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lafionda

La pretesa obbedienza morale a un sistema immorale

di Silvia D'Autilia

summersunIl 15 dicembre 2021, secondo quanto previsto dal D.L. n.172 dd. 26-11-2021, entrerà in vigore l’obbligo vaccinale per le categorie professionali del comparto scuola e forze dell’ordine, pena la sospensione dello stipendio. Ebbene, che il contenimento della pandemia avrebbe traghettato verso dimensioni nuove della vita, della politica e della socialità non avevamo dubbi; certo, mai avremmo immaginato mediante il dispiegamento di una simile ipocrisia.

 

Ipocrisia dei media

Hanno scritto e riscritto: “è boom di prenotazioni”, “successo enorme della campagna vaccinale”, “le somministrazioni procedono spedite”, “file di pentiti all’hub”, omettendo però il dato più importante: le barbare modalità con cui, per una fascia di popolazione, hanno raggiunto questi traguardi, ovvero minacciando letteralmente una fetta di lavoratori di revocare d’emblée i personali meccanismi di sopravvivenza minima. L’entusiasmo giornalistico avrebbe potuto essere appena appena lecito e tollerabile se riferito a una crescita delle somministrazioni a posteriori di un disteso clima culturale e mediatico di confronto, discussione e chiarimento dei dubbi di indecisi, riluttanti, renitenti, pardon “no-vax”: categoria sociale à la page per raccogliere soggetti animati da multiformi istinti irrazionali, antiscientifici, terrapiattisti, anarchici, estremisti e analfabeti. (In meno di 60 anni, è completamente sfumato tutto lo sforzo storico e filosofico profuso da Michel Foucault per dimostrare la facilità con cui il potere stigmatizza ed emargina parti della società di cui di volta in volta e di epoca in epoca non sa letteralmente che farsene, ma pazienza!).

Invece, se non fosse bastato il danno, si è pure dovuto assistere alla beffa di una pseudoesposizione al contraddittorio meticolosamente controllata e curata: nei principali format televisivi, se il dissenso ha trovato accoglienza è accaduto alla sola condizione di essere messo velocemente con le spalle al muro, nonché ridicolizzato dall’ortodossia dominante. E così capita di dover sentire una Lilli Gruber, all’interno del suo programma Otto e mezzo, domandare se è vero che non c’è apertura all’opposizione al suo fedelissimo ospite Beppe Servergnini, il quale prontamente, scuotendo la testa e rassicurando che non è così, garantisce che possiamo davvero dormire sonni tranquilli. Ma accade anche che uno stimatissimo Mario Monti si lasci sfuggire l’auspicio di prendere “a somministrare un’informazione meno democratica” vista la situazione di guerra in cui ci troviamo: come in guerra bisogna “restare uniti” – litania in ottemperanza della quale in questi due anni è stata smantellata anche l’ombra del vecchio stato di diritto- per accettare qualsiasi imposizione veicolata dall’informazione ufficiale. Non ce ne voglia l’esimio Monti, ma no, non siamo ancora così ingenui da pensare che la sua sia stata un’uscita indesiderata. Tutt’altro: l’occasione era più che ghiotta e appetitosa per istituzionalizzare formalmente una volta di più e col plauso della maggioranza dell’opinione pubblica ciò che a livello informativo vige ormai già indisturbato e collaudato dietro l’egida del momento emergenziale. E passiamo al Direttore Mentana. Lui va direttamente al punto e senza tanti giri di parole apertis verbis dichiara di non voler dare per principio la parola a esponenti “no-vax” perché ospitare uno stregone (sic!) anziché uno scienziato rende un cattivo servizio all’informazione. Ma guarda! Almeno qualche cornicetta diplomatica il Direttore la poteva mettere, invece no, che motivo c’era? La strada era già fin troppo spianata per ricevere sufficiente consenso. La strategia è semplice: riduci un numero N di persone a una categoria sinonimo di ignoranza e semidelinquenza; produci l’indignazione nella società addossandogli responsabilità pari a tutti i mali della terra e il terreno è pronto, senza vergogna né pudore, per istituire un Indice delle informazioni proibite 2.0.

 

Ipocrisia degli intellettualini benpensanti e illuminati

Dall’altare dei loro iracondi profili social hanno insultato, dileggiato e deriso con ogni mezzo linguistico a loro disposizione – e magari poi son gli stessi che moraleggiano su politicamente corretto e linguaggio inclusivo per le minoranze di loro comodità – a danno di una parte di cittadini che ha e ha avuto la sola colpa di aver esercitato una scelta che aveva tutto il diritto di compiere. Nemmeno l’analisi pubblicata qualche settimana fa dalla rivista scientifica The Lancet dal titolo “Covid 19: stigmatising the unvaccinated is not justified” (COVID-19: stigmatizzare i non vaccinati non è giustificato)” ha posto un argine alla spirale di odio e malvagità. L’articolo sostanzialmente dimostrava – alla luce della sopravvenuta scoperta della minore durata d’efficacia dei vaccini e della possibilità che anche i vaccinati contagiano o vengano contagiati – come fosse estremamente sbagliato stigmatizzare i non-vaccinati. Di fatto, poiché le tesi ivi contenute indebolivano tutto l’assetto politico, e non affatto sanitario, gravitante attorno al Green Pass, gli opinion leader nostrani – Andrea Scanzi e Selvaggia Lucarelli garantiscono per tutti – hanno ben pensato di voltare pagina, rincarare la dose e plaudire al Super Green Pass del Governo nella consueta misera opera di avallo e sottoscrizione di ogni diktat. Così, a partire dal 6 dicembre, anche l’utilizzo dei mezzi di trasporto locali è stato vincolato al tesseramento verde (mentre indiscrezioni dell’ultima ora dicono che è già allo studio l’ipotesi biglietto elettronico con incorporato pass sanitario in nome del Dio Green). Il tutto con un impiego senza precedenti di controllori e forze dell’ordine deputati a dare la caccia al dodicenne sprovvisto di QRcode. In effetti, due anni di Dad e mesi e mesi di ricatto “vaccino o niente vita sociale/sportiva” non avevano ancora coronato il processo di completa mortificazione di questi ragazzi. Ed è proprio questo il principale campanello d’allarme che più di ogni altro dovrebbe ribaltare l’attuale maggioritario paradigma culturale: nessuna scienza può dirsi tale se nella sua applicazione implica oppressione. È il punto di congiuntura più prezioso di cui disponiamo per saldare con coerenza scienza e storia, anzi per rendere la scienza – come voleva Gramsci – una categoria stessa della storia, che, agendo consapevolmente per conferme e smentite, guadagna così l’autorevolezza del suo procedere. In soli due anni di pandemia abbiamo assistito a una quantità enorme di dietrofront, correzioni e aggiustamenti in corsa d’opera. A Febbraio 2020 il virologo Roberto Burioni rassicurava che il rischio Covid in Italia era praticamente a zero; la scorsa primavera la veterinaria Ilaria Capua asseriva che col vaccino in due mesi saremo stati fuori dalla pandemia; è stata prescritta la somministrazione di AstraZeneca alle donne under 60, poi solo alle over 60 e poi definitivamente ritirato; la copertura vaccinale è stata prima garantita per 9 mesi, poi per 6, oggi addirittura per 5 o 3; l’immunità di gregge si sarebbe raggiunta col 70% dei vaccinati, poi con l’80, poi col 90, ora col 100. È inaccettabile che sia così? Assolutamente no: l’errore abita la natura stessa dello sviluppo scientifico; ma proprio perché lo deve preconsiderare non può, in nessuna sua fase, muoversi nel dogma salvifico e messianico o nei granitici verdetti specialistici, né istituire verità assolute, né rifiutare di esercitare un pensiero prudente e peculiarmente calibrato sui soggetti-oggetto delle sue ricerche se non si vuole sortire l’effetto-ed è proprio quello che spesso pare- di scambiare la scienza per show di prima serata in una bulimia senza fine di pareri esperti e competenti. Ma riavvolgiamo il nastro e torniamo a due anni fa: avremmo mai saputo immaginare questa compressione dell’esistenza nel benestare continuo della sentenza tecnica? E la produzione di tanta discriminazione sociale proprio per effetto di quest’assolutizzazione? La situazione è talmente drammatica da aver persino superato di gran lunga quella monodimensionalità di cui parlava Herbert Marcuse. Siamo nella fase dell’iperneutralità tecnica, dove quel che va bene per uno va sicuramente bene per tutti: vecchi, giovani, adolescenti, bambini. Non esistono più esperienze, nè vissuti personali, nè anamnesi soggettive, ma una compatta patina di “bene comune” legifera e governa il mondo, un’unica coscienza felice regna sovrana, inebetita dalla convinzione che tutto quel che accade è sicuramente razionale, sensato e così etico e morale che non ha bisogno alcuno di essere interrogato e soppesato. In poche parole: il sonno profondo del pensiero onesto.

 

Ipocrisia delle masse

È di qualche settimana fa lo sconcertante articolo de La Repubblica che si pregiava di aver finalmente elaborato l’identikit del perfetto “No Pass”: sottoistruito, tra i 30 e i 50 anni, e di destra. En plein! Se non ci fosse da ridere per la grossolaneria di analisi al sapore di reminiscenze lombrosiane che pensavamo di esserci definitivamente lasciati alle spalle, ci sarebbe proprio da piangere. La retrocessione culturale, in termini di marginalizzazione, stigma e caccia al nemico scorre ormai sempre più inesorabile, al punto che non si capisce più se sono i corpi che, dopo un po’ di mesi dal vaccino, perdono l’immunità dal virus, o se sono le menti che, dopo mesi e mesi di maniacale bombardamento mediatico, perdono l’immunità dalla protervia e dalla stupidità, alla distanza dalle quali si viene generalmente educati e scolarizzati nei primissimi anni di vita. Nel saggio Stigma, identità negata Erving Goffman considera la nascita di uno stereotipo il principale effetto del processo d’identificazione di caratteristiche sociali utili a produrre discriminazione. Si tratta di un fenomeno riferito sia all’autopercezione della propria identità individuale che sociale se, come è stato ben teorizzato dalla fenomenologia, lo sguardo esterno veicola veri e propri mondi di significati. Ne è conseguito un enorme “effetto Pigmalione” per il quale, erette le categorie “no-vax” e “no green pass”, si è preso ad affibbiargli le qualunque responsabilità in un processo di continua soddisfazione delle aspettative sociali. Non abbiamo forse visto attribuire a queste categorie la responsabilità del contagio di intere città e regioni? (Mentre, per esempio, il mancato potenziamento dei trasporti, il mancato smistamento delle classi pollaio e la sospensione dello smartworking non rappresentavano alcun problema.) Non abbiamo forse visto attribuire a queste categorie la colpa della saturazione ospedaliera? (Mentre anni e anni di tagli, precarizzazioni e privatizzazioni non scomponevano minimamente l’osservatore.) Non abbiamo forse visto attribuire a queste categorie il dilagare di antiscientismo e ignoranza? (Mentre sulla censura del dubbio e sulla criminalizzazione del dissenso davvero nessun problema.) E così via, potremmo procedere a iosa.

 

Ipocrisia delle istituzioni

Il nodo nevralgico della questione – oramai è chiaro – ruota attorno all’asimmetria tra la deresponsabilizzazione istituzionale e la massima responsabilità richiesta ai singoli cittadini: se, dopo tutti questi mesi, la politica non è stata in grado d’imporre alcun obbligo vaccinale serio, senza alcun ricatto di revoca di diritti fondamentali come il lavoro o lo studio, né è stata capace d’imporre una vaccinazione certa e compatta almeno per quelle fasce sociali per cui il virus è statisticamente più pericoloso, come si può pretendere però da parte dei cittadini la massima forma di responsabilità, financo da parte di coloro che hanno riportato effetti avversi dopo le prime dosi o da parte di coloro affetti da patologie che temono possano interagire negativamente col vaccino? Ma perché qualcuno, tra politici, giornalisti, intellettuali e media, non si è preso briga di metter nero su bianco una volta per tutte questi punti? Ebbene, a un anno esatto dall’inizio della campagna vaccinale, vale forse la pena di riflettere più approfonditamente sul concetto di responsabilità e sulla leggerezza con cui si suole approcciare la specificità dei singoli corpi e quella che credevamo essere la loro inviolabilità. L’argomento è centrale perché l’assunzione di un impegno istituzionale nell’imporre una determinata pratica agirebbe di fatto sulle persone forse non convincendole definitivamente ma tranquillizzandole della sensatezza e necessità della misura. Invece il ricorso al consenso informato agisce letteralmente da tappabuco di ogni contraddizione e a sostituzione di tutti gli scudi penali collegati alla somministrazione. Si replicherà che il consenso informato è oramai in medicina una pratica largamente adottata. Naturalmente. Ma siamo quasi sempre di fronte a situazioni alle quali sceglie deliberatamente il soggetto di sottoporsi e se anche non sceglie di sottoporvisi, il conseguente rifiuto non implica però ex abrupto la perdita o il condizionamento di una buonissima fetta di diritti né addirittura la sospensione dal lavoro. Del resto, Ulrich Beck, nel suo testo La società del rischio, lo aveva già abbondantemente spiegato: situazione emergenziale e assunzione di responsabilità sono due concetti che non possono proprio essere accostati. La formalizzazione stessa dell’emergenza implica che, poiché tutto quel che accade in questa fase rientra in cornici politiche eccezionali in cui è necessario agire in tutela di un rischio maggiore, automaticamente si frammenta la responsabilità per le conseguenze e gli effetti – i cosiddetti mali minori – dei provvedimenti adottati. Il rischio è in sostanza l’istituzionalizzazione della tecnica impunita al comando. Se c’è un’urgenza di cui oggi le istituzioni farebbero bene a occuparsi è la crepa sempre più profonda di sfiducia e scetticismo di molti cittadini nei loro confronti. Due anni di pandemia hanno dimostrato fin troppo bene quanto il ponziopilatismo della tecnocrazia non guardi in faccia davvero nessuno ma agisca escludendo e isolando chi desiste a conformarsi. E così possiamo sentire tranquillamente un Lopalco, epidemiologo, suggerire di non invitare i non vaccinati in casa propria a Natale. O l’infettivologo Bassetti suggerire di mandare i carabinieri casa per casa a scovare i no-vax. O il nobile Burioni istituire paragoni tra sorci e no-vax. E così avanti con la lunga trafila di angherie che sembrano aver fatto definitivamente svanire molti dei principali valori culturali che educatori e insegnanti erano chiamati a trasmettere quotidianamente: l’inclusione, la partecipazione, l’ascolto delle minoranze, la trasparenza, l’apertura al dissenso e al dubbio. Invece, a partire dal prossimo 15 dicembre, non un obbligo effettivo ma una minaccia di sospensione remunerativa in caso di mancata somministrazione o rinnovo vaccinale penderà su queste categorie, che, per effetto di uno strano autogol e di un’attenta ironia della sorte, sono le stesse che devono e dovranno consegnare strumenti di interpretazione e critica della realtà, anche quando il ricatto si sostituisce al diritto a tempo indefinito, non permettendo più a nessuno di potersi dire davvero al sicuro.

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