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ospite ingrato

«Parole usurate, prospettive aperte»

Massimo Cappitti e Irene Conti intervistano Guido Viale

2022.9.19. CAPPITTIMassimo Cappitti: Il tuo libro (Slessico familiare. Parole usurate prospettive aperte. Un repertorio per i tempi a venire, ed. Interno4, 2017) si mantiene su un doppio livello: c’è una tesi portante come ipotesi teorica che lo regge, che si compone di più voci – poi le possiamo ovviamente vedere – ma c’è anche un aspetto pragmatico, il tentativo di non chiudersi in una sorta di rifugio, una teoria che ci metta al riparo dai problemi del mondo, perché i problemi del mondo vanno affrontati.

Guido Viale: È quello che cerco sempre di fare quando scrivo un articolo, cioè di mantenere la dimensione operativa, nella misura in cui si riesce a capire che cosa si potrebbe fare o pensare di fare. La teoria pura che non abbia una dimensione operativa a me non interessa, mi sembra un esercizio inutile.

 

MC.: Mi sembra un po’ il filo che attraversa tutti i tuoi lavori, un’attenzione alle esperienze e non solo alle ipotesi teoriche. Questo è già un primo punto, che in qualche maniera riesce a cogliere un tratto comune in una situazione di così difficile interpretazione. Mi sembra comunque un’acquisizione importante.

Poi ero partito da questa riflessione sulla naturalizzazione dell’esistente, ovvero una sorta di insuperabilità del sistema capitalistico, che si presenta come l’incarnazione del senso della storia. Il capitalismo chiude la storia – e noi con lui – e si presenta come una sorta di fenomeno naturale insuperabile. Questo mi sembra che emerga in più voci del tuo libro.

GV.: Sì, emerge in più voci del mio libro e peraltro non è una novità, perché c’è un numero infinito di autori che si sono soffermati su questo: da un lato, spiegare come sono stati naturalizzati il mercato e il capitale, proiettandoli in tutte le epoche passate a partire dallo scambio fra il cacciatore di castori e il cacciatore di cervi di Adam Smith, che già vivono all’interno di un mondo caratterizzato dallo scambio e dal mercato; dall’altro, la proiezione nel futuro, perché non c’è altra alternativa se non quella di continuare a vivere nel mercato. Questo approccio si è tradotto nel vivere il tempo come un eterno presente. Non c’è più un passato che abbia il potere di influenzare il nostro orientamento e non c’è un futuro, perché il futuro è esattamente la ripetizione di quello che già oggi siamo. Questa è la radice fondamentale della perdita della speranza, cioè del tentativo, dello sforzo, del cercare di cambiare le cose e seguire il proprio desiderio, le proprie aspirazioni, invece di sottomettersi alle ingiunzioni della struttura sociale.

 

MC.: Comunque rimane una certa reticenza nell’usare il termine “capitalismo”. È come se il nome portasse insieme un destino. È veramente strano per aree che provengono in qualche modo da una lettura di Marx più o meno approfondita.

GV.: Sì, ma è una cosa voluta. Innanzitutto, la mia esecrazione va nei confronti non del termine “capitalismo”, ma del termine “anticapitalismo”, di cui si fregiano molte organizzazioni politiche e molti militanti, ovviamente nel campo della sinistra, dell’antagonismo. Pensano, una volta dichiarato il loro anticapitalismo, di essere esonerati dallo sforzo e dal bisogno di trovare le strade e le modalità attraverso cui esercitare questo antagonismo, questo tentativo di cambiare le cose. Quindi uso poco il termine “capitalismo” per evitare questa trappola dell’anticapitalismo, che ritengo deleteria in moltissimi testi. Dopodiché, penso che anche “capitalismo” sia un termine troppo generico. Da un lato, rimanda a una scolastica, al tentativo di mantenere anche nel linguaggio, nelle espressioni e nelle formule una validità incontestata e incontestabile del modo in cui Marx aveva cercato di confrontarsi con la sua epoca e con i suoi problemi. Quindi, in fin dei conti, di sostenere che niente è cambiato e che lì c’è ancora tutto lo strumentario necessario per affrontare la nostra epoca. Dall’altro lato, non usare il termine “capitalismo” mi costringe a fare uno sforzo per delinearne il carattere al di fuori di una mera formulazione, attraverso l’esemplificazione e lo scavo dentro alcune caratteristiche della condizione umana in cui noi viviamo, di cui molto spesso si trascura o non si coglie il nesso con la struttura sociale in cui siamo inseriti.

Tutta la cultura femminista è legata alla critica del patriarcato, per esempio, e il termine “capitalismo” si sente per così dire esonerato dall’affrontarlo e cercare di discuterlo come strumento di analisi del presente. Casomai, ne fa un capitolo a parte: da una parte c’è il capitalismo, dall’altra il patriarcato e il dominio del maschio sulla femmina. Ma lo si evita accuratamente perché non se ne è capaci; non è che sia un’operazione molto facile, non ci sono riuscite neanche le più radicali e più acute femministe a sviscerare fino in fondo l’intrico che c’è tra le forme di potere patriarcale e le forme di potere del capitale.

 

MC.: Questo comunque mi sembra un tratto fondamentale del libro. A me ha sorpreso questa riflessione sul patriarcato, sul potere degli uomini sulle donne e questo non è – come tu dicevi – così acquisito come dato.

GV.: No, assolutamente. Volutamente, tra l’altro, ho cominciato il libro proprio con un capitolo intitolato I territori del patriarcato per cercare di sottolineare l’importanza di questo approccio, dell’analisi di questa componente del mondo in cui viviamo e l’esigenza di metterla a fondamento di qualsiasi altro sviluppo del pensiero e dell’analisi del contesto in cui ci troviamo. Questa per me è diventata una priorità e riconosco l’assoluta importanza del femminismo, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, per aver portato alla luce questo aspetto della condizione umana che nelle analisi tradizionali della società è mancata per molto tempo, comprese tutte le analisi e gli sviluppi del pensiero e della cultura del Sessantotto. Da questo punto di vista, il Sessantotto è stato assolutamente deficitario e non a caso è stato poi il bersaglio principale della critica del femminismo degli anni Settanta e post-Settanta.

 

MC.: Mi sembra che questo abbia comportato anche il trascurare la catastrofe antropologica.

GV.: Sì, indubbiamente; io su questo insisto molto in altri libri e in altri articoli. Il Sessantotto, di cui ancora riconosco i meriti e che considero una svolta fondamentale nella storia di tutta l’umanità, perché ha investito tutto il mondo, non è stato né femminista né ecologico. Queste sono state le due carenze che poi ne hanno decretato la fine e sono, tra l’altro, le due componenti che indicano la strada attraverso cui ricomporre – perché è tutt’altro dall’essere conclusa o anche solo sufficientemente delineata – una cultura nuova, alternativa e capace di misurarsi con i problemi che abbiamo di fronte oggi.

 

MC.: Infatti, mi sembrano accomunate da una riflessione sulla natura e sulle sue potenzialità.

GV. Da questo punto di vista l’antropologia degli ultimi trenta, quarant’anni ha portato un contributo fondamentale proprio nello scoprire, nel rapporto tra natura e cultura, la mancanza di fondamenti della distinzione tra l’una e l’altra. Far vedere come la cultura umana si radica necessariamente in profondità dentro il mondo esterno e come il mondo esterno non può essere analizzato se non a partire dalla nostra collocazione al suo interno – non al di fuori di esso. Scompare completamente la distinzione tra soggetto e oggetto, fra res extensa e res cogitans cartesiane (a questo ho dedicato anche un paragrafo del mio libro). Ma è un wishful thinking, un desiderio più che un’acquisizione. Ogni giorno ci scontriamo con la difficoltà di affrontare l’analisi del presente e del futuro prescindendo da una distinzione che è radicata in maniera profonda nella nostra cultura, nell’educazione che abbiamo ricevuto, nei libri che abbiamo letto e su cui ci siamo formati.

 

MC.: A questo proposito viene da chiedersi: dove si origina la catastrofe? Perché, a un certo punto, un patrimonio di sensibilità, conoscenze, attenzioni riesce a scomparire, a non produrre più effetti? In una conversazione che ho avuto con Piergiorgio Bellocchio, lui diceva che se doveva rimproverare qualcosa ai «quaderni piacentini», rimproverava loro la mancata consapevolezza di quello che stava succedendo nella società italiana. Però poi non mi ha detto di più, a proposito di questa che lui chiamava una “catastrofe antropologica”, un declino del senso. Dietro mia sollecitazione non ha aggiunto molto.

GV.: Io penso che il problema fondamentale sia quello, la capacità di cogliere il nesso tra i termini “natura” e “cultura”, o meglio, non il nesso ma la consustanzialità del problema. Con la cultura del Sessantotto, che ha influenzato quella di tutto l’establishment penetrando tutto il discorso pubblico, siamo passati da un’organizzazione della società fondata sul dominio e sul comando ad un’organizzazione tendenzialmente fondata sulla possibilità di convincere, anzi, di trovare già convinte le persone. Dentro questo linguaggio, che il ’68 ha trasmesso a tutto il resto della società, mancava il rapporto con la natura, la percezione e la consapevolezza della naturalità di molte delle componenti dell’essere umano e della nostra esistenza. Questo, secondo me, è stato all’origine della catastrofe, cioè il fatto che consideravamo esclusivamente i rapporti di potere tra le persone trascurando completamente tutto quello che invece avrebbe dovuto rappresentare la concezione di un’esistenza umana con beni, benefici, difficoltà, problemi: il mondo esterno a noi, il deterioramento del clima, la perdita della biodiversità, ma anche ciò che la struttura geografica ed ecologica del territorio in cui viviamo comporta nel modellare la testa delle persone, nelle possibilità che si aprono di fronte a ciascuno. Il ’68 ha chiuso una finestra sulla capacità di guardare al mondo nella sua complessità, restringendola a una dimensione sempre più priva di afflato, che poi ha portato a vedere esclusivamente i rapporti più brutali in termini di dominio e di contrapposizione tra gli esseri umani.

 

MC.: Le “parole usurate” a cui fai riferimento sono le parole nostre, sono quelle parole di cui, in una sorta di ribaltamento, si appropria il cosiddetto “nemico”. Quindi non ci appartiene neanche più quel linguaggio?

GV.: Lo scopo per cui ho scritto questo libro (che peraltro è una specie di antologia di capitoli presi da libri che avevo scritto precedentemente, scritti nuovi ad hoc su settanta ce ne saranno una ventina nuovi, gli altri sono tutte cose che avevo già scritto e che ho tagliato un pochino), la cosa importante, è che tutte le volte che, nel linguaggio politico o nell’analisi sociale, noi usiamo certi termini, bisogna riflettere attentamente sulle loro implicazioni e sull’uso che ne viene fatto. Da questo punto di vista, ho trovato una risorsa straordinaria nell’etimologia, nella ricerca dell’origine delle parole. Addirittura, penso che nelle parole originarie, da cui poi si sono articolate per differenziazione le parole del linguaggio che noi oggi usiamo quotidianamente, ci sia la traccia per riscoprire il rapporto effettivo che si è stabilito negli esseri umani tra il proprio interno e il proprio esterno, tra il mondo proprio e il mondo che ci circonda. Per esempio, non è un caso che tutti i principali moti dell’animo nella lingua greca traggano la loro radice da un organo del corpo, che sia il fegato, che sia il cuore, che siano i muscoli, i nervi, eccetera. Questa è un’osservazione molto importante se ci aiuta a richiamare l’importanza intrinseca che deve avere per noi il rapporto tra interno ed esterno nell’analisi della condizione umana.

 

MC.: Quindi qui si apre la necessità di un nuovo stile di pensiero. Questa ricerca sui sentimenti richiede di essere ripresa, non abbandonata e semmai incrementata. Questa è l’originalità del tuo lavoro.

GV.: Sì, un nuovo pensiero, non un nuovo linguaggio, perché le parole possono benissimo restare quelle, purché siano usate con un’attenzione per le loro implicazioni, che oggi non sono più come quelle degli antichi greci, che indicavano la rabbia con il fegato o cose di questo genere. Noi oggi abbiamo una vastissima gamma di termini per indicare i moti dell’animo che ci è fornita dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalle neuroscienze. Però tutte le volte che usiamo questi termini pensiamo che abbiano un significato scontato. Dovremmo invece cercare di soffermarci un attimo a riflettere su quali sono le possibili implicazioni negative, non scontate o diverse da quelle che intendiamo e che possono avere nella comunicazione con gli altri. Cioè, noi pensiamo di dire una cosa e gli altri invece ne capiscono un’altra, perché certe parole si portano dietro una ricchezza e una gamma diversificata di significati che rendono poi la comunicazione molto più difficile di quanto apparentemente sembri. Sembra che tutto sia facilitato dall’avvento della macchina informatica e invece molto spesso questo non ha fatto che complicare la comunicazione vera, cioè la condivisione di significati e di senso.

 

MC.: Mi sembra però che tu stia andando verso il superamento del dualismo…

GV.: Io penso che il problema maggiore che abbiamo sia nel linguaggio sia nel pensiero, o viceversa, è che poi nel nostro comportamento, nel modo in cui ci atteggiamo e ci proponiamo, il problema principale dell’umanità e in particolare della nostra parte, cioè quella parte di umanità che è scontenta di come vive e che vorrebbe cambiare il mondo, che sente l’impellenza di cambiarlo, perché sennò andiamo verso la catastrofe, il compito maggiore che deve affrontare è quello di superare questo dualismo. Però è molto radicato nel nostro linguaggio, nelle nostre abitudini; quindi non è un’operazione semplice e tra l’altro è un’impresa collettiva, se non siamo in molti a farlo insieme difficilmente una persona singola potrebbe riuscirci. Insomma, è un movimento che deve interessare la dimensione collettiva.

 

MC.: Nello stesso tempo si tratta anche di riprendere suggestioni che provengono da altre culture. Io pensavo a quel discorso sulla circolarità…

GV.: Certo, è fondamentale. Da questo punto di vista, Papa Francesco ha mosso una pedina fondamentale in questo campo, in particolare con il congresso sull’Amazzonia. Ha detto chiaramente: o noi recuperiamo un rapporto con quelle culture che hanno saputo mantenere una connessione con il mondo che le circonda – anche conflittuale, ma comunque di condivisione, di partecipazione – oppure non c’è religione che tenga, non c’è fede che ci possa salvare, che ci possa permettere di rimetterci su una strada di salvezza. Che non vuol dire il paradiso, l’aldilà; vuol dire la sopravvivenza dell’umanità in questo mondo. Mi pare che al centro dell’enciclica “Laudato sì”, non sia spiegato come salvarsi l’anima – o non soltanto come salvarsi l’anima – ma sia ben presente come preoccupazione centrale la necessità di salvare la vita, il vivente su questo pianeta.

 

MC.: Tra l’altro, nella molteplicità di fili che s’intrecciano, c’è anche il problema dell’identità, delle derive identitarie.

GV.: C’è l’alternativa a questa spinta, a questo tentativo. Alle derive identitarie, che sono quelle di ricercare in un passato completamente inventato e ricostruito un’identità che sostanzialmente poi sconfina e arriva direttamente al razzismo, l’unica alternativa possibile è la costruzione di un rapporto tra il mondo interno e il mondo esterno degli esseri umani, che faccia sì che ci si riconosca tutti come abitanti e inquilini della stessa Terra, dello stesso mondo, uniti ormai da uno stesso destino.

 

MC.: Ospiti…

GV.: Sì, ospiti, ma anche custodi. Come dice Papa Francesco, dio non ha dato all’uomo il dominio della terra, ma il compito di custodirla. È un’interpretazione sua – e non solo sua ovviamente – che non trova riscontro nella tradizione cristiana e cattolica, se non in alcune eresie. Però va bene che sia arrivata e che sia arrivata da un’autorità che ancora viene riconosciuta come capo di una religione maggioritaria in tutto il mondo.

 

MC.: Mi ha colpito anche molto, nella parte finale, questa riflessione sulle cose, sulla vita delle cose che poi vengono maltrattate, come diceva Anders, si producono per essere consumate.

GV.: Questo nasce, da un lato, dal fatto che io mi sono a lungo occupato di rifiuti e, attraverso i rifiuti, del ciclo di vita dei prodotti, delle cose che noi fabbrichiamo, di cui ci serviamo, risalendo indietro nel ciclo di vita delle cose che poi producono i rifiuti. È una sottolineatura che non trovo altrove, il fatto che quando noi parliamo del nostro rapporto con il mondo, con la natura, con gli eventi, trascuriamo troppo il fatto che gran parte di questo mondo esterno in cui ci dobbiamo riconoscere è fatto di manufatti, molti dei quali sono destinati a trasformarsi in rifiuti.

Quindi o noi riusciamo ad amarle, queste cose, a considerarne le potenzialità, se ci sono, e soltanto nel caso in cui non ce ne siano assolutamente, a puntare alla loro soppressione, così come puntiamo alla soppressione di un leone se questo ci sta aggredendo, perché ne va della nostra vita, o perdiamo il rapporto con la realtà. Così ci sono alcuni dei manufatti che hanno assolutamente bisogno di essere soppressi, perché ne va della nostra vita. È un invito a considerare il mondo esterno come qualcosa con cui ci dobbiamo rapportare nei termini più positivi possibili, cercando all’interno di esso, di tutto ciò che è anche artificiale, le potenzialità per la trasformazione della realtà. Da questo punto di vista, l’ultimo paragrafo del mio libro affida agli artisti figurativi – che negli ultimi tempi hanno fatto grandissimo uso degli oggetti, a partire dal movimento Dada, per costruire le loro opere e le loro installazioni – la capacità di vedere nelle cose dismesse, inutili e considerate scarto, le potenzialità per costruire un mondo diverso, abitabile dagli esseri umani.

 

MC.: Volevo leggerti dieci righe che hai scritto alla fine del libro, poi ti spiegherò perché: «Naturalmente non è compito dell’artista salvaguardare e restituirci il valore utilitaristico che gli oggetti scartati e i materiali in essi contenuti conservano. Il suo compito è quello di mantenere aperto il campo delle possibilità che gli oggetti racchiudono e a volte esprimono per la prima volta proprio quando sono scartati, quando hanno perso l’utilità per la quale erano stati prodotti, ma continuano ciononostante a occupare il campo della nostra vita quotidiana». Tra le tante osservazioni di questa parte del libro, questa veramente mi sembra essenziale: restituire alle possibilità scartate la possibilità di vivere. C’è un elemento redentivo, quasi.

GV.: Sicuramente, come c’è un elemento redentivo anche nel nostro rapporto con l’essere vivente, che è più facile da intuire anche perché poeti, scrittori, artisti nel corso della storia dell’umanità si sono soffermati di più su di esso. D’altronde, fino al pieno avvento della società industriale, la maggior parte di ciò che ci circondava era costituito da esseri viventi appartenenti al cosiddetto mondo della natura e gli artefatti erano soltanto una piccola componente del contesto. Oggi non è più così: o noi riusciamo a instaurare, grazie al lavoro degli artisti, un rapporto positivo con la maggior parte dei manufatti che ci circondano, facendoci aiutare da loro a riscoprirne le potenzialità o anche soltanto a resuscitare la nostra immaginazione, oppure evidentemente rischiamo di rimanerne sommersi.

 

MC.: Questa del possibile è una categoria che viene utilizzata forse con troppo risparmio…

GV.: Perché è molto difficile utilizzarla: quando si ha un manufatto creato in funzione dell’uso che deve avere, è molto difficile vederci qualcosa di differente. Un oggetto prodotto artificialmente si presenta a noi già con la sua destinazione d’uso, ci vuole una bella fantasia per immaginare qualcosa di differente.

 

MC.: Si tratterebbe di riprendere concetti ed esperienze come quella della gratuità, ad esempio, di stili di vita che sono anche modi di convivere con i propri oggetti, come con la natura… da questo punto di vista s’intrecciano le varie posizioni.

GV.: Sì, tra l’altro c’è una dimensione emotiva del nostro rapporto con gli oggetti, che l’usa e getta e la funzionalità degli oggetti stanno cercando di distruggere, anche se non riusciranno mai a farlo definitivamente. Una volta, quando gli oggetti di cui eravamo circondati erano destinati a durare per sempre, anche attraverso diverse generazioni, era più facile affezionarvisi. Oggi è difficile affezionarsi a una penna biro, è più facile affezionarsi a una Mont Blanc, ma anche quella ormai è diventata un oggetto usa e getta. Ho rilevato il fatto che la fascinazione che i rifiuti esercitano su molti di noi, in particolare sui ragazzi, è anche dovuta a questo: nelle cose che noi buttiamo via, che finiscono nell’inceneritore o nella discarica, c’è una parte del nostro passato. La nostra vita è sempre legata a degli oggetti materiali, innanzitutto agli abiti che indossiamo, agli oggetti che usiamo e di cui ci circondiamo. Più frenetico è l’alternarsi di questi oggetti, più difficile è per noi sviluppare dei sentimenti di carattere positivo nei loro confronti. Più riusciamo invece a farli durare e più questa dimensione affettiva, che è all’origine della scoperta delle potenzialità dell’oggetto, può tornare a emergere.

 

MC.: Anche qui, se non sbaglio, Anders diceva: «noi siamo gli assassini delle nostre cose».

GV.: Certo, addirittura le costruiamo per essere ammazzate il più presto possibile.

 

MC.: Sì, Una sorta di obsolescenza programmata. Passando ad un altro punto del tuo discorso: la lotta di classe non è scomparsa, sennonché la fanno i ricchi contro i poveri.

GV.: Quello soprattutto. E, soprattutto non sono scomparse le classi. Il problema non è quello di andarle a cercare in base a concetti preesistenti, ma cercare di scoprire nelle differenze tra esseri umani dei fattori che possano costituire elementi di ricomposizione, di riunificazione, di relazioni sociali e quindi di unità di classe. Va fatto su componenti della nostra esistenza che sono reali, vissuti, sofferti e non presupposti. Quindi è un lavoro di analisi e di scoperta che va svolto. In questo, il ’68 era stato un antesignano, perché l’analisi dei rapporti di potere all’interno delle istituzioni era il suo terreno di lavoro prioritario, su questo aveva svolto un compito egregio. Poi si è andato a perdere nella categorizzazione, nello schematismo di contrapposizioni che finivano per non permettere più di leggere le differenze come fattore di ricomposizione dell’unità.

 

MC.: Anche perché, d’altra parte, sistematicamente c’è la distruzione dei legami sociali.

GV.: Certo, questo fa parte della forma attraverso cui viene esercitato il dominio di classe, il dominio del capitale, se vogliamo chiamarlo così. Il suo mondo è l’individualismo, cioè il tentativo di mettere ciascuno per conto suo contro tutti gli altri. Fare della competizione universale il carattere non solo fondamentale, ma ineludibile della condizione umana: si nasce per competere, questo è quello che ci viene insegnato a scuola.

 

MC.: Sì, è un atteggiamento che passa a scuola attraverso l’organizzazione scolastica.

GV.: Tutto il discorso sul merito è questo: la competizione, utilizzata come fattore costitutivo della condizione umana, è nelle aspirazioni che l’uomo deve porsi. L’uomo deve porsi come compito quello di competere e di vincere la competizione con tutti gli altri. La solidarietà, la condivisione, la cooperazione sono bandite, se non come forme per affrontare la competizione stessa.

 

MC.: Per ristabilire un principio d’ordine di tipo autoritario. La situazione è complessa, perché è come se i poteri che si esercitano fossero dispiegati tutti insieme, dal potere nazionale dello Stato-nazione al micro-potere di Foucault. È come se tutto il repertorio venisse suonato per produrre dei soggetti congruenti.

GV.: Certo. Da questo punto di vista, il capitale oppure il sistema di dominio – chiamiamolo come vogliamo – ha imparato molto dall’esperienza degli ultimi cinquanta, sessant’anni. Ha saputo appropriarsi di quasi tutto quello che era stato elaborato inizialmente per contrapporsi, o perlomeno per sottrarsi, alle componenti più sgradevoli del suo dominio, che invece sono state assimilate o sussunte – per usare un termine marxiano – dentro la cultura dominante.

 

MC.: Mi sembra che tu individui un nesso stretto tra razzismo e crisi ecologica, cioè che il razzismo non sia legato semplicemente alla sfera morale o etica delle persone, ma che sia un fattore di innesco per ciò che riguarda una situazione più ampia, più generale.

GV.: Da un lato, gran parte delle migrazioni ha suscitato e alimentato le pulsioni più razziste e anche le forme razziste di sfruttamento: la razzializzazione della forza lavoro, della manodopera, è una componente fondamentale dell’organizzazione sociale. Pensiamo all’agricoltura, ai ristoranti, a molte fabbriche. Nel mondo occidentale, il dominio dell’impresa si regge attraverso la razzializzazione della manodopera, cioè lo sfruttamento differenziato a seconda dell’origine etnica della popolazione. Ormai credo che il femminismo, la cultura femminista, in particolare per quanto riguarda, ad esempio, i lavori di Silvia Federici, ci abbiano spiegato che l’avvento del capitalismo, che poi è nient’altro che l’avvento della modernità, della cultura moderna, è fondato sul razzismo che si è sviluppato a partire dalla scoperta delle Americhe. Il razzismo c’era già nell’antica Grecia e credo in tutte le civiltà antiche, ma non era un approccio ai rapporti umani fondato sulla considerazione dello straniero come essere inferiore. Il disprezzo investiva lo straniero come essere vinto, sottomesso, su cui si era acquisito un dominio. Invece, con la scoperta delle Americhe, si è cominciato a considerare la popolazione indigena come una cosa, come una risorsa fisica a disposizione, come lo erano le miniere d’oro e d’argento, come lo erano i territori su cui sono state installate le piantagioni di cotone, gli allevamenti di bovini, eccetera. Questo non c’è in Marx, ci sono accenni, ma non c’è la consapevolezza che il lavoro salariato è nato anche grazie al lavoro schiavistico, che ha permesso all’Europa l’approvvigionamento di materie prime in una misura senza la quale la rivoluzione industriale non sarebbe mai stata possibile.

 

MC.: La fase tragica dell’affermazione del capitalismo…

GV.: Tra l’altro, è un risvolto che è stato taciuto, soprattutto dopo Marx che ne era invece vagamente consapevole. Tutta l’evoluzione della scienza economica che c’è stata in seguito, ha completamente cancellato e obnubilato questa dimensione dello sviluppo, della stessa nascita della modernità e della cultura moderna, mentre invece ne è il fondamento materiale concreto.

 

MC.: In effetti, in un altro passaggio, scrivi: «trattare gli uomini e le donne come cose significa dunque trattarli come mere risorse umane». Sono i nostri corpi messi al lavoro, sostanzialmente.

GV.: Non a caso, il termine “risorse umane” è stato introdotto senza nessuna resistenza. Nessuno, per molto tempo, si è reso conto che parlare di risorse umane era esattamente adeguare il linguaggio a questo approccio: gli uomini non sono nient’altro che materiale da sfruttare per far progredire l’accumulazione del capitale, la crescita a tutti i costi. Quella che Marx chiamava “accumulazione del capitale” è quella che oggi si chiama “crescita”, solo che chiamata “accumulazione del capitale” sembra una cosa da mettere al bando e da esecrare; chiamata “crescita” invece diventa l’obiettivo fondamentale, ineludibile, insopprimibile, dell’esistenza dell’umanità. In questo, il capitalismo e le classi dominanti sono riusciti a compiere un passo importante, cioè rendere desiderabile – o comunque obiettivamente desiderata – la cosa più atroce che caratterizza il modo di produzione capitalistico.

 

MC.: A un certo punto fai una riflessione sulla soggettività, particolare perché non se ne parla, del soggetto, se non nella sua dissoluzione, oppure in certi francesismi teorico-filosofici non sempre molto chiari. Mi sembrava un punto su cui orientare la riflessione…

GV.: Io volutamente non uso quasi mai questi termini – soggettivo, soggettivazione, soggettività, eccetera – perché li considero profondamente svianti. Intanto perché contrapposti a “oggettività”, richiamano immediatamente la contrapposizione tra gli esseri umani e il resto del mondo, tra natura e cultura, eccetera. Poi perché, nella sua stessa formulazione originaria, l’ὑποκείμενον, il soggetto greco, è quello “che sta sotto”, il suddito. Quindi parlare di soggettività come capacità di iniziativa, capacità di prendere parola e di agire autonomamente, mi sembra profondamente sviante. Quella di soggetto, di soggettività, è una terminologia che rimanda immediatamente all’oggetto, alla sua contrapposizione con l’oggetto. Non è più utilizzabile all’interno di una cultura che, se non ci è riuscita, aspira comunque a sopprimere, a superare la distinzione tra natura e cultura e quindi tra soggetto e oggetto.

 

MC.: Comunque è una critica al soggetto di altra specie rispetto a quella che certe filosofie hanno fatto in questi anni recenti.

GV.: Si, è più simile alla critica che ne stanno facendo gli antropologi, la parte più consapevole dell’antropologia. Per esempio, Descola, secondo me, è un punto di riferimento obbligato per questo progetto culturale di superamento della distinzione tra natura e cultura, tra soggetto e oggetto.

 

MC. In effetti, «l’autonomia personale, la possibilità è la capacità di autogoverno che è il senso profondo della libertà si può formare solo in contrapposizione al conformismo imperante, quello improntato al perseguimento di un tornaconto individuale proposto e imposto dai meccanismi della competizione universale». Mi sembra molto chiaro quello che scrivi.

Rimane aperto il problema se la decrescita segni decisamente una differenza rispetto al mondo attuale o anch’essa venga ricompresa poi nelle istanze di tipo economico. Questo mi sembra un punto importante, perché chiama in causa riflessioni teoriche e pratiche collettive, però la decrescita fa fatica ad affermarsi nei confronti del potere dell’economia. È evidente che occorrerebbe una riflessione profonda sul disastro ecologico e sui beni comuni, che porterebbe alla luce l’incompatibilità sostanziale tra capitalismo e vita. Non c’è alcun desiderio di affermare le ragioni della vita nei poteri dominanti. Questo è il secondo punto, che è legato all’individuazione dei limiti dello sviluppo e alla critica del concetto stesso di sviluppo nella sua forma come progresso. Ultime considerazioni – ce ne sarebbero molte – sono l’ossessione identitaria, a cui avevamo già fatto riferimento, e la lotta di classe che i ricchi fanno nei confronti dei poveri, fino ad accettare e imporre pratiche sterminazioniste. Si pensi al trattamento subito dai migranti. Infine, che cosa resta della sinistra? Sempre più impotente e incapace di proporre princípi solidali ed egualitari.

GV.: Bene, cominciamo dalla decrescita. Io sono da tempo contrario al termine decrescita, per due motivi: perché è di difficile uso nel contatto con le persone più esposte alla miseria, alla povertà, alla mancanza di possibilità di fruire dei frutti del cosiddetto sviluppo e perché si offre molto facilmente come bersaglio alle critiche, alle ironie della parte avversa. Allora, devo dire che nel corso del tempo su questa posizione, che è di carattere puramente lessicale, ho avuto due incontri con la Latouche, in entrambi criticando il termine, ma in entrambi dicendogli che l’espressione che utilizzavo io, cioè “conversione ecologica”, sostanzialmente era la stessa cosa. Ora, in preparazione del prossimo incontro sulla decrescita, che si svolgerà a Venezia il 7, l’8 e il 9 settembre, a cui parteciperò proprio con un gruppo di discussione sul lavoro, una delle premesse che ho fatto è che ormai non c’è più sostanziale contrapposizione se non da un punto di vista terminologico tra i fautori della decrescita, quelli della conversione ecologica, quelli dell’ecosocialismo e di altre visioni, perché sostanzialmente l’obiettivo della crescita e l’ossessione della crescita che caratterizzano ancora a livello ufficiale il discorso politico e il discorso economico di tutti (dei media, dei politici, degli accademici) è diventato oggetto di critica pubblica e dichiarata non solo da una quantità di attivisti impegnati direttamente sul terreno della pratica sociale, ma anche, ormai, da moltissimi intellettuali che si occupano di problemi ambientali e della crisi ecologica.

Il problema centrale è che non si può pensare di affrontare i problemi dell’oggi e della nostra epoca senza abbandonare definitivamente l’idea che l’economia possa crescere a tempo indeterminato. Occorre vedere invece – su questo verrà incentrata la discussione in questa riunione sulla decrescita di cui ho parlato – come obiettivi di carattere generale, che comunque contemplino l’abbandono dell’obiettivo della crescita, possano saldarsi alle lotte e alle iniziative di contrasto al potere e all’ordinamento capitalistico che sono in corso. Da questo punto di vista, al convegno sulla decrescita sono stati invitati i protagonisti di alcune delle lotte più importanti degli ultimi anni, dalla Val di Susa alla GKN, dalla lotta dei lavoratori e della popolazione di Civitavecchia ad alcuni protagonisti di GAS e di distretti di economia solidale, che sono all’avanguardia nel tentativo di costruire delle alternative pratiche all’economia basata sulla crescita.

 

MC.: Il riferimento è a forme e a culture indigene.

GV.: Sicuramente questo elemento c’è e non è secondario il fatto che Papa Francesco abbia dato crescente importanza alla riscoperta e rivisitazione della cultura amazzonica, che lui conosce meglio di altre culture indigene, in cui comunque il tema centrale (che vedremo meglio dopo) è la riscoperta e rivalutazione del rapporto strettissimo che esiste tra l’essere umano e resto del mondo, abbandonando una contrapposizione tra natura e cultura – di cui avevamo già parlato – che ha nella cultura antropologica moderna uno dei suoi punti di elaborazione più significativi.

 

MC.: Questa visione dell’economia mi sembra che richiami, a livello politico, la richiesta di democrazia “partecipata”, come tu scrivi, diffusa e inclusiva.

GV.: Questo è certo. Qualsiasi obiettivo di rivisitazione radicale del sistema economico e sociale richiede strumenti e soprattutto pratiche di partecipazione diretta delle persone coinvolte che la democrazia rappresentativa attuale, per non dire tutte le altre forme di dittatura o di autoritarismo, escludono a priori. L’essere umano si deve trasformare, da spettatore e destinatario finale delle pratiche politiche che si svolgono altrove, in protagonista. Per cui il rapporto con la democrazia rappresentativa è diverso a seconda delle diverse concezioni e pratiche politiche che oggi sono attive. Alcuni pensano che debba essere riformata, altri che sia una cosa superflua e superata che dovrà essere sostituita da nuove istituzioni che appunto prevedano questa partecipazione. Questa discussione si lega molto strettamente al punto che mi avevi segnalato sui beni comuni, sui quali ho fatto una battaglia di cui si trova traccia anche nel libro di cui stiamo discutendo, sul fatto che il concetto di “bene comune” non è un concetto di carattere merceologico di cui si possa fare un catalogo, ma che invece è strettissimamente legato al livello e al grado di partecipazione che c’è tra i gruppi sociali interessati alla rivendicazione della sua riappropriazione da parte dei suoi fruitori, sottraendolo sia alla proprietà privata, sia a una gestione statale puramente gerarchica e verticistica, analoga a una gestione privata. Tanto è vero che molti dei beni pubblici hanno in comune con i beni privati la caratteristica fondamentale che li esclude dall’ambito dei beni comuni e cioè il fatto che possono essere alienati. Una delle caratteristiche ineludibili dei beni comuni è che appartengono per sempre alla comunità che se ne prende cura, fino a che questa c’è, ovviamente.

 

MC.: Si può dire che i due soggetti sono, da un lato, il monolite del capitale concluso in se stesso e, dall’altro, la condizione plurale della comunità umana, come ben ricorda Hannah Arendt? Altrettanto evidente è la crisi della politica, espressa da un ceto politico rozzo, la cui unica preoccupazione è garantire i privilegi delle classi abbienti.

GV.: No, non c’è assolutamente un ceto politico adeguato. Su questo bisogna essere drastici. Quello che stanno mostrando gli ultimi decenni, in particolare l’esplosione della crisi ambientale, che è diventata di pubblico dominio nel corso di pochi mesi o pochi anni, è l’assoluta, totale inadeguatezza del ceto politico in tutti i Paesi e a tutti i livelli a gestire una crisi di questo genere. Un ceto politico che si è formato, è vissuto ed è stato selezionato in un contesto totalmente diverso e sfalsato, per cui tutte le sue doti, se ce le ha, si sono sviluppate rispetto a problemi assolutamente non coincidenti con quelli che si trova a dover affrontare, che sono innanzitutto la delegittimazione di un’economia che non è più sostenibile e la partecipazione della comunità alla vita pubblica, che progressivamente è stata espunta dai loro obiettivi, dalla loro pratica e dalla loro stessa capacità di concepirla. Lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni per quello che riguarda il nostro Paese, ma anche in altri le cose non sono molto differenti. Forse c’è un po’ più dignità e meno sbracamento nel ceto politico di altri Paesi, ma la sostanza della critica riguarda tutti.

 

MC.: Quindi è una vera e propria crisi della rappresentanza?

GV.: Sì, la rappresentanza non esiste… il concetto di bene comune, di gestione del bene comune, non vuol dire che tutti i membri di una comunità si debbano occupare in maniera uguale della gestione di questo bene. È sufficiente che lo faccia un gruppo consistente e differenziato al suo interno, per essere in qualche maniera rappresentativo della comunità e soprattutto per avere dalla comunità una qualche forma di riconoscimento. Dopodiché, siccome i beni comuni (a parte quelli generali che sono il pianeta, l’atmosfera, gli oceani, il suolo, eccetera) hanno una caratterizzazione localistica, sono localizzati in determinati posti, è chiaro che le comunità, se devono farsi carico dei beni comuni, sono non soltanto localizzate anche loro, in quanto occupano una parte più o meno ampia di un territorio del nostro pianeta, ma anche differenti. I beni comuni sono tanti, differenti da luogo a luogo e all’interno di una stessa comunità ci può essere un gruppo che si occupa particolarmente dell’uno e un altro gruppo che si occupa particolarmente dell’altro, purché entrambi abbiano in qualche modo una specie di riconoscimento, o comunque non di rifiuto, dalla maggioranza della comunità di cui sono espressione.

 

MC.: Quindi una sorta di struttura federale, se ho capito bene…

GV.: Sicuramente. Però non federalismo delle nazioni o degli Stati, non federalismo delle regioni, ma quello su cui insisto anche nel libro è un federalismo dei comuni, o delle comunità quando i comuni sono troppo grandi per essere vissuti come un bene comune da parte di tutti quanti. Questo vuol dire che, a livello generale, il coordinamento non è affidato a un sistema di pianificazione centralizzato, né al mercato, ovviamente, ma a dei processi negoziali continui fra le comunità. Anche la ricostruzione di una filiera produttiva, come può essere quella di un bene complesso come un computer o un mezzo di trasporto (non parliamo più di automobili), che ovviamente coinvolge una quantità di comunità differenti, dal punto di estrazione della materia prima, fino al punto di riciclaggio dei prodotti scartati, evidentemente può essere tenuta in piedi solo da processi negoziali fra comunità diverse. Non fra le aziende, ma fra le comunità, perché l’altra caratteristica fondamentale è che fabbriche, impianti e aziende, in una gestione condivisa e partecipata della società, devono cessare di essere amministrate esclusivamente dai proprietari o anche solo dalle maestranze o dal management di quelle aziende, ma in qualche maniera, che può essere anche molto differenziata e variare da luogo a luogo, deve coinvolgere la comunità delle persone che sono impegnate nel lavoro e di quelle che ne subiscono direttamente l’impatto, sia negativo, dal punto di vista ambientale, sia positivo, dal punto di vista del reddito e della capacità di reggere la situazione economica. È questa comunità che deve farsi carico della ricostruzione e della gestione delle filiere e dei processi produttivi complessi e non la singola azienda, anche se ovviamente le competenze tecniche per la realizzazione di queste negoziazioni fanno capo chi le ha, cioè a chi lavora all’interno dell’azienda o ne è in qualche maniera coinvolto.

 

MC.: Per spostare il discorso, ma non di troppo: il riferimento all’ossessione identitaria e al razzismo, su cui si giocheranno anche le elezioni evidentemente…

GV.: È così da tempo, da quando la lotta alla migrazione non regolare ha preso il sopravvento ed è diventata l’argomento centrale delle competizioni elettorali, cioè, direi, da almeno una decina di anni in Europa e forse qualcosa di meno o qualcosa di più negli Stati Uniti. Questo nasce dal fatto che le migrazioni non regolarizzate hanno subito un aumento nel corso degli ultimi anni, anche a causa del deterioramento climatico e ambientale e soprattutto a causa delle guerre e dei conflitti che la riduzione delle risorse disponibili ha creato tra popolazioni costrette per questo a migrare. Però è altrettanto chiaro che le migrazioni che hanno toccato i Paesi dell’Europa sono molto selettive: le persone che cercano di varcare i confini e insediarsi nel Paese di arrivo sono soprattutto quelle che hanno la forza, il coraggio e l’iniziativa per affrontare un viaggio del genere. Teniamo conto che nel primo decennio del dopoguerra, tra il 1945 e la fine degli anni Cinquanta, l’Europa ha assorbito venti milioni di migranti, di cui una decina dai Paesi dell’est europeo e una decina dai Paesi del Mediterraneo, sia europei, come Spagna, Portogallo, Italia, Grecia e Turchia, sia della sponda sud, come Maghreb e Marocco. Questi sono stati il nerbo del miracolo economico degli anni Sessanta. A partire dall’avvento del cosiddetto neoliberismo, cioè della rivincita che il ceto capitalistico è riuscito ad avviare con il ritorno alle privatizzazioni e al mercato, il problema dell’assorbimento della manodopera è diventato centrale. Questo rifiuto dei migranti è stato una reazione alla globalizzazione, le popolazioni si sono giustamente sentite espropriate di qualsiasi forma di controllo sul loro futuro perché ormai le decisioni venivano prese a livello planetario, in sedi sottratte a ogni forma di controllo e anche di visuale da parte delle persone soggette. Quindi la reazione a un sistema da cui si vedevano espropriate è stata un ritorno all’identità: difendere il proprio territorio, la propria identità fittizia, una propria sicurezza interamente da costruire su dei miti, come reazione fasulla e sostanzialmente ineffettiva nei confronti di un’espropriazione che invece era reale e molto violenta. Su questo poi si sono innescate tutte le mitologie culturali: la riscoperta della cultura celtica da parte della Lega, il mito della grande Russia da parte di Putin e di tutto il nazionalismo russo, che ha avuto un’influenza molto grande anche sul nazionalismo europeo occidentale. La stessa cosa la ritroviamo negli Stati Uniti, dove il partito repubblicano si è completamente ristrutturato a partire da una rivendicazione identitaria di bianchi, cristiani, tradizionalisti, anche lì falsa e inventata, che però ha una forza di affermarsi e di farsi valere che ha superato qualsiasi previsione fatta fino a pochi anni fa.

 

MC.: Semplificando possiamo affermare che, come i campi di sterminio sono la forma in cui una collettività è stata governata, oggi oltre ad essi, che continuano a permanere, c’è una nuova forma di dominio: la discarica.

GV.: Certo. Bauman ha insistito molto su questo tema del modo di gestire i rifiuti, disinteressandosi e considerandoli qualcosa di cui non c’è più bisogno di occuparsi perché c’è qualcuno che se ne occupa, purché vengano sottratti alla nostra vista e alla nostra vita quotidiana. Questo sistema, di cui parlo nel mio libro, si è trasferito dalle cose agli uomini, per cui le vite di scarto sono quelle che non sono più funzionali o alla produzione o – soprattutto, per Bauman – al consumo, che è il carattere dominante del neocapitalismo e dell’epoca in cui viviamo. Ovviamente, questo scarto da qualche parte finisce. Per quel che ci riguarda, finisce nei fondali del Mediterraneo, nei Lager della Libia e nei Paesi che noi abbiamo esplicitamente incaricato di gestire i nostri scarti: la Turchia, la Libia, il Sudan, il Marocco. In parte, affrontando un altro tema a cui tu facevi riferimento, nella separazione sempre più rigida tra chi può e chi non può, chi ha e chi non ha, chi ha ancora accesso a una vita ufficiale riconosciuta, di lavoro, di produzione e di consumo, e chi invece è escluso, cioè i poveri, che sono sempre più relegati in una sorta di discariche costruite all’interno delle cittadelle del fu benessere. Non è caccia ai migranti; teniamo conto che quando arriva uno sceicco arabo gli stendiamo tappeti d’oro. Quindi non è razzismo in senso razziale quello che ci caratterizza, quello che noi rifiutiamo è il migrante povero. Da questo punto di vista, anche il povero europeo è relegato in luoghi differenti e separati da quelli della vita normale.

L’altro elemento molto forte della cultura identitaria, su cui non viene posta sufficiente attenzione, anche perché viene condiviso sia da destra che da sinistra, è il concetto di “decoro”. Il nostro strumento fondamentale di emarginazione dei poveri e degli esclusi dall’ambito della vita di tutti quanti gli altri cittadini ammessi, per ora, alla vita normale è la difesa del decoro, dell’ambiente, della città. I poveri sporcano, non solo con i loro rifiuti, che non sanno dove scaricare e che peraltro sono di quantità molto ridotta, ma con la loro stessa presenza.

 

MC.: Agli inizi, le battaglie della Lega andavano proprio nella direzione del decoro. Si trattava di espellere dal centro della città presenze che incarnavano vite dolorose, quindi intollerabili alla vista. Da qui, la deportazione dei rom e non solo. Il decoro rinvia anche all’erosione della prossimità, dove l’altro è nemico, perfino nemico assoluto e quindi sterminabile.

GV.: Certo. Adesso, a livello nazionale meno, perché il problema è più l’identità culturale, in senso razziale; ma quando poi arrivano le elezioni locali, il concetto di decoro torna in primo piano come strumento principale di discriminazione.

 

MC.: Nella catastrofe dell’umano che caratterizza i nostri tempi, di cosa abbiamo bisogno?

GV.: Ci sono due cose: una è una battaglia culturale, di rivalutazione e riscoperta dell’importanza del legame che ci unisce a tutto il resto del vivente, che è condizione stessa della qualità della nostra esistenza, cosa che lo sviluppo capitalistico degli ultimi due secoli aveva completamente offuscato, mettendo al centro il consumo, il benessere, la produzione di beni come indicatore della qualità della vita. Oggi c’è una battaglia culturale da svolgere in questo campo: la qualità della vita non dipende dalla quantità e dalla qualità dei beni di cui entriamo in possesso, ma dalla capacità di mantenere un contatto effettivo, produttivo e costruttivo con quel che resta di quei beni primari con cui la natura ci mette in contatto. Di questa battaglia ci sono segni molto evidenti nelle tante comunità che si battono contro lo stato di cose presente: in molteplici forme, dall’animalismo all’antispecismo, alla riscoperta delle culture indigene, fatta in maniera esplicita anche dal Papa e da quel poco di cultura cattolica che lo sostiene.

L’altro concetto fondamentale è quello di partecipazione, di cui abbiamo già parlato. Sul lato culturale, quindi, la riscoperta del vivente, sul lato pratico, la capacità di coinvolgere un numero crescente di persone in processi partecipativi di gestione, di lotta o di entrambe le cose, per i beni comuni. Da questo punto di vista, la mia posizione sul tema della partecipazione è drastica: senza conflitto non c’è partecipazione. Quello che anima e smuove le persone è il conflitto, è l’individuazione di un bene di cui riappropriarsi e di un avversario che tenta a sua volta di appropriarsene in maniera privata o di mantenerne una gestione e un controllo estranei alla giusta fruizione da parte della comunità. La lotta per la partecipazione, che è centrale, perché senza partecipazione non c’è possibilità di costruire una democrazia né una rappresentanza della popolazione alternativa, è strettamente legata ai conflitti. Infatti, abbiamo una crescita verticale della partecipazione, a volte sporadica, perché poi cade dopo il momento alto della lotta, ma in alcuni casi sopravvive invece in forme diverse, là dove c’è un conflitto. L’esempio più importante che abbiamo sotto gli occhi è indubbiamente la Val di Susa, perché in trent’anni, attraverso il conflitto, in una maniera o nell’altra, sono riusciti a tenere in piedi e a sviluppare forme di lotta radicali, pur essendo condivise dalla maggioranza della popolazione, ma anche estese, perché vanno molto al di là dell’obiettivo specifico su cui si incentra la lotta: vicende che hanno avuto una funzione esemplare per tutto il resto del Paese.

 

MC.: Mi ero ripromesso di non chiederti niente sul Sessantotto, però di un fenomeno storico rimangono delle virtualità, un possibile che magari non si è sviluppato, ma che continua ad agire nella storia come motore. È un po’ questo il Sessantotto, con tutte le sue contraddizioni dolorose e gioiose che hanno coinvolto gruppi e persone? Questa virtualità può ancora funzionare oppure è oggetto degli storici e non ha più un valore che non sia una pura testimonianza di vite di qualcuno?

GV.: Intanto ti comunico che a fine settembre o inizio ottobre uscirà un mio libro sul ’68 che si intitolerà Niente da dimenticare – Verità e menzogne su Lotta Continua. Il libro è diviso in due parti: la seconda è una ricostruzione del processo Calabresi, come tentativo di seppellire per sempre non solo Lotta Continua, ma gran parte della cultura del ’68, di cui, secondo me, Lotta Continua era stata una delle maggiori espressioni. La prima parte invece è composta, da un lato, dalla relazione che avevo fatto al convegno a cui anche tu hai partecipato, per il quale avevo preparato un testo scritto che ho ampliato e approfondito, dall’altro, da una serie di articoli e pezzi vari che ho scritto sul ’68. In questa prima parte, io rivendico il carattere sostanzialmente unitario della cultura antiautoritaria e delle sue motivazioni, che hanno caratterizzato il Sessantotto in tutto il mondo, in netta contrapposizione con l’operaismo o la cultura marxista-leninista che è rimasta nei cliché del ’68 l’elemento caratterizzante. Dopodiché, dico che quella cultura aveva completamente perso il suo mordente già allora. Per questo il suo ruolo è venuto meno quando si è scoperto che il tema ambientale era e doveva essere centrale in qualsiasi presa di posizione politica o contestativa e che lo strumento fondamentale di lotta non poteva essere solo la contestazione della gerarchia sociale e, quindi, dei rapporti di potere fra gli esseri umani all’interno della società, che ha caratterizzato la cultura antiautoritaria del ’68, ma doveva essere una presa di posizione contro la gerarchizzazione del vivente, per cui gli esseri umani vengono posti al vertice di una piramide in cui gli altri esseri viventi sono sottovalutati e addirittura dimenticati o estromessi dalla considerazione.

 

MC.: Sono apparsi alcuni libri su Lotta Continua. Alcune questioni rimangono aperte. Tra queste, pur consapevole di operare una semplificazione, la questione della forza, che ha segnato dolorosamente l’esperienza di Lotta Continua e non solo, e il conflitto che oppone alle diverse forme di gerarchizzazione.

GV.: Mi è capitato, rivedendo il mio testo e cercando di arricchirlo un po’, di notare come sei storici del Sessantotto che ho citato, che sono Revelli, De Luna, Ortoleva, Anna Bravo e Luisa Passerini, sono tutti provenienti dall’esperienza di Lotta Continua di Torino. Mi trovo in gran parte d’accordo con la loro ricostruzione e penso che la cosa non sia casuale. Non c’è dubbio che Torino abbia offerto ai suoi protagonisti una chiave di lettura non solo di quell’esperienza, ma del mondo di quell’epoca più efficace e più approfondita di quanto non abbiano fatto altre esperienze.

 

MC. Rimane aperta la questione se sia possibile trasformare radicalmente un sistema che ha ridotto e riduce il vivente a merce.

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