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eticaeconomia

Merito e meritocrazia: proviamo a fare chiarezza

di Andrea Boitani, Elena Granaglia, Maurizio Franzini

Andrea Boitani, Maurizio Franzini e Elena Granaglia ricollegandosi ai diversi contributi sul tema del merito e della meritocrazia recentemente pubblicati sul Menabò tentano di portare chiarezza in un dibattito esposto al rischio di confusione anche per la complessità delle questioni da affrontare. I quattro autori ritengono che sia utile distinguere tra merito individuale e prestazione meritevole e illustrano le conclusioni alle quali giungono seguendo questa distinzione, anche in relazione al rapporto tra merito e mercato

Menabo 117 791x395.x17463“L’idea di meritocrazia può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di quelle virtù”. Così iniziava, nel 2000, Amartya Sen un suo breve saggio su “Merit and justice”. Dal 2000 i tentativi di definire, esaltare o criticare la meritocrazia sono stati numerosissimi, ma la chiarezza non è aumentata di molto. I contributi che abbiamo di recente pubblicato sul Menabò possono farci fare qualche passo avanti e con questo ambizioso obiettivo abbiamo discusso tra noi delle diverse questioni sollevate in quei contributi e l’esito (di certo non da approdo nella terra della massima chiarezza) è quello di cui diamo qui conto.

La considerazione di partenza è che affiancare la parola merito a “crazia” (dal greco, cioè forza, potere) implica che la meritocrazia sia da intendersi come sistema di potere fondato su una gerarchia tra persone definita dal merito di ciascuna di esse. “In effetti – come scrive Jo Litter (Culture, power and myths of mobility, 2018, p. 3) – il significato contemporaneo di meritocrazia è tale da supportare un sistema gerarchico lineare in cui, per definizione certe persone devono essere lasciate indietro. La cima non può esistere senza il fondo”.

Per prendere posizione sulla meritocrazia è, naturalmente, inevitabile chiarire cosa si intenda per merito.

Di frequente si fa riferimento ad esso come una combinazione di talento e sforzo, e lo stesso Young, l’inventore del termine meritocrazia, definiva il merito come insieme di abilità cognitive, consistenti nel quoziente di intelligenza, e di sforzo. Questa definizione si presta ad obiezioni di cui diremo più avanti. Ora ci preme osservare che per fare chiarezza a noi sembra utile tenere più distinte di quanto normalmente avvenga, tre ‘funzioni sociali’ attribuite al merito: selezionare chi deve coprire posti (di prestigio); giustificare le disuguaglianze economiche; dare fondamento al potere e alle gerarchie sociali. Sempre allo scopo di favorire la chiarezza cercheremo di tenere distinta una riflessione sul ruolo auspicabile per il merito e sul ruolo che esso effettivamente ha nelle nostre società, con i loro specifici assetti istituzionali.

Merito e selezione. Se, in una selezione per accedere a un posto o per assegnare una specifica prestazione di positiva rilevanza per la società, premiare il merito significa premiare le competenze (derivanti dallo sviluppo dei talenti, ma non riducibili a questi “doni del caso e della genetica”), difficilmente si potrà essere in disaccordo. Le competenze dovrebbero assicurare che la prestazione venga svolta nel modo migliore, a vantaggio dei singoli e della società. Nessuna preferirebbe che l’aereo su cui viaggia o su cui potrebbe un giorno viaggiare sia pilotato da un incompetente. E nessuna vorrebbe che lei stessa o una sua parente venisse operata al cuore da un ortopedico e neanche gradirebbe che il primario dell’ospedale fosse in quel posto solo perché maschio (o femmina), politicamente fedele a questo o quel partito politico o solo perché affiliato a una lobby sindacale, padronale, religiosa, massonica, ecc. Si può anche dire che a sostegno delle competenze militano ragioni di efficienza e di non discriminazione: scegliere chi è privo di competenze e perciò offre una prestazione peggiore equivale a violare l’uguaglianza di rispetto.

In mancanza di informazioni sul modo nel quale le competenze sono state acquisite, a nostro parere, è difficile parlare di merito di chi possiede quelle competenze. Siamo di fronte a competenze ‘meritevoli’ e, quindi, a una prestazione ‘meritevole’, ma non necessariamente a un individuo meritevole.

In generale le competenze acquisite dipendono da fattori genetici, dalle opportunità a cui si è potuto accedere e dai propri sforzi. Il merito non può essere ricondotto a tutti questi fattori e di conseguenza per riconoscere merito all’individuo (e compensarlo su questa base) bisognerebbe che le sue maggiori competenze fossero dovute principalmente, se non esclusivamente, a un maggiore sforzo. Ciò non vuol dire che non debba essere selezionato chi ha più competenze ma il motivo per farlo non è perché esse sono sistematicamente un segnale del merito individuale.

Piuttosto esse possono essere un ‘titolo valido’. In una gara di tennis, ad esempio, chi ha il punteggio più elevato ha un titolo valido alla vittoria, ma potrebbe avere meno merito di chi ha giocato fino all’ultimo e ha dovuto ritirarsi per infortunio. L’equivalente dell’infortunio rispetto alle competenze potrebbe essere l’impossibilità di accedere a determinate opportunità o di essere stato ‘geneticamente’ sfortunato.

E questo ci sembra il nocciolo del principio delle “carriere aperte alle competenze” (come nell’ideale di Santambrogio, Il complotto contro il merito, 2021, Menabò, 189, 2023).

Dunque, anche in un mondo ideale in cui la selezione avvenisse sulla base delle competenze (che devono, comunque, essere accertabili) sarebbe difficile considerare meritevoli tutti coloro che le posseggono. Nel mondo reale, e troppo spesso in Italia, sono facilmente selezionati anche coloro che non hanno le (migliori) competenze e, si può aggiungere, vi sono competenze rilevanti per prestazioni utili alla società che, soprattutto per il modo in cui funzionano i mercati, restano ‘silenti’ e non sono oggetto di selezione. La questione è di rilievo per il nostro prossimo punto, che è quello del merito in rapporto alle disuguaglianze.

A latere, ancora due brevi riflessioni. La prima concerne la presenza nel merito, di una valutazione sociale. Si ha merito se si contribuisce a ciò cui gli altri/la società dà valore. Il che implica, fra l’altro, sia inserire nel merito un ulteriore elemento che non dipende dai singoli sia aprire la porta alla necessità di una riflessione collettiva su cosa ritenere degno di valore. La seconda concerne il ruolo dello sforzo e il suo rapporto con le competenze acquisite. Potrei sforzarmi tanto, ma se non ho abilità non posso aspirare ad essere selezionato per svolgere una prestazione meritevole che richiede competenze. Più complessa è la questione, su cui non ci soffermiamo, del ruolo dello sforzo, da solo, nella definizione della disuguaglianza economica.

Merito e disuguaglianze. Se il modo in cui sono state acquisite le competenze non è rilevante per la selezione dei ‘migliori’ lo è, invece, per giustificare le disuguaglianze economiche e per riconoscere premi a chi le possiede. Sul tema, resta difficile ignorare il monito di Joel Feinberg (Doing and Deserving, 1970, p. 91), secondo il quale “distribuire salari, profitti e stipendi come simboli del riconoscimento di un talento superiore sembra inappropriato e, in effetti, ripugnante; perché ciò significherebbe interpretare il principio ‘persone migliori meritano cose migliori’ in modo pienamente incoerente con le idee democratiche e liberali”.

Se alla base di qualsiasi giustificazione delle disuguaglianze deve esservi il merito individuale, il riferimento alle competenze riconosciute, e al successo anche economico che può derivarne appare largamente insufficiente e forse anche fuorviante. Occorrerebbe, infatti, che vi fosse il merito inteso soprattutto come sforzo (e come disponibilità a farsi carico di rischi e responsabilità fuori dell’ordinario) e qualora le competenze includano anche il vantaggio genetico e quello sociale di accesso a migliori opportunità, premiarle non equivale a premiare il merito. Per contro, “coloro che sono stati favoriti dalla natura, chiunque essi siano, possono trarre vantaggio dalla loro buona sorte solo a patto che migliorino la situazione di coloro che ne sono rimasti esclusi” (John Rawls, Una teoria della giustizia, 1982, p. 98).

La condizione minima per giustificare con il merito individuale il premio riconosciuto alle competenze, è di non aver goduto di migliori opportunità degli altri. Non a caso l’uguaglianza di opportunità è al cuore di qualsiasi declinazione di giustizia sociale (Granaglia, Uguaglianza di opportunità. Sì ma quale?, 2022). Tuttavia, definire in modo preciso una convincente uguaglianza di opportunità è compito non semplice, anche in astratto. Realizzarla, poi, è quasi impossibile. Dunque, a noi pare, che riconoscere un premio a chi effettua una prestazione meritevole è cosa diversa dal riconoscere un premio a chi ha un merito. Il mercato, nel migliore dei casi, premia le prestazioni meritevoli e, punto essenziale per giustificare le disuguaglianze economiche, lo fa in un modo che non rispetta (e come potrebbe essere diversamente?) le disuguaglianze di ‘valore’ delle prestazioni meritevoli. A meno di non credere che queste ultime derivino dalle disuguaglianze che decreta il mercato, e non viceversa.

La complessità delle questioni collide violentemente con la faciloneria di tante difese meritocratiche della disuguaglianza di mercato. Sintetizziamo: il) mercato solo casualmente potrebbe premiare il merito, perché non può andare oltre le competenze (sempre che non premi, invece, le rendite di posizione); il mercato non è in grado di far corrispondere la scala di merito delle prestazioni (oggetto quasi inconoscibile) alla scala delle retribuzioni economiche; infine ma è forse il punto cruciale – il mercato non considera prestazioni che non passano dalle sue parti e che possono essere meritevoli nonché espressione di merito individuale.

Peraltro viene da osservare che talvolta si rischia di cadere in una sottile contraddizione. Da un lato si dice, almeno con riferimento al nostro paese, che non viene premiato il merito nella selezione ma dall’altro si afferma che le disuguaglianze che osserviamo sono meritocratiche. Questa contraddizione forse condensa in sé una buona parte della mancanza di chiarezza di cui si diceva in apertura.

Il merito e il suo ‘lato oscuro’. Il lato oscuro della meritocrazia è così riassunto da Michael Sandel nel libro che ha segnato una ripresa su larga scala della discussione critica sulla meritocrazia: “il principio che il sistema premia il talento e il duro lavoro incoraggia i vincitori a considerare il proprio successo quale frutto delle proprie azioni, una misura della propria virtù e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. L’arroganza meritocratica riflette la tendenza dei vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che li ha aiutati sul cammino” (Sandel, 2020, p. 25, anche p. 123).

Potremmo riformulare questa affermazione per tenere conto della distinzione tra merito e prestazione meritevole su cui ci siamo soffermati, ma la sostanza cambierebbe poco. Il successo economico (al quale ci riferiamo), quale che ne sia l’origine, rischia di diventare fattore di stratificazione sociale perché utilizzato come prova dei propri superiori meriti. La questione non vale soltanto con riferimento all’atteggiamento di superiorità di alcuni. Argomenti di questo tipo sono stati utilizzati per ‘provare’ la propria superiore capacità anche nelle cose della politica e quindi, si potrebbe dire, nel buon funzionamento della democrazia. Ma a quali meriti si fa riferimento, visto che il successo economico può derivare anche da violazioni del merito individuale? E si può assegnare al mercato anche il compito di definire la stratificazione sociale? Se questa deve rispondere ai meriti individuali occorre guardare ben oltre il mercato. Agli sforzi, alle prestazioni meritevoli non riconosciute, alle virtù individuali. Occorre allontanarsi decisamente dalla sfera economica sapendo, però, di inoltrarsi su un terreno malfermo che non consente agili passeggiate verso la soluzione.

Concludendo. Queste nostre riflessioni motivate dal tentativo di contribuire a fare chiarezza sul merito e sulla meritocrazia sono approdate a questa semplice conclusione. Il merito è un concetto troppo complesso per ‘metterlo in mano’ al mercato. E in mancanza di questa consapevolezza si rischia di essere fin troppo benevolenti nei confronti del mercato.

A noi pare certo che una società migliora non soltanto se affida le prestazioni più importanti alle persone più competenti ma anche se mette il più gran numero in condizione di poter acquisire quelle competenze. E a noi pare anche che una società migliora se non si fida troppo delle disuguaglianze economiche che il mercato decreta (che, come si è detto, possono essere ingiustificate) e se non asseconda e, meglio, non tollera la cultura che alimenta ‘il lato oscuro’ della meritocrazia, “promuovendo così un’etica corrosiva fondata sulla competizione auto-interessata, che a un tempo legittima la disuguaglianza e danneggia la comunità” (Litter, cit. 2018, p. 3). Una società che migliora è, se vogliamo, una società in cui l’area e l’incidenza della immeritocrazia si restringe e questo vuol dire cose diverse quando si parla di selezione e quando si parla di disuguaglianza.

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