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roars

Settis, Serianni e la catastrofe della scuola

di Marino Badiale, Università di Torino; Fausto Di Biase, Università di Chieti-Pescara; Paolo Di Remigio, Liceo Classico di Teramo; Lorella Pistocchi, Scuola Media di Villa Vomano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

scuola sfasciataL’eliminazione della tradizionale traccia di storia dalla prima prova dell’esame di Stato ha sollecitato alcuni intellettuali a pubblicare sul quotidiano ‘Repubblica’ un appello preoccupato per la decadenza della cultura storica in Italia[1]. Ne è seguita un’audizione alla Commissione Istruzione Pubblica – Beni Culturali del Senato[2], nella quale il prof. Settis, sulla base dell’etica implicita nella Costituzione, ha pronunciato un’appassionata apologia degli studi storici come pilastri della sovranità della nazione e della libertà del cittadino, e il prof. Serianni, responsabile dell’ultima versione della prima prova dell’esame di Stato e quindi chiamato direttamente in causa dall’appello, ha smentito che la nuova formula dell’esame emarginasse la storia, sostenendo, al contrario, che ‘la storia è e resta fondamentale come dimensione culturale e anche come elemento di verifica di competenze e conoscenze degli studenti arrivati alla fine’, che ‘la storia, proprio come dimensione che innerva tutti gli altri saperi, è largamente presente’, anzi è addirittura ‘privilegiata’.

Il prof. Serianni, preoccupato soprattutto di difendere il nuovo esame di Stato e di assumere un atteggiamento complessivamente rassicurante, è molto lontano dal rilevare che il cambiamento subito dalla scuola italiana negli ultimi venti anni vi ha posto la cultura storica, come pure la cultura in generale, in una posizione di estrema precarietà; non evita però di menzionare due ‘criticità’: la prima che nel biennio degli istituti professionali l’insegnamento della storia è ridotto a un’ora alla settimana, la seconda che in futuro esso potrebbe essere ridotto in tutte le scuole affinché vi abbia spazio la nuova disciplina ‘Cittadinanza e Costituzione’, che il Parlamento non potrà non approvare(non si capisce se per deliberazione dello stesso prof. Serianni)[3]. Non emerge dal suo intervento, e invero neanche dagli altri, che queste ‘criticità’ sono gli ultimi episodi di una lunga vicenda di ostilità, i cui precedenti risalgono alla riforma Moratti del 2003 e alla riforma Gelmini del 2010. Mettendo fine alla tradizione che alle elementari affidava una prima esposizione di tutta la storia e alle medie una sua più approfondita riesposizione, la prima riformatrice destinò a quelle la storia dalle origini fino alla tarda antichità e a queste la storia dalla tarda antichità fino al presente, eliminò cioè la sua ripetizione, come se i bambini memorizzassero le conoscenze con un facile clic sul comando ‘Salva’; distribuì inoltre gli argomenti in modo che il tempo concesso alla terza elementare fosse dilapidato a favoleggiare dei dinosauri.

In seguito l’altra riformatrice diminuì di una o due unità le ore dedicate alla storia nel biennio dei licei e le accorpò alla geografia nel pasticcio della geostoria, a cui dobbiamo l’attuale estraneità degli alunni alle minime nozioni dell’una e dell’altra disciplina; inoltre diminuì di una unità il monte ore di storia dell’ultimo anno del liceo scientifico. Per avere un quadro realistico della situazione attuale, è infine opportuno considerare che questi atti legislativi, essendo percepiti come manifestazioni particolari di una tensione istituzionale a ridurre le fatiche dell’acquisizione della cultura storica, hanno indotto tra i docenti un atteggiamento rinunciatario destinato ad amplificare e a rendere irreparabili i danni provocati dalla semplice decurtazione delle ore.

Il tono serafico dell’intervento del prof. Serianni porta con sé due pericoli: relega nell’oblio un ventennio di umiliazioni della cultura storica; rende poco avvertibile la contraddizione implicita nel sostenere che una disciplina in corso di atrofizzazione, ‘innervi’ l’intera didattica, anzi vi sia addirittura privilegiata. La condizione della scuola italiana è però così catastrofica che perfino gli allarmi per problemi particolari, risparmiando la considerazione generale, rischiano di diffondere la stessa aria di ingiustificabile rassicurazione delle apologie dirette. Così anche l’appello per la salvezza della cultura storica di Segre, Camilleri e Giardina, nel denunciare la scomparsa del tema di storia, acquisisce contro le sue intenzioni un pericoloso tono rassicurante; esso presuppone infatti la fiducia che, dopo un ventennio di rimaneggiamenti, sotto la sigla ‘esame di Stato’ ci sia ancora qualcosa di sostanziale; esso può nascere cioè soltanto dall’ignorare la sua riduzione a una farsa durante la quale i commissari, invitati a valorizzare ogni espressione dei candidati, minacciati dai ricorsi dei loro genitori in caso di esiti severi, rinunciano a rilevare le lacune, gli errori e le assurdità nelle prove e si sforzano soltanto di inventare pretesti per regalare punti, dopo che i consigli di classe hanno spesso aumentato i voti per la mera esigenza di superare le soglie numeriche fissate dalle norme sui crediti scolastici.

Il prof. Settis intuisce qualcosa della catastrofe della scuola italiana: egli vede ‘in corso in tutto il mondo una sorda lotta fra due concezioni dell’istruzione: come segmentato addestramento ai singoli mestieri, fondato sulle competenze; o invece come apprendimento di un orizzonte di conoscenza puntato sulla creatività individuale e collettiva”. Nella fase finale dell’audizione sembra però esprimere il convincimento che la lotta volga ormai alla fine e che la conoscenza prevalga sul suo avversario, che la scuola italiana, in quanto frutto delle riforme di Croce e Gentile, resti dunque la migliore al mondo e che il nostro peggiore istituto professionale resti migliore della migliore scuola pubblica statunitense. Se sapesse quanti nostri licei, dopo un ventennio di tenaci riforme fondate sull’ideale esplicito dell’addestramento segmentato, siano diventati indistinguibili dai peggiori istituti professionali, il professore non proferirebbe simili valutazioni. Poiché i pochi difensori della conoscenza teorica, come Massimo Bontempelli, Giorgio Israel, Lucio Russo, sono stati subito tacciati di essere dei retrogradi incapaci di far fronte alle ‘nuove sfide’ del presente e privati di influenza, tra competenze e conoscenza non c’è mai stata vera lotta; la sua esistenza, anzi la sua flagranza, è un mito che sopravvive per un motivo strumentale, in quanto consente ai riformatori di imputare l’attuale catastrofe dell’istruzione, anziché all’attuarsi della loro iniziativa, a immaginari residui della didattica, come usano dire, ‘trasmissiva’.

L’opinione in sé giusta del prof. Settis che la scarsa popolarità del tema storico non doveva indurre alla rassegnazione il legislatore tenuto a ispirarsi alla Costituzione, ma doveva sollecitarlo a reagire, rischia innanzitutto di sfumare come semplice rassegnazione una precisa, anzi vantata responsabilità, ma soprattutto si nutre della fiducia che la Costituzione sia restata un rocher de bronze proprio in questi anni in cui, assoggettata a una legislazione come quella della UE in forte contrasto con il suo impianto ideale, non poteva opporre argine a nessuna esondazione, tanto meno a quella che ha sommerso la cultura storica. Proprio perché assoggettata alla legislazione della UE, la Costituzione non ha potuto difendere la scuola italiana quando la riforma l’ha trasformata in scuola europea, quando cioè essa è stata sganciata dallo Stato e agganciata agli organismi internazionali in un processo che ha preso il falso nome di attuazione dell’autonomia scolastica dalla finzione di un suo problematico collegamento alle realtà locali. Proprio dall’autonomia deriva la stessa regionalizzazione del sistema scolastico che il prof. Settis paventa e accusa di anticostituzionalità. La trasformazione, spacciata per progresso, è consistita propriamente nel diffamare l’alto livello di preparazione teorica garantito dalla scuola italiana e nell’imporre un’istruzione senza fatica dell’apprendere, gestita non più da docenti, ma da animatori, orientata alle abilità professionali, sul modello fallimentare e profondamente classista della scuola anglosassone. Così la decadenza della cultura storica si rivela essere un momento particolare della decadenza delle istituzioni e della politica italiana.

La forma stessa della nuova scuola rende impossibile lo studio della storia. Essa è scienza dell’individuale: non solo argomentazione, ma anche narrazione, quindi sforzo di memoria; ma la scuola delle competenze è orientata alla leggerezza, abolisce il racconto e atrofizza la memoria – come lo stesso prof. Serianni riconosce con il suo breve omaggio alla ‘Vispa Teresa’. Che poi l’atrofia della memoria indebolisca il senso di cittadinanza, questa conseguenza, che angoscia il prof. Settis, è un fine tenacemente perseguito dai fautori della nuova scuola. Essi lavorano infatti alla dissoluzione della cittadinanza italiana e alla formazione della cittadinanza europea. Poiché è stato alimentato non solo dagli europeisti, ma da ben più influenti élite neoliberali, questo cambiamento non ha un significato formale, non consiste nel sostituire la lealtà all’Italia con la lealtà alla UE, che è una compagine sui generis e non uno Stato; ma ha un significato sostanziale: la cittadinanza garantita dalla Costituzione italiana contiene il diritto al lavoro, quella garantita dall’Unione Europea contiene invece il diritto alla stabilità dei prezzi, compensato, per così dire, dal diritto delle persone alla mobilità. Così la nuova scuola, in quanto scuola europea, non mira né a educare il cittadino né ad addestrare il lavoratore; il suo vagabondare tra disperate improvvisazioni dimostra che le è affidato il compito esclusivo di adattare il disoccupato all’emigrazione. E poiché l’esercizio del ‘diritto’ a emigrare non postula affatto la pietà per il passato, che potrebbe intensificare la nostalgia, ma l’urgenza di masticare le lingue straniere, ecco che proprio la storia e le materie storiche non soltanto sono ghermite dalla furia dell’evanescenza, ma perdono l’inviolabilità dei confini e diventano campo di applicazione preferito della metodologia CLIL, devono essere cioè insegnate in lingua straniera: soprattutto ai docenti di queste materie, quantunque monoglotti non meno degli altri, è richiesto di insegnare ex abrupto in inglese, con il risultato che mentre non favoriscono i progressi linguistici degli alunni, sono ancora una volta costretti a ridimensionare i propri obiettivi.

Tutta l’articolazione della nuova scuola congiura all’estinzione della cultura storica. È evidente che possono svolgere il tema di storia solo gli alunni i cui docenti hanno completato il programma; questa espressione suona però come una blasfemia nella nuova scuola, che vuole dare competenze senza conoscenza. Per amore di quelle, i dirigenti scolastici, attenti a turbare con qualunque pretesto la regolarità delle lezioni, tenuti a premiare solo chi innova e sperimenta, restano indifferenti all’umile esigenza del completamento dei programmi, anzi, se questo obiettivo può far sembrare il loro istituto non abbastanza à la page, le sono proprio ostili. È irrilevante dunque che il programma di storia si interrompa a Mazzini, alla prima o alla seconda guerra mondiale o che svolazzi qua e là a capriccio – contano solo le competenze storiche. Se poi il tema di storia assegnato all’esame di Stato è tratto regolarmente dal secondo Novecento, ciò non solo testimonia la confusione del MIUR che come Arlecchino porta gli ordini sotto un braccio e sotto l’altro i contrordini, ma è anche utile a dare una parvenza di normalità alla situazione della scuola, a fingere che l’animazione non abbia sostituito l’insegnamento, che il gioco non abbia bandito l’apprendimento, ma vi si sia aggiunto, l’abbia arricchito.

C’è un’ultima difficoltà nello studio della storia, di ordine più generale: nulla è più artificialmente oscuro della storia del Novecento. L’abitudine ereditata dalla guerra fredda di rappresentare con accenti rassicuranti l’egemonia anglosassone impedisce ai manuali in vendita di esporre con franchezza le guerre orientali e arabe, i regimi in America Latina; la stessa storia della repubblica italiana, avviluppata nell’intreccio tra le istituzioni democratiche sovrane da un lato, le organizzazioni segrete eterodirette dall’altro, si risolve in un esercizio di disprezzo dell’Italia; l’ignoranza a volte imbarazzante delle nozioni macroeconomiche più elementari impedisce ogni intelligenza della causalità profonda degli avvenimenti. Si tratta di un’altra espressione di quella estraneità di tanta cultura italiana alla realtà di cui la stessa audizione al Senato reca non poche tracce e che non potrà essere superata se non con un doloroso sforzo collettivo di illuminazione.


Qui il testo dell’audizione del prof. Settis in VII Commissione Permanente del Senato.

Note
[1] Cfr.: https://www.repubblica.it/robinson/2019/04/25/news/la_storia_e_un_bene_comune_salviamola-224857998/
[2] Cfr.: http://webtv.senato.it/4621?video_evento=1345#
[3] Un contegno tecnocratico, quello del prof. Serianni, che degrada il Parlamento della Repubblica a un organo di ratifica di decisioni prese altrove.

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Francesco Zucconi
Tuesday, 06 August 2019 01:36
Intervento a mio avviso di livello eccezionale e che meriterebbe di esser diffuso il più possibile.
L'indebolimento del concetto di
cittadinanza italiana, a favore
di una fin troppo concreta,
nei suoi effetti nefasti, cittadinanza europea è,
purtroppo, uno dei tanti favori che la sinistra
italiana ha fatto e continuerà a fare alle vere classi
dominanti globaliste, che hanno l'inglese
come lingua di riferimento.
Io non sono affatto stupito di questo esito.
La sinistra, anche per farsi accettare in certi circoli,
sta svolgendo in Italia il suo compito di
dissoluzione di un'identità nazionale e di una
cultura abbastanza diffusa da essere
incompatibile con il ruolo subalterno che la costruzione europea (e il rispetto dei vincoli atlantici ?)
impongono all'Italia.Leggere "La vita è i tempi della democrazia liberale " C.B. Macpherson
Ma ci si rende conto che un normale
ragazzo italiano, moderatamenre studioso,
formato in un liceo di provincia aveva,
grazie non solo a Gramsci ma anche a
Gentile e a Bottai,
una consapevolezza culturale e storica che
in Inghilterra ottenengono solo i migliori
studenti di storia di Cambridge o di Oxford?
Ma vi sembra accettabile?
Così come era da distruggere l'IRI per favorire
l'industria nazionale franco tedesca, così si doveva abbassare il livello
della massa degli italiani ai loro omologhi
inglesi o tedeschi.
Il populismo culturale di questa
sinistra catto-comunista ha già fatto
dei danni incalcolabili. Hanno quasi ucciso
quelle basi italiche su cui una politica quale quella
sognata e in parte realizzata da Mattei, Saraceno e
Aldo Moro era fondata.
Si aspettano che Macron risolva i nostri problemi?
Il dubbio che mi attanaglia
è se certi stimatissimi intellettuali
sappiano veramente pensare
o solo obbedire, per poi gridare allo scandalo
quando di esso sono oggettivamente,
in senso hegeliano, complici .
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Eros Barone
Sunday, 04 August 2019 15:13
L'efficienza formativa degli esami di Stato, tenendo conto di come questi sono stati progressivamente ridimensionati nel corso degli ultimi vent’anni, è stata praticamente ridotta a zero. Ma quali sono le ragioni che hanno determinato lo svuotamento e la bagatellizzazione di una prova che sul piano dell’efficacia formativa era fondamentale per valutare il carattere, l’intelligenza e il grado di apprendimento delle diverse discipline espresso dalle nuove generazioni? Le ragioni sono presto dette e gli autori dell'articolo ne hanno indicate alcune. Basti pensare, innanzitutto, al marchio sempre più localistico che l’autonomia scolastica ha impresso su questa prova, dando spazio, così al Nord come al Sud, a intrecci perversi di cointeressenze, favoritismi e forme di ‘insider trading’ nel rapporto reciproco tra docenti, studenti e loro famiglie, che solo il mantenimento delle commissioni nazionali di esame, massicciamente composte da docenti estranei alle realtà locali (con l’ovvia eccezione di quel tradizionale ‘tribuno della plebe’ che è il membro interno), era in grado di prevenire assicurando, nel contempo, oggettività, imparzialità e rigore ai complessi processi valutativi inerenti alla prova di esame. Rispetto ad un modello formativo che, in altri periodi, ha fatto della scuola italiana una delle scuole più prestigiose e i diplomati e i laureati del nostro paese apprezzati e ricercati in tutto il mondo, l’inflazione dei cento e lode si configura quindi come il frutto di una “guerra dei Vespri” che, soprattutto nel Sud, ha unito in una sorta di Santa Alleanza di stampo risarcitorio e perequativo corpi docenti, corpi studenteschi, corpi familiari e corpi dirigenziali. L’esito inevitabile, paradossale e anomalo per chi osserva dall’esterno, ma del tutto logico ed intenzionale per le forze economiche, politiche e sociali che hanno coscientemente determinato lo svuotamento e la bagatellizzazione degli esami di Stato, è la scarsa selettività di una procedura sempre più macchinosa, che anche quest’anno è servita soltanto a realizzare lo storico principio spagnolo del “todos caballeros”, laddove un filtro quanto mai modesto veniva demandato ai consigli di classe dei docenti. Un esito nondimeno, del tutto logico ed intenzionale, in quanto strettamente connesso all’obiettivo strategico che da molto tempo tali forze si sono prefisse di raggiungere, ossia l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la consegna delle nuove generazioni, prima attraverso la privatizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti, poi attraverso l’alternanza scuola-lavoro degli studenti e ora attraverso la controriforma Bussetti, alle Furie del mercato capitalistico. Non è questa la sede per affrontare un discorso vasto e complesso come quello inerente alla crisi della forma-scuola indotta dalla crisi generale del sistema capitalistico e, nello specifico, dalle politiche economiche ed educative di orientamento neoliberista che sono venute avanti in questi ultimi decenni sotto la spinta e la direzione della triade FMI-UE-BCE. Tuttavia, può essere opportuno rammentare una delle misure culturalmente più oscurantiste e socialmente più regressive adottate dal secondo governo Prodi (2006-2008), sottolineando nel contempo che di tale misura improvvida e controproducente l’opinione pubblica fu tenuta del tutto all’oscuro: la soppressione dell’Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) e degli Irre (Istituti Regionali di Ricerca Educativa). Sia i sindacati della scuola (tutti, nessuno escluso, dai confederali, che furono negli anni ’70 e ’80 fra i principali sostenitori della costituzione degli Irre, ai sindacati di base, dallo Snals alla Gilda) sia le associazioni professionali degli insegnanti (dal Cidi all’Uciim e a Ds) sia il ministro Fioroni non fecero una piega e non trovarono alcunché da obiettare ad un provvedimento che era in totale contrasto con la linea del rilancio e del potenziamento del sistema pubblico della ricerca educativa indicata, solo pochi anni prima, dal Dpr n. 190 del 6 marzo 2001 (provvedimento adottato, fra l’altro, da un governo di centro-sinistra), oltre che con il reclutamento del personale tecnico degli Irre, che era stato posto in atto con un concorso svoltosi nel 2004 fra gli insegnanti interessati a fare un’esperienza di ricerca e di formazione in campo educativo. Aveva dunque ragione un grande storico come Gaetano Salvemini, sempre molto attento ai problemi della scuola, a sostenere, tra il serio e il faceto, che l'istruzione è obbligatoria ma l'ignoranza è facoltativa. Sennonché, a distanza di oltre un secolo, nel contesto dell'attuale "dittatura dell'ignoranza" che nella distruzione della cultura storica ha uno dei suoi fulcri, occorre riformulare il suo aforisma 'in pejus', poiché l'istruzione, formalmente obbligatoria, è diventata, nella sostanza, altrettanto facoltativa quanto l'ignoranza.
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Mario Galati
Sunday, 04 August 2019 10:55
Riduzione ed emarginazione dell'insegnamento della storia; sostituzione, in ciò che rimane, della storia con la storiella liberale. Il risultato è la distruzione della coscienza della storicità della formazione umana e del suo fondamento storico-materialistico.
Il problema, però, è che in questa situazione ideologico-culturale più ore di insegnamento della storia in mano a docenti risultati dalla distruzione liberale, già compiuta, del pensiero storico condurrebbero ad una implementazione della storiella.
Tuttavia, gli autori hanno ragione nel reclamare più spazio per la storia.
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