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Che cos’è il Metaverso?

di Jacopo Anderlini

12 T 1536x1536Il termine “Metaverse” deriva da “Snow Crash”, un racconto cyberpunk di Neil Sephenson del 1992, in cui questo spazio ha tratti distopici. Quello che ha presentato Mark Zuckerberg il 28 ottobre 2021, quando ha comunicato il cambiamento del nome della società da lui fondata da Facebook, Inc. a Meta Platform Inc. – secondo molti osservatori e osservatrici non riuscendoci tanto bene – è invece una sorta di utopia tecnoentusiasta di un futuro dove saremo costantemente connessi. Uno spazio e un tempo dove non ci sarà quasi la necessità di fare logout e dove in buona sostanza il nostro avatar virtuale coinciderà con la nostra identità “reale”. Il confine, anzi, tra reale e virtuale, come già avviene adesso, andrà sempre più ad assottigliarsi.

In realtà questa non è un’idea nuova. Facebook sin dall’inizio propugna a livello “ideologico” – che si innerva e viene incarnato dal design della piattaforma e delle applicazioni a essa collegate – l’idea della trasparenza radicale. Non c’è nulla da nascondere – questa è la narrazione – quindi gli utenti devono mettere su Facebook e su tutte le altre piattaforme la propria vera identità, il proprio nome e cognome, i propri veri interessi: creare insomma una sorta di copia virtuale, di riproduzione delle loro interazioni. Seguendo questa idea di trasparenza radicale, Zuckerberg e i suoi collaboratori intendono dare forma a quello che loro chiamano Metaverso, cioè una proiezione, un’estensione del mondo “reale” fatta di app e servizi vari. Ovviamente, a uno sguardo critico, l’etichetta Metaverso risulta essere uno specchio per le allodole, una buzzword, un significante il cui significato rimane indeterminato.

Innanzittuto, potremmo dire che Internet – o meglio, parti di esso – per come adesso lo conosciamo sia una sorta di metaverso. Siamo in una fase storica dove molti servizi digitali sono già connessi tra loro.

È possibile accedere a diversi servizi con l’account di Google o di Facebook, avere un’esperienza sempre più priva di frizioni. Zuckerberg, nella sua presentazione di Meta ricorre spesso a questa parola, “frictionless”, che vuol dire appunto “senza frizioni”: si sarà in sostanza sempre meno consci del passaggio da un servizio all’altro, in quella che vuole essere la creazione di universo virtuale omogeneo. Internet è già un metaverso, con una differenza sostanziale: che non è un universo monolitico completamente integrato ma è la composizione di tante costellazioni, di tanti spazi connessi tra loro a varie intensità, a vari livelli di convergenza. Però – e questa è proprio una delle cose che Zuckerberg stesso presenta come innovative nel lungo pitch video di Meta – l’idea di entrare in una chat di realtà virtuale con il proprio avatar virtuale o di andare a lavoro in un ufficio virtuale con il proprio avatar virtuale è una cosa che esiste già da diversi anni e – se volessimo metterci nei panni di un investitore – non ha avuto neanche particolarmente successo. Un altro esempio che fa è quello di Second Life, una piattaforma nata come videogame multigiocatore, dove le persone si potevano creare una sorta di alter ego digitale, una vita parallela virtuale: anche questo fenomeno ha avuto un suo momento di successo e poi, anche se non completamente scomparso, ha oggi una nicchia di aficionados e niente più.

Quindi se da un lato il Metaverso, per come è stato presentato dal patron di Meta, è una buzzword che cerca di utilizzare un concetto addirittura legato a una distopia e presentarlo in una chiave utopica tecnoentusiasta, dall’altro lato, materialmente, viene immaginato come un insieme di servizi integrati tra loro: non aperti ad altri che non siano offerti dalla piattaforma stessa. Il Metaverso sarà il Metaverso di Zuckerberg e delle aziende che vorranno partecipare a questa iniziativa con Meta. Quindi uno spazio chiuso, circoscritto, appartentemente privo di barriere ma ben definito: io sono un consumatore, sto acquistando un bene, mi viene fornito un servizio. Molto diverso da come Internet è fatto, da Internet come spazio rizomatico, decentralizzato.

Se uno volesse fare un commento sulla presentazione di un’ora e mezza di Meta, si potrebbe dire che quello che fa Zuckerberg sia cercare di costruire e proiettare un immaginario e convincere più persone possibili a condividerlo. C’è un bel testo di Sheila Jasanoff e Sang-Hyun Kim che si intitola Dreamscapes of Modernity: Sociotechnical Imaginaries and the Fabrication of Power e quello che fa Zuckerberg è cercare di riprodurre in laboratorio un immaginario sociotecnico; sta lanciando un’idea e cerca di capire chi ci può stare, non va oltre questo. Sempre nella sua presentazione, parla di intelligenza artificiale, di realtà aumentata, quindi di una realtà che tramite visori o simili viene “arricchita” da informazioni reperibili digitalmente; parla di machine learning, usa altri termini-buzzword che rimandano a un immaginario tecnoentusiasta, allo scopo di prefigurare questo immaginario.

Le aree di ricerca che lui descrive sono dodici; ancora la tecnologia non è al livello di congruenza necessario per creare quel Metaverso e soprattutto non può essere interconnessa. Per farlo servono milioni e milioni di dollari. Quello che lui propone è qualcosa ben al di là da venire ed è sicuramente una cosa che Meta non è in grado di raggiungere da sola. Per questo cerca di “invitare” le altre grandi compagnie tech a partecipare a questa visione.

 

Storia dei social network

I primi social network degli anni novanta erano basati su pagine e profili dove le persone potevano descrivere se stesse e i propri interessi. Erano basate su una forma rudimentale di autoclassificazione: io mi classifico, mi interessa questo e quell’altro, questo dato viene venduto a delle aziende che fanno analisi sui dati aggregati e profilano vari target per altre aziende che devono vendere i propri prodotti.

Il passaggio successivo è stato quello dei social network come li conosciamo oggi, che non estraggono più valore da questa forma rudimentale di autoclassificazione. La fase in cui siamo immersi in questo decennio – e il processo di valorizzazione che emerge – è quella che si fonda sulle interazioni: il dato importante è il dato dell’interazione, non è più “io descrivo me stesso su una pagina, come sto”, ma è il fatto che su quella pagina ci saranno dei commenti, oppure che io utilizzi Instagram o la app di messaggistica di Facebook per comunicare con gli altri e le altre. Le interazioni sono informazioni e analizzando queste informazioni si ottiene un dato molto più ricco e che ha molto più valore per la data industry, l’industria che si fonda sull’estrazione dei dati, la loro raffinazione e poi la vendita. La data industry è una delle industrie più floride del momento. L’operazione del Metaverso va in questa direzione: creare, moltiplicare le interazioni valorizzabili, da cui poter estrarre valore, incanalandole in uno spazio che è sì virtuale, ma è anche tracciabile. In sintesi, tutto quello che viene fatto all’interno di questo Metaverso può essere analizzato e messo a valore.

Ovviamente non dobbiamo cadere nella trappola di invertire di segno la visione di Zuckerberg: se quella che viene proiettata è una visione tecnoentusiasta, non va abbracciata per contrasto una visione tecnofobica. Dobbiamo capire che questo tipo di tecnologie al momento non esistono e, soprattutto, che la tecnologia per sua stessa natura è fallace: fallisce più spesso di quanto noi non pensiamo. Lo scenario non è necessariamente apocalittico, anche se apre sicuramente una prospettiva di nuove forme di valorizzazione dei dati.

Il passo successivo è: da chi vengono questi dati? Come dicevamo prima, i dati sono i dati degli utenti. Cosa dice Zuckerberg nella sua presentazione? “Noi vogliamo lanciare questo nuovo Metaverso ed è aperto a tutte e a tutti, l’iscrizione è libera, per chi volesse testarlo sarà uno spazio aperto ai creators – come dice lui – e alle esperienze”. Cosa vogliono dire questi termini? Anzitutto che sempre più viene esternalizzata la produzione del materiale che viene “condiviso” o meglio offerto su queste piattaforme. Chi sono i creators? Sono ad esempio i produttori di contenuti video, che fanno un lavoro da cui ricaveranno probabilmente solo le briciole, cioè qualche forma di pagamento per le visualizzazioni ad esempio, come succede con YouTube, e la maggior parte degli utili andranno alla piattaforma. Cosa sono le experiences? Incanalare la propria vita, le proprie interazioni, all’interno di uno spazio virtuale che viene poi analizzato e messo a valore. Quindi “se è gratis probabilmente la merce sei tu”, come si dice. In questo caso ancora di più, perchè l’unico modo che ha Meta di diventare qualcosa di reale è che molte persone si iscrivano a questi servizi e quindi inizino a produrre dati e così via seguendo la catena che abbiamo descritto.

Un altro elemento centrale, a cui ho accennato prima, è che definendo il Metaverso lo si sta in realtà circoscivendo perchè, come in tutti i processi di accumulazione, anche questo territorio, questa frontiera, ha bisogno di essere conquistata e delimitata. Se funziona questa idea, quello che succederà è che tutta una serie di servizi commerciali – dalla posta alla chat, alla possibilità di tenere dati condivisi in uno spazio, tutte cose che esistono già anche da 5-10 anni – verranno integrati in un unico luogo, in un unico spazio, in un unico Metaverso. Questo verrà messo a valore: non potrò utilizzare il mio cloud, la mia applicazione di chat, ma dovrò utilizzare quella di Meta.

 

Dopo la pandemia

La proposta di Meta sembra essere quella di creare – all’interno della cornice socio-economica delimitata dalla pandemia che ha colpito tutto il mondo – uno spazio, una sorta di luogo-rifugio. Il progetto quindi si incardina e rafforza il fenomeno dell’escapismo, cioè lo scappare dalla realtà, piuttosto che sull’integrazione tra reale e virtuale. Come sappiamo, la realtà pandemica ha imposto l’utilizzo più diffuso delle tecnologie digitali, in particolare quelle utili per stare in connessione, avere delle interazioni: le chat e le applicazioni e i servizi di videoconferenza. In effetti, la proposta di Meta va esattamente in questa direzione: ci si crea un piccolo avatar e si partecipa alle riunioni del proprio gruppo di lavoro, in una sorta di stanza virtuale (cosa che peraltro può avvenire senza necessità di un avatar). Meta sembra ammiccare a un immaginario che in realtà è pessimistico, non proietta un’immagine di un futuro radioso dove risolveremo problemi come il riscaldamento climatico, ma piuttosto il contrario: il mondo sta andando verso la debacle ambientale e questo è lo spazio in cui ci si può rifugiare. La pandemia ha generato questo tipo di narrazione e alcune aziende cercano in qualche modo di metterla a valore.

Tuttavia, non sarei solo critico rispetto agli effetti che ha avuto la pandemia sul maggiore utilizzo delle tecnologie digitali; ci sono stati anche degli elementi positivi, in particolare si è sviluppato un meccanismo di riflessione sulle tecnologie un po’ più diffuso. Con Circe (Centro internazionale di ricerca per le convivialità elettriche) collaboriamo spesso con le scuole, lavorando con adolescenti, pre-adolescenti e insegnanti, e tutto ciò che è stato messo in moto dalla pandemia in termini di tecnologie digitali ha anche generato una forte riflessione su come queste tecnologie vengono utilizzate. In parte venivano impiegate nelle scuole anche prima, ma la riflessione non aveva raggiunto i livelli che abbiamo visto adesso.

Come sempre avviene per le tecnologie, bisogna fare seguire all’implementazione – anzi, bisogna anticipare l’implementazione con – una riflessione critica e uno studio consapevole dello strumento e delle conseguenze che l’utilizzo dello strumento comporta.

Zuckerberg, nella sua presentazione, sembra voler andare in direzione completamente opposta: far sì che le persone non siano neppure consapevoli del fatto che il dispositivo esista. Quando dicevamo prima “frictionless”, quando parliamo di “realtà aumentata”, con visori che ci permettono di vedere una specie di realtà alla Black Mirror, l’obiettivo è fare dimenticare alle persone di avere a che fare con uno strumento: perchè meno ce ne si rende conto, meno si svilupperà una riflessione sullo strumento e una consapevolezza su come lo si utilizza. Anzi, divento io il dispositivo, lo strumento, se sono io che produco quei dati che vengono valorizzati.

 

Prefigurare immaginari alternativi per tecnologie appropriate

Sicuramente ciò che muove questa visione del Metaverso è la centralizzazione, la volontà di tenere tutto in un unico contenitore. L’opposto di questa visione è la decentralizzazione, una prospettiva che è alla base della storia non solo di Internet ma di molti servizi legati al mondo del Web. La decentralizzazione è un modello, un approccio alle tecnologie che ci permettono di comunicare, di stare in contatto, che non vede un’unica autorità che ci fornisce dei servizi, sia essa una azienda privata o uno stato, ma una serie di server, di macchine in collegamento tra loro, in scambio tra loro uno a uno, più o meno paritario: macchine che permettono lo scambio di informazioni, di comunicazione. Questo è ad esempio il modello di Mastodon, un social che fa parte di quel gruppo di applicazioni che utilizzano il “Fediverso” (quindi non il Metaverso), cioè una federazione di stanze, di macchine, diciamo così, che attraverso un protocollo condiviso standard comunicano tra loro, ma che non hanno un centro, e che appunto permette a tutte e a tutti di, per esempio, crearsi plurime identità: di crearsi un account su Bida, un account su un’altra istanza… Un esempio classico di network decentralizzato o di servizio decentralizzato è la posta elettronica: si può avere un account e-mail su Gmail, per citare un’azienda privata che fa soldi sulle nostre comunicazioni di posta elettronica, oppure si può avere un account su un servizio autogestito come autistici/inventati: in quest’ultimo caso il porprio account di posta risiede presso qualcuno che si prende cura della privacy e ha una differente policy di gestione dei dati. Però, sia che si abbia un account su Gmail sia che lo si abbia su autistici/inventati, è possibile comunicare e interagire tra i due. L’idea che sta alla base del Fediverso, e di una infrastruttura tecnologica decentralizzata, è esattamente questa: rafforzare tutte quelle strategie che si possono mettere in campo per proteggere i propri dati e fare in modo che la comunicazione sia il più possibile privata. Non utilizzo un servizio di cui non conosco il proprietario e di cui non so quale sia la politica sui dati, o di cui magari so che la politica sui dati è che questi verranno messi a valore. Utilizzo invece un servizio di cui tendenzialmente mi fido perché conosco e mi riconosco nella sua politica di gestione delle comunicazioni. La possibilità di scegliere si può dare solo all’interno di un’infrastruttura e di una configurazione di reti fondata sulla decentralizzzione e l’interoperabilità – cioè la possibilità di interagire e capirsi tra diversi – dei nodi che le costituiscono.

Si può immaginare qualcosa di simile a un “Internet di prossimità”. In letteratura si parla di organic Internet (Panayotis Antoniadis, The Organic Internet: Building Communications Networks from the Grassroots, in Co-Designing Economies in Transition: Radical Approaches in Dialogue with Contemplative Social Sciences, a cura di V.M.B. Giorgino e Z. Walsh, 235–72, Springer 2018, https://doi.org/10.1007/978-3-319-66592-4_13), cioè un insieme di reti digitali che non siano una sostituzione del reale, ma siano integrate con il reale. Un approccio che si propone di creare reti, come tanti gruppi e collettivi cercano di fare, basate sulla fiducia nel servizio, che si costruisce tramite relazioni che non sono solo virtuali.

Un altro elemento importante è l’utilizzo di software che sia free e open source, cioè software di cui si conosca il codice sorgente. Perché se conosco il codice sorgente o se qualcuno più esperto di me può leggere il codice e capire che cosa fa, sono sicuro/a che quell’applicazione non abbia, ad esempio, un sistema per trasmettere tutte le mie comunicazioni a un’azienda privata e/o a uno stato.

Quindi, in sintesi, due possono essere le direttrici lungo le quali sviluppare immaginari alternativi sulle tecnologie digitali di comunicazione: da un lato, utilizzare servizi che permettono la moltiplicazione delle proprie identità digitali, allo stesso tempo preservandone i dati, e dall’altro utilizzare software libero, che non è una garanzia in sé e per sé ma ci offre una sicurezza in più rispetto a un software di cui non si conosca il funzionamento perchè il codice sorgente non è leggibile, libero.

Un esempio di chi prova a prefigurare, nella pratica, un altro immaginario è quello di Bida, un collettivo autogestito che fornisce servizi rispettosi della privacy e dei dati dei propri utenti e li fornisce a realtà e a movimenti sociali, cioè a chi si impegna per cercare di cambiare lo stato di cose esistente. Sicuramente, se siete interessati a partecipare a un esperimento di social network decentralizzato, potete visitare mastodon.bida.im, l’istanza di Mastodon di Bida, che è una delle prime italiane, sicuramente la prima che ha avuto un numero consistente di partecipanti. Bida è uno dei nodi più attivi, ma ce ne sono tanti altri e questi vanno a comporre il Fediverso: uno spazio dove non è tanto importante avere un’istanza grande, ma avere tante istanze che siano in comunicazione tra di loro. Altri nodi sono quelli dell’hacklab di Torino, che si chiama cisti.org, e dell’hacklab di Milano, che si chiama Nebbia. Visitando l’indirizzo web mastodon.bida.im potete vederli, potete accedere da lì ed entrare in reazione con il nodo che vi è più prossimo. Uno degli effetti sicuramente più positivi dell’utilizzo di Mastodon è la crescita delle interazioni nel mondo reale: una maggiore interazione sui territori che ha messo in relazione persone che non si erano mai viste e conosciute, e ha generato delle esperienze politiche di una certa rilevanza, almeno per i soggetti che le hanno attraversate.


Questo testo è una rielaborazione dell’intervista andata in onda su Radio Onda d’Urto il 13 dicembre 2021: www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2021/11/trx-che-cose-il-metaverso.mp3

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