Print Friendly, PDF & Email

chartasporca

Fallimento, depressione e dittatura neoliberale. Disperata ‘Lettera aperta’ alla nostra generazione

di Andrea Muni

silvia letteraNon è necessario fare ricorso alla forza per costringere il condannato alla buona condotta, il pazzo alla calma, l’operaio al lavoro, lo scolaro all’applicazione, l’ammalato all’osservanza delle prescrizioni […]. Colui che è sottoposto a un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del potere; le fa giocare spontaneamente su se stesso; inscrive in se stesso il rapporto di potere in cui gioca simultaneamente entrambi i ruoli [di vittima e carnefice], diviene il principio stesso del proprio assoggettamento. Il potere esterno tende all’incorporeo, e più si avvicina a questo limite, più i suoi effetti sono costanti, profondi, acquisiti una volta per tutte: una perpetua vittoria che evita lo scontro fisico e gioca sempre d’anticipo. (M. Foucault, Sorvegliare e punire – Il panoptismo)

Meglio Kleist, Sacher-Masoch e Sofocle per questi tempi bui, lasciate stare Netflix e Zerocalcare

Amici, amiche, esiste un antidoto alla nostra proverbiale depressione generazionale: si chiama lotta, si chiama (al limite) vanità della causa persa: alzare la testa davanti ai soprusi come l’Antigone di Sofocle, il Michael Kohlhaas di Kleist, la Madre di dio di Sacher-Masoch; alzarla come le miriadi di donne e uomini infami e reali che hanno lottato e lottano per la giustizia sociale nelle sollevazioni popolari di tutto il mondo.

Per non morire dentro bisogna combattere nel reale i soprusi e le umiliazioni che patiamo e che spesso siamo costretti a perpetrare. Non possiamo più accontentarci di rimuoverli. In modo diverso e più perverso delle generazioni che ci hanno preceduto, la nostra pare infatti aver scambiato le vessazioni cui è sottoposta per i propri più alti ideali, averne fatto una vera e propria Sindrome di Stoccolma, averle letteralmente introiettate come super-io. E questo nonostante Nietzsche nella Genealogia e Freud nel Disagio, per tacere di Marx, stiano lì da un secolo e più a spiegarci che la Morale di una società, in ultima analisi, non è altro che l’introiezione, il “rovescio della fodera”, della violenza disciplinare istituzionalmente e collettivamente subita dai suoi membri. Ma a quale “disciplina” siamo stati così traumaticamente formati? Riusciamo ancora a vederlo?

La Morale autoimprenditoriale è un totem, uno strumento ideologico fondamentale, una serpe che ci hanno pasciuto in seno e che si nutre di condizioni lavorative umilianti e aspettative social-genitoriali imbarazzanti che siamo stati pregati di prendere per la nostra essenza più profonda, per noi stessi.

La disciplina a cui ci hanno formato – attraverso famiglia, scuola, stage, lavoro, master, dottorati, praticantati, mezzi di comunicazione, tv, internet, pubblicità, Netflix, ospedali, amministrazione pubblica, repressione – è la percezione spontanea di noi stessi come “liberi” attori del grande Gioco dell’Oca neoliberale. L’idea di cosa sia un individuo è letteralmente, storicamente forgiata dalle discipline che la innervano e la modellano senza sosta, proprio come quella che abbiamo della libertà.

La libertà è letteralmente un fantoccio, un burattino dagli occhi vuoti parlato da mille voci diverse, contrastanti, incompossibili. Quella dominante ci dice che siamo liberi quando scegliamo razionalmente, responsabilmente, una cosa invece di un’altra. Fare o non fare, essere o non essere. Sarà per questo che gli specchi ci fanno così paura? Sarà per questo che non riusciamo a vedere fino a che punto “libertà” nella nostra società non sia altro che il nome magico e paradossale dato a tutto ciò che, in realtà, siamo obbligati a fare?

 

In me più di me

Una proiezione ottica, un avamposto ideologico “interiore” che rispecchia lo sfruttamento e le umiliazioni che tolleriamo, la torbida ambizione che fin dall’infanzia sorbiamo – senza accorgercene – come uno squisito veleno, una nera testa di serpente che non riusciamo a vomitare ridendo perché abbiamo disimparato a mordere. Vomitare libera, dà sollievo, ma lì per lì è doloroso, fa star male, ed è pure socialmente sconveniente: una perfetta metafora del perché è così difficile disintossicarci.

Questa Morale è l’unica normalità, la sola soggettività, che abbiamo conosciuto. Tutto il resto ce lo siamo creati da noi, e possiamo senz’altro andarne fieri. Ciò di cui invece proprio non possiamo andare fieri è la totale inibizione, la quasi-angoscia, che ci coglie nei momenti in cui potremmo alzare la testa. Nei momenti in cui – senza rischiare troppo – potremmo effettivamente combattere nel reale le logiche dei tanti impliciti sociali e istituzionali che quotidianamente ci feriscono e ci inducono a odiarci e competere al solo scopo di metterci meglio al lavoro. Allo stesso modo, non possiamo andare fieri dell’atteggiamento esistenziale cui ci costringe l’insicurezza che ci hanno abissalmente destinato a provare riguardo a ogni cosa. Un’insicurezza che ci induce tristemente a temere e lusingare il potere e i potenti (pur senza amarli, è chiaro, solo per necessità); un senso di fragilità che ci fa amaramente, disincantatamente consapevoli di quanto dipendiamo da loro per colmare i cronici vuoti del nostro conto corrente e quelli della nostra autostima.

Vomitarli, poter ridere di questi valori e di questi ideali – quando possibile, se possibile. Questa dovrebbe essere la nostra prima ambizione, non quella a cui ci hanno disciplinato i visi sornioni e attempati da cui abbiamo imparato che il mondo si poteva cambiare solo arrivando a gestire le leve del potere, solo facendo la gavetta. Volti spesso fidati e affettuosi, a cui molti di noi, troppi, hanno ingenuamente creduto. Sguardi obliqui di infelici, carichi di un desiderio meschino: rendere gli altri simili a loro, per illudersi meglio che sia normale, una cosa da tutti, sacrificare la propria dignità per una briciola di potere e riconoscimento sociale. Persone che, come il vecchio della storiella, dopo decenni passati a leccare suole – quando il potere di dire e fare “quello che vogliono” è finalmente nelle loro mani – non riescono nemmeno più a ricordare cos’è che avrebbero tanto voluto dire e fare, né per quale kafkiano spaesante scopo avevano inizialmente intrapreso una così indegna e umiliante ascesi.

Prima di dire qualcosa, bisogna avere qualcosa da dire. Ma per avere qualcosa da dire bisogna avere una vita che meriti di trasparire in ciò che diciamo e facciamo. Sarà anche per questo che ci viene così facile, quasi spontaneo, riconoscerci negli agrodolci fallimenti celebrati nella serie di Zerocalcare, che diversamente da noi è una star iper-realizzata e socialmente super-riconosciuta che oscilla ambiguamente tra i centri sociali e i salotti buoni di Gedi, laRepubblica e La7. In questo momento quei “salotti” sono il cuore pulsante della lotta di classe dei ricchi e dei padroni contro i poveri. Sono ideologia pura, nemici di classe nel senso più pieno del termine, e frequentarli – invece di denunciarne il sottile, continuo lavorio politico e ideologico – equivale a compiere una scelta di campo. Qualche anno fa si poteva ancora provarci, si poteva cercare dignitosamente di tenere il piede in due scarpe (di “lotta” e di “governo”), oggi non più. La frattura non è rimarginabile.

 

I figli siamo – e restiamo – noi.

Le nostre vite di relazione, complice il covid, sono implose. Non c’è tempo, non c’è voglia. Dopotutto si sta così bene con se stessi, a coccolare le proprie misantropie e depressioni. Ma poi ci si sente soli e allora si sovraccaricano di significato gli amici, dimenticandosi che (più di ogni altra categoria di affetti) gli amici devono sentirsi pienamente liberi nei nostri confronti per essere davvero tali. Stesso discorso per l’eros e le sue varianti più alla moda, trombamicizie e poliamori vari, che non tappano i buchi e spesso non fanno che preannunciare l’avvitamento solipsistico nella coppia, che a sua volta non è che l’anticamera del più apocalittico tabù dei trenta/quarantenni di oggi: il figlio.

Nella serie di Zerocalcare nessuno dei protagonisti ha figli. I figli – eterni – siamo e restiamo noi. L’ho trovato impressionante, forse perché ho avuto un figlio molto giovane. Sì la precarietà, la povertà, il femminismo, tutto verissimo. Però è pieno di poveracci – di immigrati, di italiani di medio-bassa estrazione sociale e istruzione, di donne sole con due palle così – che hanno figli e lavorano come schiavi di fatica fin da quando sono ragazzi. Persone che, nonostante tutto, hanno trovato nelle loro vite sfruttate un minimo di stabilità esistenziale che le trattiene al di qua della depressione. Mentre a molti laureati della piccola e media borghesia italiana è stato lettelalmente instillato – non necessariamente dalle famiglie di provenienza, più spesso dagli impliciti e dai sottotesti mostruosi della società in cui viviamo – il terrore sacro di avere una famiglia propria. La famiglia, ce lo hanno insegnato, scandito, non doveva intervenire a ostacolare le prospettive, le ambizioni, il “futuro” di noi (ex)giovani. Quali prospettive e quale “futuro” poi non si sa, visto che la stragrande maggioranza di noi, laureati addottorati e senza famiglia, è comunque schiavizzata e sfruttata quanto e peggio di chiunque altro.

Ma riuscite a vedere la vera e propria spiritualità, la dimensione ascetica, di questa missione autoimprenditoriale che ci strepita in sottopelle fin dall’infanzia? Riuscite ancora, gettando un’occhiata esitante, a vedere quanto è penetrata in profondità, quanto si è fatta “anima”?

Prima della nostra generazione nella storia solo le mistiche, le sante, alcuni tipi di filosofo e di preti (ma solo dopo la Riforma Gregoriana, e poi più massicciamente con la Controriforma) hanno rifiutato così radicalmente l’idea di una famiglia propria perché d’intralcio alla loro vocazione. Mi chiedo sinceramente se si possa ancora denunciare il vero e proprio attacco sferrato negli ultimi decenni dall’ideologia e dalla società neoliberali alla famiglia senza ricevere d’ufficio il marchio infamante di neo-fascio, di fusariano (tremo) o di rossobruno. Sto per scoprirlo.

Siamo la generazione a cui è stato ripetuto come un mantra che per fare figli bisognava prima sistemarsi. Peccato che “sistemarsi” per la nostra generazione – diversamente da come è andata per i nostri genitori – era ed è letteralmente impossile almeno fino ai quarant’anni (nei casi più felici).

Eh già, chi poteva immaginarlo. Noi nel dubbio, come al solito, abbiamo ubbidito. Prima il divertimento, il lavoro, lo sfruttamento, il successo, poi la famiglia. Non ci siamo chiesti come mai, pur essendo ben più povera e precaria di oggi, la gente nella storia dell’umanità abbia sempre fatto figli, spesso molto giovane. Ignoranza, mancanza di contraccezione, dicono. Ma non è tutto qui. Avere figli, prendersene cura, è una cosa che cambia alcune prospettive sulla vita, molte delle strutture fondamentali del rapporto con noi stessi; è qualcosa che (negli uomini non meno che nelle donne) sazia e realizza un certo ineliminabile narcisismo in un modo profondamente diverso da quello escogitato e “messo al lavoro” dalla teologia autoimprenditoriale.

Uno dei soprusi più gravi del disciplinamento neoliberale cui ci hanno sottoposto, talmente traumatico che a volte non riusciamo nemmeno più a dircelo, a denunciarlo, è proprio il condizionamente che abbiamo subito rispetto all’idea di una famiglia nostra. Siamo stati indotti in tutti i modi a rimandare al più tardi possibile (al limite, a mai più) il momento in cui noi stessi cessiamo di essere il nostro primo pensiero, il nostro primo problema nella vita. Non mi fraintendano gli amici e le amiche che hanno scelto consapevolmente e liberamente di non avere figli, questo discorso ovviamente non vale per loro, vale piuttosto per i tanti che – pur desiderando figli e famiglia – avvertono oscuramente di essere stati condizionati pavlovianamente a negarsi questo desiderio.

La famiglia “classica” è ovviamente solo una delle tante forme possibili, durature, felici, autosufficienti e in salute di “noi”. “Noi” è ogni forma autonoma, sovrana, di vita sociale e comune. È in queste microcomunità che palpita tutta la resistenza che è ancora possibile opporre alla violenza dell’ideologia neoliberale, all’individualizzazione, all’isolamento e all'(auto)disciplinamento che ci abitano nel dentro, e umiliano nel fuori.

Ci hanno condizionato a vedere nella famiglia un qualcosa che dovevamo meritarci, un perverso premio-di-produzione riservato a vite grandiosamente, asceticamente percorse entro i binari prestabiliti, quando invece nella storia degli esseri umani, al contrario, avere una famiglia propria ha sempre rappresentato piuttosto l’inizio di un nuovo capitolo, un rito di passaggio che introduceva ufficialmente alla vita adulta.

 

Falliti, sì, ma non nel senso buono

Ci emozioniamo per Zerocalcare – certo, anch’io eh, il finale è toccante non c’è che dire – ma caspita è una serie in cui non si capisce se il protagonista è un sedicenne o un quarantenne; dove praticamente nessuno lavora davvero (se non per vedere depresse le sue aspettative), dove la vita si schiva e in questo si cerca – e addirittura si trova! – un che di agrodolce in cui riconoscersi, una specie di nuovo collante sociale. Troppo poco.

È veramente il ritratto di una generazione di falliti, ma non nel senso in cui spesso ci piace immaginarci, ossia cullandoci nell’idea che siamo anime troppo belle per realizzarci sgomitando tra i liquami della società odierna. No! La verità è che siamo una generazione di falliti perché non abbiamo mai alzato la testa, io per primo. Il “noi” che ci restituisce Zerocalcare nella sua serie non ha nulla di sano, di felice, di autonomo, di sovrano. A me – onestamente – fa solo tristezza. Si ride, sì, tanto, ma nevroticamente, mai sovranamente.

Mi chiedo se questo sia legato al fatto che (come generazione) non abbiamo mai avuto uno scatto di dignità, di rottura, di rabbia che esplode compatta in una lotta, mentre sotto i nostri occhi si consumavano – e non smettono di infuriare – l’apocalisse dei diritti dei lavoratori, l’armageddon climatico, il naufragio dei diritti civili, il disciplinamento sempre più minuzioso e tecnoscientifico delle nostre esistenze.

Siamo i figli di mezzo della storia, senza scopo né posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. (Fight Club)

Da Fight Club a Zerocalcare, è sconfortante osservare che in questi vent’anni non ci siamo mossi di un millimetro. Se abbiamo lottato, l’abbiamo sempre fatto per qualcun altro – contro le guerre in altri paesi, per gli immigrati, contro le grandi opere dannose per l’ambiente locale, per i nostri nipoti (vedi questione climatica nella sua salsa più gretina, ossia quella che evita accuratamente la critica al modo di produzione capitalista) – quasi che l’idea di lottare per noi stessi ci risultasse impossibile, imperdonabile, mentre i padroni la loro lotta di classe egoistica non hanno mai smesso di farla e con risultati eccellenti. Noi stessi invece – salvo qualche momento importante come le proteste studentesche dell’Onda o il movimento Occupy, che ormai datano un decennio fa – a quanto pare non ci riteniamo degni di essere qualcuno per cui lottare.

Perché facciamo così fatica a realizzare che – diversamente da altre sacrosante lotte valoriali e identitarie – la particolarità della nostra lotta (della nuova lotta di classe che ci attende) è che non è buona, non è nel giusto, non è altruista. La lotta di classe è soltanto la nostra lotta: egoistica, singolare, e al contempo universale e collettiva. Nella lotta singolare, individuale, di ogni sfruttato per una vita degna pulsa, rugge un frammento della grande battaglia tutti gli sfruttati contro la violenza del Capitale. La storia è la storia della lotta tra le classi – Marx dixit. È da questa lotta che dipendono tutte le altre, da questa miccia: dalla riappropriazione di una dignità e di un orgoglio, individuali e collettivi, che ci hanno costretto a rimuovere, a calpestare. Nessuno ha mai fatto la rivoluzione per altruismo, nemmeno il Cristo.

Sempre sotto ricatto – reale ed economico per i più poveri, psicologico e autoimprenditoriale per i più ricchi, questa è la nostra costante generazionale, la nostra interclassista nuvoletta di Fantozzi. Non è facile alzare la testa, lo so. Non è un caso che Zero apra la sua serie ricordando Genova come il trauma originario di una violenza di Stato inaudita a partire dalla quale avremmo tutti più o meno capito (per poi non parlarne mai più) che di questa dittattura neoliberale non si può cambiare un cazzo. A volte mi chiedo se questo abbia a che fare col fatto tragico che molti tra i migliori della nostra generazione – pur denunciando gli alti valori autoimprenditoriali con cui ci hanno intossicato – li abbiano poi ligiamente, quasi religiosamente, seguiti come bimbi sperduti alla rincorsa dell’Isola che non c’è, giovani Edipi ed Edipe enormemente ingoiati dall’amore di genitori delicati me ingombranti, dalla raffinatezza di capi rispettabili e seduttivi.

Grazie all’ultimo Foucault, e poi a Sloterdijk, abbiamo riflettuto tanto sul fatto che l’esercizio è il vero scambiatore, il trait ‘d’union tra etica e politica. L’unico problema è che non abbiamo proprio pensato al fatto che la maggior parte degli esercizi che facciamo e in cui ingaggiamo gli altri, la maggior parte delle ascesi attraverso cui ci trasformiamo, non le scegliamo noi, non sono coscienti, e soprattutto sono già lì come le caselle di un gioco che siamo stati finemente, violentemente programmati per abitare come altrettanti oggetti e pedine, mossi da una mano aliena – che non siamo – e che si fa prendere per me stesso.

* * * *

Don’t forget to memorize your lies/Non dimenticarti di imparare a memoria le tue bugie,

(Sonic Youth, Disconnection notice)

(Ismene): Fa venire i brividi quel che riscalda il tuo cuore / (Antigone): Ma così vado bene a quelli che devono apprezzarmi davvero / (Ismene): Ammesso che tu ci riesca. Tu ti innamori dell’impossibile. (Sofocle, Antigone)

 

Amarsi meno, amarsi meglio

A volte ciò che previene dal suicidio – più degli amici, del successo o della fortuna in amore – è la consapevolezza che qualcuno, qualcun altro, ha talmente bisogno di noi che letteralmente non possiamo prenderci il lusso di sparire. Altre volte purtroppo, al contrario, è proprio il sapersi, il supporsi o lo scoprirsi non all’altezza di questa “prova” a condurre verso la scelta più tragica. La verità è che non ci sono “ragioni” per vivere, solo ragioni per non smettere. Questa dolceamara consapevolezza è come un cristallo, che a seconda della luce e delle inclinazioni assume a volte il volto tetro di una condanna, altre quello amico e sorridente di un’inestinguibile, cocciuta promessa di felicità.

La nostra generazione conosce una forma particolarmente autoaggressiva di narcisismo. Il narcisismo non è una colpa, non è niente di malvagio, è piuttosto un’esperienza fondamentale e storica dell’essere umano che dovremmo indagare molto più a fondo di quanto non facciamo. Il problema del nostro narcisismo neoliberale è infatti quello di essere un narcisismo particolarmente infelice, che non ci aiuta minimamente a godere pulsionalmente e matericamente di noi stessi, del corpo che siamo (con e negli altri), ma ci induce piuttosto a soddisfarci perversamente nella contemplazione, oserei dire quasi mistico-teoretica, di un’immagine appagante di noi stessi. Un’immagine che troppo spesso ci illudiamo di aver almeno creato noi, che crediamo di poter modellare dinamicamente per mezzo delle nostre ascesi, dei nostri esercizi spiritual-autoimprenditoriali, e che invece si fa sempre un po’ più ingombrante, vorace ed esigente ogni volta che riusciamo faticosamente a soddisfarne gli imperativi e le mute ingiunzioni.

Raramente abbiamo manie di grandezza (se non quelle che ci hanno instillato e che combattiamo), piuttosto abbiamo grandi ansie, grandi paure, grandi nausee di noi stessi. Ma nella pratica cambia poco, perché alla fine è pur sempre da noi stessi che siamo ossessionati per la maggior parte del tempo, ed è questo – solo questo – che interessa al discorso dominante (no, non leggo Byoblu, non grido al gomblottoh e al grande reset, ma in compenso ho scritto una tesi di dottorato su discorso e ideologia neoliberale).

 

Non serve amare “oceanicamente” gli altri per capirli, né per battersi per loro

Nell’amare se stessi si annida una contraddizione mostruosa, che i moralisti di tutti i tempi (cristiani e pagani) hanno individuato e denunciato fin dall’alba della nostra cultura. Dobbiamo aspettare il XVIII secolo perché il self-love (l’amor sui dei latini) cessi di essere considerato una vergogna, un errore strategico e una colpa morale, tramutandosi – con Adam Smith, padre e ideologo del liberalismo (cfr. il bellissimo saggio di Serge Latouche, Utilitarisme noble et anti-utilitarisme des nobles) – in qualcosa di ovvio, di naturale e persino di schiettamente sano e positivo.

Si tratta di un grande malinteso, di un vero e proprio arcano politico che sonnecchia tra i gangli logici più profondi del rapporto che intratteniamo con noi stessi. Tra Locke e Bentham, passando per Smith, la tradizione politica inglese, mentre colonizzava il mondo, ha trovato anche il tempo di diffondere un’idea di self, di soggetto, che coincide con un’immagine ideale di noi stessi in cui il discorso dominante ci costringe a viva forza, con violenza disciplinare inaudita. Ma quella roba lì – quell’immagine disincarnata in cui ci hanno sprangato e che ci viene persino intimato di amare – noi non la siamo, i suoi interessi non sono davvero i nostri. Quella cosa è il nemico, è ciò che ci ruba la vita sotto gli occhi, ciò che dobbiamo imparare a combattere, di sponda, nel reale dei più microfisici rapporti sociali. Fino al masochismo se necessario, perchè a volte “masochismo” è l’unico nome ancora concesso alla rivolta, alla dignità, al fiero rifuto dei valori tossici che ci hanno inculcato.

Questa è la nostra grande solitudine, il nostro unico vero fallimento, che nessun Zerocalcare riuscirà mai a consolare: non poter levare la mano contro quella parte del sistema, quella parte di me, che dopo essermi stata iniettata a viva forza nella carne mi viene ora persino subdolamente intimato di amare e onorare (con tutto il portato edipico e familistico del caso), a pena di medicalizzazione, farmaci per curare il mio debilitato self-love, stigma sociale. Una generazione fallita, in cui la rimossa violenza del disciplinamento neoliberale è venuta a saldarsi con pressioni sociali e aspettative familiari spesso insostenibili in un doppio vincolo grottesco, in un mostro ideologico asfissiante e all’apprenza inattaccabile che genera senza sosta ansia, depressione, indateguatezza, panico.

Una prova? Nessuno si è mai odiato quanto noi, con il nostro zelo, con la nostra fredda, fervente devozione. Nessuno come noi se ne è mai così tanto vergognato, di fronte agli altri non meno che con se stesso. Vergognarsi del fatto che ci si odia, questo è il trauma rimosso della nostra generazione: una depressione al quadrato, un’acrobazia autodistruttiva che è il vero grande capolavoro dell’ideologia in cui respiriamo e abbiamo vita. Monetizzare la “cattiva coscienza”, l’odio di sé, metterlo al lavoro.

Bisogna trovare un modo per uscire dal vicolo cieco individualista senza scadere nelle facili consolatorie insidie dell’altruismo buonista, nelle chiacchiere da sacrestia con cui ci illudiamo di stare dalla parte degli eletti; trovare un modo per cambiare senso alle parole egoismo e individualismo, al significato tossico e falso che il discorso dominante gli attribuisce. Egoismo, narcisismo, individualismo, sono solo parole. Il loro significato è storico, in eterna trasformazione, come quello di ogni altra cosa. La polarizzazione morale fomentata dal discorso dominante tra egoismo/altruismo e individualismo/senso di responsabilità collettivo, sembra fatta apposta per occultare il fatto che l’egoismo potrebbe essere qualcosa di profondamente diverso da ciò che crediamo, come pure l’altruismo e l’individualismo.

La lotta di classe, per esempio, la lotta degli sfruttati contri i propri padroni non è altrustica, non è morale: è la lotta nella cui posta in gioco ne va di un altro significato, finalmente positivo, sano, felice dell’egoismo e dell’individualismo. Perché è per se stesso, per la sua famiglia, per i suoi amici, che lo sfruttato combatte, è per loro e per se stesso che vuole una vita felice e libera dai ricatti. Ma è proprio nel gesto, nell’atto, di pretenderla per sé e per i propri affetti che egli o ella la esige, a proprio modo, in un collasso di particolare e universale, anche per tutta l’umanità che condivide la sua condizione, la sua lotta, il suo destino.

 

Egoismo no-vax, o altruismo no-GP?

Le logiche individualizzanti che colano dal discorso dominante tendono a renderci sempre più difficile capire gli altri, immedesimarci nelle angosce antivacciniste di una bidella sessantenne o nelle ansie “irrazionali” dei tanti genitori costretti in questi giorni a scegliere (sotto ricatto sociale) di vaccinare dei figli per cui hanno sacrificato con gioia buona parte delle loro vite. Al discorso dominante non interessa se questo genitore (chiamiamolo Franco) deve vaccinare sua figlia (chiamiamola Bianca) con un farmaco che, ti assicurano dall’AIFA, causa solo una miocardite su diecimila iniezioni, e uccide solo una volta su un milione; né se un farmaco ora ritirato per le generazioni più giovani ha probabilmente ucciso la povera Camilla, sospinta a inizio giugno tra le braccia della morte dal fiato cattivo di una propaganda mediatica disgustosa, che l’ha indotta a soli diciotto anni a scegliere un trattamento sanitario sconsigliato per la sua fascia d’età dallo stesso Stato che, acrobaticamente, con l’altra mano continuava a pubblicizzarlo e somministrarlo. A questo discorso non interessa se molti giovani docenti della nostra generazione sono andati pieni di fiducia durante la prima metà dell’anno a fare un vaccino che è stato poi misteriosamente rimosso dal piano vaccinale dello Stato italiano, dopo alcuni grossi scandali legati a probabili correlazioni con eventi gravi e almeno in alcuni sporadici fatali (che hanno interessato in particolare giovani donne). Cosa proviamo di fronte a tutto ciò? Perchè non si riesce a parlarne? Perché volerne parlare deve destinare chiunque si senta di farlo a essere squalificato con l’infamante marchio del no-vax?

Gli under 50 che non hanno voluto vaccinarsi non l’hanno fatto per egoismo, bensì perché sono terrorizzati dall’idea di compiere una scelta obbligata, che potrebbe far mancare il loro supporto materiale e il loro affetto alle persone che amano, alle loro famiglie; paura di non poter più esserci a pagare il mutuo della casa dei loro figli, di non poter più essere lì a prendersi cura di loro. Poco importa se la loro valutazione è scientificamente sbagliata, poco importa se razionalmente sappiamo che il covid è infinitamente più pericoloso del vaccino. Come non vedere che, a livello psicologico, soprattuto per gli under 50, il covid è qualcosa che prendi, che arriva non voluto, mentre il vaccino è qualcosa che ti fanno scegliere di fare: un atto, un tuo gesto intenzionale ma al contempo obbligato, rispetto al quale ti viene richiesto esplicitamente di assumerti rischi e responsabilità.

Le persone non hanno paura del vaccino, della “punturina” in sé, hanno semplicemente paura di compiere (sotto ricatto lavorativo) una scelta che potrebbe compromettere questo agrodolce giro di giostra, queste vite comuni che ci fanno avere voglia di essere qui ancora, di non smettere. È per questo che la campagna vaccinale dello Stato italiano è stata disastrosa, e che a dire il vero è stata letteralmente una non-campagna. Perché ricattando sul loro lavoro le persone con il GP dalla fine dell’estate, lo Stato ha smesso di fare una “campagna vaccinale”, procedendo piuttosto con un obbligo mascherato che ha fatto infuriare tutti coloro che vi hanno letto una confisca della loro libertà di scelta. Il fatto di aver negato questa “libertà” è esattamente ciò che ha indotto molte persone a incaponirsi nel rifiuto del vaccino, e i dati di altri Paesi – come quelli della Spagna, che ha i nostri stessi vaccinati, senza neppure avere l’obbligo per i sanitari – stanno lì a dimostrarlo.

Molte persone “ignoranti”, molti temibili “complottisti”, sanno infinitamente meglio di tanti accademici e grandi giornalisti non soltanto che tutto è vanitas, ma anche che nel ventaglio delle vanità possibili la sola che dia una fragile, autoironica, tragicomica parvenza di senso alla vita è quella di vivere con e per chi si ama; che la vita è un grande romantico, ridicolo gioco da tavolo di cui si rimanda sempre a domani la fine, per la sola gioia di sedersi a giocare insieme un altro pomeriggio, solo un altro ancora. La vita non ha più senso di così. Non dimentichiamocelo mai, è questo il miglior antidoto alla depressione (non l’autocommiserazione, né l’invenzione a tavolino di nemici immaginari). In fondo abbiamo tutti paura, sempre, di tutto, io non meno di altri. Ma vi prego amici, amiche, non seguite le stronzate della propganda mediatica draghiana, non convincetevi che voi avete le angosce e le depressioni buone e compagne, mentre i poveracci hanno quelle fasciste e cattive. Perché questo, semplicemente, non è vero.

 

Quando, anche dopo lungo tempo, una persona realizza di aver subito violenza il trauma è vivo, reale, brucia nella carne come se non fosse trascorso che un istante

Ho sempre cercato di capire, di accordarmi col tempo e col mondo in cui vivo, con le tante persone diverse da me a cui pure voglio bene, ma gli ultimi sei mesi sono stati davvero umanamente devastanti. Ho cercato di concentrarmi sullo sport, sui film, sul leggere e scrivere. Ma non funziona, non ci riesco. Non riesco a dimenticarmi di me, di te, di mia figlia, di mio padre, di noi, della nostra generazione che amo alla follia in ogni amico con cui ho condiviso gioie, dolori e fallimenti, del reale politico in cui viviamo, del fatto che siamo davvero in una dittatura neoliberale e nessuno fa niente. Non riesco a parlare d’altro, se devo parlare seriamente.

Non riesco a rassegnarmi all’idea che siamo una generazione scissa tra un’infanzia dorata piena di promesse roboanti e una vita adulta da incubo, in cui un solo errore, una sola deviazione, ti destinano senza colpo ferire a lavori di merda, povertà eterna, vite di solitudine colonizzate e divorate dal lavoro… di cui finisci pure per incolparti. Non posso dimenticarmi che questa era anche la mia vita fino all’altro ieri, che può essere di nuovo così a ogni colpo di vento; che è la vita ora – mentre scrivo – che subiscono tanti amici che amo, la vita che sarà di mia figlia e di quelli che spero nonostante tutto avrò in futuro. Tu puoi, tu ci riesci davvero, a non pensarci? Io non ci riesco più.

Non riesco a rimuovere il terrorismo e i ricatti che ho subito da questa società e dai suoi padroni per aver osato contravvenire al comandamento neoliberale fondamentale (“Non fare un figlio da giovane”). Non posso negarmi di essere stato letteralmente frodato dalla preside di una scuola che mi ha fatto perdere un anno di supplenza mentendomi in faccia approfittandosi del fatto che non conoscevo i miei diritti, solo perché le apparivo un tipo divergente; non intendo più nascondermi il fatto che sono stato costretto a lavorare con ogni tipo di malanno, con la febbre, la depressione, con una figlia nata da dieci giorni; indotto ad autosfruttarmi fino a duecentosessanta ore al mese… e sentirmi grato che mi fosse data questa possibilità. Non sono cose personali, tutta la nostra generazione conosce queste violenze, questi soprusi (che abbia figli grandi, piccoli o non ne abbia) – tranne i ricchi, ça va sans dire.

La cosa che mi ha ferito di più in quest’ultimo mezz’anno è stato leggere sulle colonne dei giornali che le persone che hanno dato vita alle proteste degli ultimi mesi – vessate, disperate, umiliate, diffamate come “complottisti” – farebbero propria una posizione vittimistica. Inutile dire che a scrivere queste fregnacce sono spesso potenti maschi, affermati (ex)accademici, celebri psicoanalisti, che non hanno mai conosciuto nemmeno l’ombra, l’anticamera, dello sfruttamento che la nostra generazione vive invece come una seconda natura. A uno qualunque di questi signori mi piacerebbe ricordare che spesso quando si subisce una violenza capita di rimuoverla. Perché? Per poter continuare a vivere, perché a volte rimuovere è il solo modo per andare avanti, per non morire di dolore o di vergogna.

Spesso infatti le vittime reali di una qualunque forma di violenza riescono a prendere piena coscienza di quello che hanno subito solo quando realizzano di non aver avuto alcuna colpa in ciò che è accaduto. Le violenze subite, a volte, possono essere integrate nella nostra personalità cosciente solo quando siamo pronti, quando l’autoaccusa cessa, e riusciamo ad accettare dolorosamente che siamo incolpevoli della violenza che ci è stata perpetrata.

La rimozione cessa quando – tra le lacrime – riusciamo finalmente a vedere che, quasi sempre, la vittima non è che la vittima, che non è sempre anche un po’ complice, come piace dire ai padroni, ai violenti, ai potenti che spesso non si rendono nemmeno conto di infliggere il dolore che siamo costretti a rimuovere per non morire a noi stessi.

La nostra società è un coacervo, un rettilaio di violenze rimosse: per convenienza, per abitudine, per troppo dolore o troppa paura. Quando finalmente ci si accetta come vittime il trauma è lì: è rivissuto “in atto”, è carne ferita che pulsa, ora, nel presente. E le reazioni di fronte a questa presa di coscienza sono imprevedibili, possono essere anche violente e/o deliranti, e a dire il vero ne hanno tutto il diritto.

Certo, c’è una qualche forma di complicità, di collusione: noi siamo vittime della violenza del disciplinamento neoliberale, e al contempo sedotti dall’etica perversa che questo disciplinamento ha sedimentato in noi come un “resto”, uno “scarto”, un “supplemento d’anima” – ne ho parlato a lungo in questa specie di ‘Lettera’. Ma occhio… Non è la stessa cosa se questo discorso lo scandisce un padrone, o se lo denuncia uno schiavo. Il significato delle parole dipende anche da chi le emette. Il nostro problema è che abbiamo disimparato a distinguere la violenza sottile, traumatica e costante del Padrone che ci abita nel dentro e ricatta nel fuori, da quella giusta, disperata e legittima dello Schiavo che (quasi) tutti siamo diventati. Dobbiamo tornare a separare i fili, tornare a vedere esattamente fino a dove arrivano le nostre colpe di “sedotti”, e dove invece possiamo onestamente piangerci come vittime dell’inaudita violenza fisica e psicologica del disciplinamento neoliberale. Non c’è Altro dell’Altro – lo sappiamo caro Jacques, ma questo non deve farci rimuovere che i potenti e la loro violenza quotidiana ci sono eccome, esistono, e che coccolarseli non è mai stato un segno di salute (anzi, semmai è il sintomo che si è – o peggio si aspira a essere – uno di loro).

 

Una rivolta che non sappiamo dove, né cosa, ci porterà

“Questi non sono [più] i miei cavalli, signore illustrissimo!”, gridò Kohlhaas. “Non sono i cavalli che valevano trenta fiorini d’oro! Voglio riavere i miei cavalli sani e ben nutriti!”

(H. Kleist, Michael Kohlhaas)

Questo hanno fatto alla nostra generazione: ci hanno usato violenza, una violenza invisibile e selvaggia, fisica e psicologica di cui – in origine – non abbiamo colpa. La nostra sola “colpa” piuttosto è quella di non riuscire a piangere, a perdonarci, a scrollarci di dosso questa maledizione con uno scatto di disperata fierezza. Noi accarezziamo e bordeggiamo senza sosta questo trauma, senza strappare troppo, ma non lo affrontiamo mai davvero. Ci autocommiseriamo e consoliamo con l’agrodolce e interminabile post-adolescenza di Zerocalcare quando invece, se solo riuscissimo a ritrovare un briciolo di dignità, dovremmo semplicemente rivoltarci. Rivoltarci come il Michael Kohlhaas di Kleist, come l’Antigone di Sofocle, come la Madre di dio di Sacher-Masoch.

La ribellione di Kohlhaas non è ideologica, ma è spinta dal fatto privato, dalla pretesa di «protezione» per il suo «pacifico commercio». Non vuole ribaltare lo stato, per lui resta sempre una questione di cavalli e di servi malmenati; eppure la sua rivolta nasce dalla contradditorietà del mondo stesso, e quelle parole le rivolge a Lutero in persona (che poi si rivolgerà al principe, e il principe all’imperatore), non rendendosi conto che nessuna azione come la sua può dirsi scevra dall’avere un effetto anche politico. Nemmeno quella rivincita finale che riesce a prendersi nei confronti dell’odiato principe di Sassonia, che tanto si era accanito contro di lui: il nobile è disposto a salvargli la vita pur di avere un piccolo foglio (una lunga digressione ci racconta come questo sia giunto a Kohlhaas), ma il mercante di cavalli, con un gesto altamente simbolico, ingoia il foglietto poco prima dell’esecuzione. Salvando così il suo onore e la sua memoria da un lato, e dall’altro compromettendo il futuro della casata del nobile.

(G. Nava, La rivolta di un uomo onesto)

Esigere la nostra giustizia, esigerla anche se non sappiamo dove questo potrà condurci. I nostri cavallini saranno curati e ci verranno restituiti in salute, il nostro fratello “criminale” sarà sepolto dignitosamente, la nostra comunità risparmiata. Il debito sarà pagato, o sarà guerra.

Pin It

Add comment

Submit