (o tentare di farlo), poiché nell’Islam si possono ritrovare suggerimenti per una «guerra santa», come nella Bibbia la cultura cattolica o protestante ha potuto ritrovare e ritrova spinte per condurre «crociate» al servizio del «Dio degli eserciti».

Questo terrorismo può essere assimilato al «terrorismo moderno» (fascista? nazista?). Nasce davvero «nel crogiuolo ideologico del populismo russo» o ha solo delle somiglianze con quello?

Il fatto, poi, che «non necessariamente l’ideologia che conduce i singoli terroristi al suicidio è la stessa di chi li comanda» non mi pare una peculiarità del terrorismo: nel “vissuto ideologico” gli scarti tra élite e seguaci si ritrovano in tutte le istituzioni mirate a scopi religiosi o politici, anche in quelle più strutturate.

 

Tesi 3. Anche il fatto che «il terrorismo abbassa drasticamente il costo della partecipazione ai conflitti» non mi sembra una peculiarità del terrorismo odierno o del solo terrorismo: pure la guerriglia contro Napoleone o la lotta partigiana contro Hitler “abbassavano” i costi di “partecipazione”.

Mi chiedo anche se sia corretto parlare di «guerra terroristica». I “terroristi” non hanno un esercito, non hanno uno Stato. La guerra ha una sua tradizione abbastanza precisa (statuale appunto); e quella che oggi è stata proclamata dagli Usa e dai suoi alleati – variamente denominata (guerra «permanente», «asimmetrica», «per la democrazia», «umanitaria», «chirugica», «etica», «di civiltà» «contro il terrorismo») – presenta quantomeno aspetti sfuggenti e atipici.

Sembra di capire che le tradizionali distinzioni del pensiero politico moderno (fra guerra e pace, amico e nemico, combattente e non combattente, azione di guerra e azione criminale, elaborate da Clausewitz a Carl Schmitt) siano del tutto saltate; e quindi, con la crisi degli Stati-nazione che erano riusciti a «statalizzare» la guerra stabilendo regole nella sua conduzione, l’attuale «destatalizzazione» e «privatizzazione della guerra» ponga problemi inediti e non cervellotici di ridefinizione del nostro lessico e dei nostri concetti.

 

Tesi 4. «Questo modello, ormai ampiamente sperimentato nel sud del mondo, sembra ora in procinto di trasferirsi nel mondo sviluppato». Forse si è già trasferito; e da tempo, avendo alle spalle la lunga “tradizione” del colonialismo occidentale.

Nel numero 23 di Deriveapprodi, dedicato ai «movimenti postcoloniali» (giugno 2003), Mezzadra e Rahola ricordavano l’intuizione di Césaire, che nel 1955 invitava «a cogliere nel fascismo una forma di colonialismo abbattutati sull’Europa nel momento in cui sembravano esauriti i territori oltremare da conquistare». A me pare verosimile che lo scontro fra colonialismo e anticolonialismo abbia oltrepassato nel corso del Novecento i confini in cui si era invece svolto nei precedenti quattro secoli e che certi «dispositivi di dominio» sorti dall’esperienza coloniale si siano già infiltrati nello spazio metropolitano.

 

Tesi 5. «Prima di domandarsi come si possa sconfiggere il terrorismo, ci si deve chiedere che cosa vuol dire sconfiggerlo». Sì, ma bisognerebbe trovare anche una definizione convincente di cos’è il terrorismo (di cos’è questo terrorismo). Non mi pare che ci sia. Se ne può fare a meno?

Forse bisognerebbe capire meglio anche cosa di potenzialmente vitale e nuovo nella storia stava emergendo e viene distrutto o è in via di distruzione da parte di chi approfitta della «lotta al terrorismo» (come avvenne negli anni Settanta da noi).

Il “terrorismo” (preferisco sempre virgolettare la parola, anche se si restringe così il numero degli interlocutori…) è forse solo un sintomo deforme che accompagna la nascita di questo “nuovo” (e può anche farla abortire).

Nel caso poi delle Brigate Rosse, è vero che «lo Stato ha ristabilito il monopolio con tutti i mezzi e ha vinto», ma non si può trascurare che non ha convinto, come diceva già allora il buon Franco Fortini e come si è visto in seguito da Tangentopoli ai nostri giorni? Lo Stato ha “vinto”, ma cosa ha perduto della credibilità che ancora gli restava o gli resta? Per non parlare degli effetti di quella “vittoria” su noi, suoi “cittadini”.

Infine, osserverei – ulteriore prova delle nostre difficoltà – che i tre obiettivi inconciliabili tra loro che questa tesi indica possono essere compresenti (alla faccia della logica) nella linea politica dell’amministrazione USA proprio per l’inefficacia della cosidetta «seconda potenza mondiale» su cui, mentre Bush tirava dritto, molti hanno ricamato.

 

Tesi 6. A mio parere andrebbe chiarito di più che «il terrorismo è un’arma» per quasi tutti i soggetti qui indicati (coalizioni tra stati, grandi aziende, ecc.).

Su il manifesto del 5 ag. 2005, in un articolo intitolato Il genocidio accettabile, Fabrizio Tonello denuncia l’ipocrisia del due pesi, due misure che presiede all’aritmetica dei morti per ragioni storiche; e cita l’opinione di Michael Walzer del 1981: «Il bombardamento di Hiroshima fu un atto di terrorismo». Bene, anche l’attuale uso del terrorismo è fatta da due parti e non solo da una.

Dire che siamo, come la brechtiana Madre Courage, nuovamente (o da sempre?) tra due fuochi è deprimente. Non si vorrebbe ripetere «né con…né con…». Ma purtroppo credo che dobbiamo opporci ancora a due terrorismi, e non possiamo che scavare a fondo su entrambi, sulle loro complicità dirette o indirette, sul ruolo distorcente delle loro rispettive ideologie.

Non crediamo che le forze occidentali abbiano messo su la «guerra permanente» per difendere la «civiltà» (la “democrazia”) o la «sicurezza dei cittadini» (ma il sistema capitalistico). Ma non riconosciamo neppure alle forze che manovrano o si servono del «terrorismo suicida» (o anche di esso) che mirino davvero al ritorno all’Islam.

Su quale base teorica solida possiamo però costruire un’opposizione reale al doppio terrorismo del XXI secolo? Qui mi pare ci sia un buco nero da interrogare da tutti quelli che vogliono andare oltre il Novecento.

Il “terrorismo islamico” pone (non a Calderoli o a Pera, certo…) un problema “interculturale”: se anche la tradizione cattolica di fronte alla tirannide arrivò a riconoscere il valore del tirannicidio, contro l’attuale stato di cose in Medio Oriente (equivalente sicuramente a tirannide occidentale per molti arabi) perché non dovrebbe essere riconosciuto il valore etico e politico del «terrorismo suicida»?

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Replica finale

di Peppino Ortoleva

Firenze, 14 agosto 2005

Cari Pier Paolo [Poggio], Carlo [Tombola], Ennio [Abate],

vi ringrazio molto dei commenti, tutti problematici e ricchi di spunti come speravo, e mi scuso di rispondere in ritardo, […]

 

Limiti e finalità delle tesi

Prima di entrare nel merito delle singole osservazioni, credo che sia utile, anche per sgombrare il campo, chiarire quali sono gli intenti (limitati) delle mie tesi, ed esplicitare meglio il mio punto di vista. Come tutti avete notato, sono partito da osservazioni volutamente ristrette ed empiriche. Il mio fine iniziale era infatti dissolvere un po’ del polverone che, non solo da destra, si è venuto addensando attorno al “terrorismo” almeno dal 2001 in qua. Per questo ho voluto sottolineare che “terrorismo” non è un’entità politica in sè; che il terrorismo non semplifica il quadro dei contendenti ma al contrario agisce come moltiplicatore (seppure possa in alcune fasi compattare uno schieramento “avverso”, ma io credo si tratti di processi di durata relativamente breve); che il rapporto tra l’ondata terroristica attuale e l’Islam non è di corrispondenza assoluta, ecc. Credo in realtà che su queste ipotesi siamo tutti abbastanza d’accordo, ma è bene intendersi anche sui particolari.

Ho scelto uno sguardo “neutro” sia al fine di cercare terreni comuni anche con chi non la pensa come me, soprattutto, al fine di fare un’operazione di pulizia mentale; le vostre osservazioni vanno tutte nel senso dell’arricchimento e della problematizzazione e questo va benissimo, ma credo sia utile man mano che lo si fa sottoporsi sempre a uno sforzo di pulizia mentale, per ritrovare un significato condivisibile delle parole e per distinguere i dati evidenti, le ipotesi interpretative, i presupposti impliciti.

 

Terrorismo e terrore di stato

Ci tengo a distinguere il terrorismo da altre forme di terrore. Il terrorismo è caratterizzato:

  • dalla nettissima distinzione tra le attività preparatorie, che devono essere massimamente invisibili, e i risultati, che devono essere assolutamente visibili;
  • dall’organizzazione per nuclei piccoli e piccolissimi, in generale fortemente gerarchici (ma non sempre: esistono anche terrorismi spontaneisti);
  • dal significato simbolico più che propriamente militare delle azioni; questo non significa certo che non infliggano danno, per rispondere a Ennio, solo che questo danno è misurabile in generale in termini politici più che tecnico-operativi.

Gli stati (ormai, temo, tutti gli stati) hanno fatto e fanno ricorso a forme di terrorismo in senso stretto, arruolando o manovrando gruppi clandestini per lanciare messaggi simbolici a conferma del proprio potere o a destabilizzazione di quelli altrui. Il Terrore di cui parla Pier Paolo però può avere forme molto diverse: pubbliche e ostentative e anche a carattere propriamente militari. Il massimo esempio di terrore di stato dell’ultimo trentennio, quello argentino, ha messo concretamente fine manu militari ai movimenti di protesta e anche alle forme di terrorismo che qualcuno di questi praticava, e lo ha fatto usando mezzi in parte pubblici in parte semiclandestini. Sul piano etico lo considero nettamente peggiore di tutto ciò che diceva di contrastare (anche se le mie riserve sulla vicenda dei Montoneros restano molto dure); sul piano definitorio mi pare si debba mantenere la distinzione.

Sempre restando all’osservazione di Pier Paolo, non credo che tra terrorismo e terrore di stato ci sia un nesso necessario: esistono molti stati “terroristi” che non hanno prodotto un terrorismo di risposta; esistono molti terrorismi nati in stati relativamente democratici. Il terrorismo favorisce certo una caduta generale delle libertà, e ne può essere favorito, ma le dinamiche dei due fenomeni sono in parte autonome.

Il caso più evidente, forse, di spirale tra terrore di stato e terrorismo è quello ceceno: ci troviamo qui però di fronte a un esempio estremo di fascistizzazione strisciante di un apparato politico (quello russo), e non escludo che Putin manovri in parte anche il fronte “avversario”.

 

Il giudizio etico sul terrorismo

Mi accorgo comunque che un tema circola in tutte le risposte che ho ricevuto, tema da cui mi ero volutamente tenuto lontano nelle mie tesi. Quale giudizio etico diamo sul terrorismo? Il problema è posto con particolare lucidità, mi pare, nell’ultima parte del ragionamento di Pier Paolo: si può uscire dal dilemma secco tra adesione alle pratiche terroristiche e pacifismo integrale?

Credo giusto per chiarezza enunciare qui la mia posizione, anche se penso che molto di quanto detto nelle tesi sia accettabile anche per chi ha posizioni parzialmente diverse.

Credo in generale che sul problema della violenza si debba e si possa dare una risposta solo apparentemente “giuridica”. L’uso della violenza non è giustificato, fino a prova contraria. La prova contraria sta nel dimostrare che la violenza serve davvero a evitare un male maggiore, e che le sue conseguenze di medio e lungo periodo sono state prese in considerazione. A chi va data tale prova? Prima di tutto, a coloro da cui si chiede la partecipazione, o l’appoggio, alla violenza stessa, o quanto meno a coloro nel nome dei quali si dichiara di agire.

Do questa risposta proprio a partire dalla convinzione che sia interesse supremo della collettività nel suo insieme salvaguardare la persistenza e la fecondità dei conflitti sociali, culturali, etici. La violenza, in generale, tende a sterilizzarli irrigidendoli, impedendo che allo scontro si affianchi lo scambio di punti di vista, fissandone i termini in modo cristallizzato e pregiudiziale. La nonviolenza generale-astratta finisce sempre con il preferire la rinuncia a priori al conflitto rispetto al rischio di una sua “degenerazione”, e in tal modo finisce con l’assumere una logica terapeutica, degradando il conflitto a disagio. Diverso è il caso dei mediatori come Galtung (ma a volte fanno discretamente il loro mestiere anche Sant’Egidio e perfino Jimmy Carter, e comunque ben venga chi ci prova seriamente): queste mediazioni non negano il conflitto ma cercano di mantenerne la fecondità senza permettergli di irrigidirsi o di lasciare solo distruzione.

La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo . In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza. Il fatto che gran parte dei terroristi agisca in buona fede è, da questo punto, di vista sostanzialmente irrilevante, al di là della “comprensione umana” che per principio non nego a nessuno, neppure ai nazisti, anche perché se non provo a capirli non potrò neppure combatterli.

Il terrorista agisce o a fini di giustizia, in un atto che si pensa possa esaurirsi in se stesso (compensando il male con il male) oppure a fini politici. Nei fatti le due logiche sono quasi sempre intrecciate, ma è bene distinguerle concettualmente. Il terrorista a fini di giustizia agisce in generale secondo un’etica della convinzione, si autonomina giudice e boia. La risposta a chi pretende di agire così per “il bene” può essere solo Not in my name. Il terrorista a fini politici vuole modificare l’andamento della storia. E’ del terrorismo a fini politici che ci stiamo occupando, ed è dal punto di vista della storia, cioè delle conseguenze, che deve essere giudicato.

In astratto il suo uso può essere in qualche caso giustificato. Credo però che non lo sia concretamente mai, perché l’uso di quest’arma porta con sé, “oggettivamente”, alcune conseguenze sempre catastrofiche:

a. la separazione netta tra coloro che agiscono e coloro nel cui nome parlano è un’esasperazione dei peggiori difetti dei sistemi rappresentativi, e rende sostanzialmente impossibile quel processo di riflessione sulla giustificatezza o meno della violenza che ho indicato prima come necessaria in tutti i casi. Ancora una volta, not in my name;

b. il ricorso al terrore taglia i ponti. Salvo nei casi di effettive mobilitazioni collettive (come credo avvenga in Cecenia e in alcune altre aree del mondo islamico) taglia quelli tra il terrorista e l’universo pacifico da cui proviene, cosa scientificamente calcolata ad esempio dalle BR (e superata dalla politica del pentitismo e poi del dissociazionismo). Soprattutto, taglia i ponti fra le parti in conflitto; crea volutamente un muro di odio tra il bersaglio e gli esecutori, odio che il terrorismo cerca di estendere anche verso coloro nel cui nome dichiara di agire; in questo modo, i conflitti prendono sempre la via dell’irrigidimento e dell’isterilimento, e i processi di superamento e sintesi vengono sistematicamente fatti saltare (questa è una delle finalità principali, del resto, di gran parte dei terrorismi nel sud del mondo);

c. credo soprattutto che la conseguenza più grave e difficilmente superabile del terrorismo siano i terroristi. Sono rarissimi, anche se per fortuna non mancano, i casi di ex-terroristi che hanno saputo successivamente recuperare capacità politiche di mediazione, di rispetto per i propri “rappresentati” e per gli avversari, di adattamento ai cambiamenti. E’ successo solo però (che io ricordi) in casi come i paesi liberati dal nazismo o il sud Africa di Mandela, nei quali la fine delle ostilità è stata accompagnata da un grande processo collettivo di ripensamento e rifondazione politica. Altrimenti i terroristi che diventano ceto politico sono sempre portatori di nuovi orrori: doppi e tripli stati, forme spaventose di peculato sempre giustificate con presunte esigenze di sicurezza contro i rischi possibili, incapacità di superare pregiudizi e vecchie ostilità. Un giudizio che riguarda Shamir come Arafat, tanto per essere chiari.

Sempre per essere chiari, assolutamente vero che con le BR lo stato ha vinto ma non ha convinto, ma le responsabilità di quello che è venuto dopo sono delle BR ancora più che dello stato; e comunque se avessero “vinto” loro non vedo chi mai avrebbero potuto convincere. Il terrorismo italiano degli anni Settanta è per me una pagina puramente nera, da cui non c’è da salvare nulla, tanto meno le analisi. Che i loro nemici si siano comportati quasi allo stesso livello non migliora in nulla il mio giudizio. Anzi.

Credo che definendo il terrorismo “tatticamente efficace ma strategicamente perdente” Pier Paolo dica sinteticamente una cosa sostanzialmente non dissimile da quelle che ho cercato di sostenere: solo che per me la distinzione non è solo tra tattica e strategia ma anche tra atto in sè e conseguenze, e ha in quanto tale implicazioni etiche.

 

Alcune questioni generali: lo stato nazionale, il terrorismo, i poteri economici

C’è un problema che torna in tutte le osservazioni: quali i rapporti fra terrorismo, stato nazionale, poteri economici? Carlo dice giustamente che da un lato l’orizzonte nazionale resta forte e in parte vincolante, dall’altro la “rifeudalizzazione” impone una sfida a tutti i soggetti: gli stati occidentali finora l’hanno in parte saputa accogliere ma le questioni restano aperte e il terrorismo rischia di agire a favore di alcuni dei soggetti più aggressivi, dallo stato americano a gruppi economici agguerriti (e non dimentichiamo le mafie, che sulla rifeudalizzazione puntano pesantemente). Pier Paolo, lo ricordavo prima, pone il problema della militarizzazione dello stato anche in risposta al terrorismo.

Il problema si collega anche a quello posto da Ennio con l’acuto riferimento alla tesi di Césaire sul colonialismo: in realtà, l’applicazione delle logiche coloniali all’Europa stessa era già teorizzata dai militaristi tedeschi ben prima del nazismo: “ l’Ucraìna sarà la nostra Africa” era uno degli slogan guida della guerra alla Russia nel ’14-18, e l’ansia di conquista delle potenze anticomuniste è stata uno dei principali motori delle armate “bianche” nella guerra civile russa. Ed è vero che gli stati occidentali post-coloniali hanno interiorizzato modelli di potere e di ordine potenzialmente totalitari, il cui uso non può mai essere considerato escluso a priori.

Tra parentesi. Chiarisco qui che parlando dei modelli sperimentati nel sud del mondo non mi riferivo alla fase coloniale e alla decolonizzazione vera e propria, ma ai processi successivi al 1980, ai conflitti catastrofici e interminabili in Rwanda, Algeria, Zaire ecc. Sottolineo anche che, in termini geopolitici, per me il colonialismo esiste nella discontinuità territoriale e in genere nel controllo di rotte marittime, mentre gli imperi territoriali (a cominciare da quelli russo, ottomano, austroungarico) presentavano caratteristiche profondamente differenti. Tra l’altro, non casualmente l’uso del terrorismo è stato caratteristico di questi ultimi (e di un singolare caso di colonia d’oltremare di popolamento, l’Algeria) con strascichi che durano tutt’ora (sulle relazioni tra le vicende del terrorismo algerino di guerra e la tragica deriva attuale consiglio di leggere i romanzi di Yasmina Khadra, in particolare l’ultimo). Negli imperi territoriali l’occupazione porta con sé in generale la negazione di ogni identità autonoma, e il terrorismo si presenta di frequente come una risposta, disperata quanto orgogliosa, alla negazione.

Ma il problema sollevato da Ennio è più ampio: esistono dispositivi di dominio di tipo coloniale attivi nello spazio metropolitano?

E’ indubbio, mi pare (e come sottolineo nelle tesi il terrorismo ne è concausa, ma anche e soprattutto sintomo) che ci troviamo di fronte a una complessa fase di passaggio del sistema delle istituzioni politiche, e che il declino del monopolio della forza è incomprensibile se non se ne tiene conto. Molti fattori contribuiscono, ed è bene tenerli distinti pur nel leggerne la convergenza.

Il primo è il rievidenziarsi del carattere artificioso del modello classico di stato nazionale, imposto congiuntamente dalla fine del “tappo” totalitario russo-titino in Europa orientale (che ha evidenziato come in quell’area del mondo l’idea di una corrispondenza tra frontiere etniche e identità restasse irrisolvibile come lo era un secolo fa); dai processi di crescita delle economie asiatiche, con i loro apparati statali solo fragilmente legati all’idea di nazione e tendenti, quando lo sono, a forme di imperialismo per noi in parte arcaiche (avete visto Hero?); dai problemi irrisolti in particolare del mondo arabo, sempre oscillante tra le identità nazionali post-coloniali, le identità religiose e gli odi conseguenti (anche se in questo caso come per la ex-Jugoslavia va evitato l’errore di cadere nel mito degli odi “atavici”, perché la loro politicizzazione è recente e fortemente sostenuta dal terrore, di stato e non), e il mito panarabistico per il quale, al di là del rispetto che nutro per l’Islàm, è utile rileggere quello che scriveva Arendt sui pan-movimenti europei del primo Novecento. Se la corrispondenza tra Stato e nazione nonostante il lungo lavoro prodotto prima dalle nazionalizzazioni delle masse poi in maniera più sottile dal welfare state non funziona più come luogo comune condiviso, è normale che si assista da un lato a spinte centrifughe e ricerche di identità diverse, arcaiche o meno, dall’altro a tentativi di rilanciare il nazionalismo con toni neo-imperialistici, riprendendo cioè “in patria” modelli di origine coloniale.

Lo stato nazionale resta comunque un orizzonte imprescindibile, e questo è evidente in particolare nelle crisi della ex-Jugoslavia e in quella che oggi è la più pericolosa di tutte, la situazione della Russia e delle repubbliche post-sovietiche. Il mio superficialissimo viaggio in Uzbekistan della scorsa primavera me lo ha dimostrato in modo evidente. Il ricorso al terrorismo da parte di chi vuole dare visibilità e forza alle identità neo-nazionalistiche, il ricorso al terrore di stato ma anche massicciamente al terrorismo vero e proprio da parte dei gruppi dirigenti che difendono la vecchia forma-stato, le “guerre di civiltà”, si legano tutte a questi processi.

Esiste però un’altra tendenza, distinta ma fortemente convergente. La crisi del welfare stateha delegittimato lo stato nazionale non solo in quanto nazionale ma anche in quanto suprema istituzione garante nei confronti della popolazione. Quella che Carlo chiama rifeudalizzazione, termine che mi fa un po’ paura per il rischio di eccessivi condizionamenti impliciti ma che accetto per ora, nasce a sua volta da almeno tre processi:

-uno è la cosiddetta globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni, che incide sulla stessa giurisdizione dei singoli stati, e che inoltre (come aveva chiarito già tempo fa Saskia Sassen) crea poteri locali inediti in capo ad alcune aree geografiche (le città “globali” che hanno un’economia diversa e spesso di dimensioni paragonabili, rispetto a quella degli stati a cui appartengono);

uno è il ritirarsi dello stato da aree d’intervento in precedenza sue proprie, processo che negli USA favorisce semplicemente appetiti e spazi delle grandi compagnie, in Europa sta portando con sé fenomeni più complicati legati alle privatizzazioni e ai nuovi intrecci politica-economia;

– non dimentichiamo la tendenza della criminalità organizzata a cercarsi propri punti di riferimento politici, in oggettiva convergenza con la ricerca di paradisi da parte del grande capitale internazionale.

Tutto questo non porta a un nuovo ordine, e neppure banalmente al caos, ma a un sistema instabile dove non solo agiscono più soggetti, ma uno stesso soggetto agisce quasi inevitabilmente in una pluralità di vesti, alcune pubbliche altre inevitabilmente nascoste e quindi oggettivamente colludenti con altre forze segrete, incluse le formazioni terroristiche. Molti dei misteri dei rapporti tra i Bush e i bin-Laden (non penso solo al film di Moore ma anche e soprattutto all’ultimo libro di Laurent) sono comprensibili solo se si tiene conto del fatto che, in questo caso, i Bush agiscono come perno del vertice del potere statale USA e come famiglia legata a una coalizione internazionale di interessi della quale ben poco è pubblico. Dall’altro capo del mondo, Nazarbayev è il Kazakhstan ma è anche uno degli uomini più ricchi del mondo in proprio; per ora le due condizioni cooperano bene, in altri momenti possono dar luogo a conflitti e riequilibri.

Di questo moltiplicarsi non solo di soggetti ma di ruoli e di sistemi di potere il terrorismo è una componente, e come tale viene usato da tutti: per fare saltare equilibri sgraditi, per lanciare avvertimenti, per rafforzare i poteri esistenti, per segnalare l’emergere di nuovi. I soggetti “ufficiali” non possono però usarlo ufficialmente, e hanno anzi tutto l’interesse a presentarlo in pubblico come un nemico generale e generico. Salvo colludere su terreni meno visibili.

Siamo in sostanza di fronte a una “guerra di movimento” dai contorni ancora sfuggenti anche perché le alleanze sono provvisorie e gli accordi sono tutti rovesciabili rapidamente; tra l’altro, come è normale nelle mafie, questa situazione finisce con l’affidare comunque alla violenza o alla sua minaccia il compito di ultima soluzione.

Pensare un ordine politico democratico che subentri al modello stato-nazione, ma anche al caos attuale e all’espropriazione che comporta di ogni libertà di scelta delle masse, è la sola risposta adeguata che la sinistra possa dare a questa sfida. Ma ne siamo lontanissimi, anche perché il ceto politico della sinistra, non solo in Italia, è stato risucchiato esso stesso dalla lunga crisi del welfare state diventando totalmente autoreferente, e i movimenti di opinione hanno subito una deriva eticistica che finisce con l’essere anch’essa totalmente autoreferenziale. Mi dispiace, ma la vedo nera per ora, e credo che anche Ennio parlando della crisi di tutti i riferimenti culturali in occidente si riferisca sostanzialmente a questo.

 

Terrorismo e religiosità

Devo dire che le osservazioni a questo proposito sono state le più stimolanti. Nichilismo o religiosità? Il terrorismo islamico è assimilabile ad altri modelli passati, da quelli del populismo russo a quelli dell’Europa delle guerre mondiali e del lungo dopoguerra?

E’ vero che lo Stavrogin’ dei Demoni è il prototipo dostoevskijano del nichilismo, ma quando Alioscia Karamazov pronuncia la frase “Se Dio non esiste tutto è permesso” se non ricordo male si riferisce a un problema più generale: l’impossibilità di un’etica condivisa, e quindi di un diritto condiviso, senza una comune religiosità. Il populismo russo nella sua anima dominante non era in realtà nichilista (anche se il nichilismo, pure il nichilismo, emerse nel suo seno): lo animava proprio al contrario l’ansia di Alioscia, e la ricerca nel popolo di un principio unificante di tipo quasi-religioso, non compromesso con il potere come la gerarchia ortodossa: di qui l’enorme fascinazione per i mistici, i vecchi credenti, i pazzi di Dio e tutte le tradizioni popolari minoritarie. In generale, i terrorismi che non nascono da finalità puramente strumentali sono guidati da un’aspirazione alla piena coincidenza di etica e politica (come potrebbero altrimenti giustificare le loro scelte di rischio e di martirio?), e dalla fede in una possibile comunità di spiriti, inizialmente riservata agli eletti ma capace di proporsi come modello: questo è vero per il populismo come per il terrorismo post-sessantottino, in particolare per i Weatherman [*] ma anche mutatis mutandis per le BR. Il nichilismo è l’altra faccia del problema: il buio apocalittico che si apre nel momento in cui il disegno fallisse, come il terrorista teme sempre possa fallire, e allora il martirio diventa pura testimonianza negativa. E’ il fiat iustitia, pereat mundus che diventa l’unica giustizia è la fine di questo mondo. E’ la dialettica di Bakunin e Nec’aev, ma anche dello stesso Bakunin all’interno del suo pensiero; ed è un filo che corre fino al terrorismo islamico, guidato dalla fede ma anche dalla disperazione per il crollo di un universo idealizzato e mai esistito nel quale etica e politica sono letteralmente inscindibili sotto il segno del Libro.

Solo che il nichilismo nel frattempo ha vinto, sicuramente in occidente ma non solo: ha vinto nella forma più sottile e in fondo più drastica, non come ateismo, ma come politeismo dei valori. Se un Dio comune e riconosciuto in tutti gli aspetti dell’esistenza non esiste, tutto è permesso a cominciare dal crearsi una religiosità di bricolage, fatta in parte di credenze in parte di abitudini, incurante delle contraddizioni interne: questa è oggi la realtà dominante in occidente (“il problema degli atei non è che non credono a niente, diceva Chesterton, è che credono a tutto”) che si sta diffondendo nel pianeta. All’opposizione religione-nichilismo si sostituisce una vastissima area di semi-religiosità, con la quale le grandi religioni stabiliscono rapporti complessi. Da un lato la temono moltissimo, perché sanno di venirne corrose dall’interno: Ratzinger in questo è molto esplicito. Dall’altro lato però devono venirci continuamente a patti, pena altrimenti l’accettare uno status totalmente minoritario. Il neofondamentalismo americano contiene molti più elementi new age di quanto si tenda a pensare, basta vedere alcune inchieste recenti; e io credo che una parte consistente dell’universo giovanile islamico che ha dato reclute al terrorismo sia meno tradizionalista, più da make it yourself religion (per riprendere l’espressione di Bellah e del suo gruppo) di quanto tendiamo a pensare. Le scelte estreme, in questo contesto, sono un po’ come la diffusione delle pratiche sadomaso in campo erotico: l’aggiunta di una componente di sfida irreversibile che compensa la fragilità del movente di base.

Questo è il filo che corre, nonostante tutte le differenze, dal terrorismo dei giovani islamici londinesi a quello dei gruppi ecologisti e anarchici.

Ma il punto è che le motivazioni di chi è reclutato non sono necessariamente le stesse di quelle di chi lo recluta (che in molti casi può essere un clero autenticamente tradizionalista) e tutte e due possono restare nettamente diverse rispetto alle scelte di chi sta dietro all’insieme, che può benissimo avere motivazioni puramente strumentali e finalizzare il reclutamento “religioso” alla politica di un gruppo di interessi. E’ anche per questo che il terrorismo va combattuto, per salvare le vittime di possibili e terrificanti inganni, oltre che le loro vittime.

Basta, so di non avere risposto su tutti i punti ma spero di avere chiarito alcuni elementi essenziali, e spero che la discussione continui

Un abbraccio

Peppino


Nota
* La Weather Underground Organization (WUO), nota come Weatherman, the Weathermen o Weather Underground, fu un’organizzazione della sinistra radicalestatunitense fondata nel 1969 nel campus di Ann Arbor dell’Università del Michigan. (da Wikipedia)

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