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Mutamento e continuità

di Massimo Ilardi

0e99dc 2639e2823e52455f98ae254db0fe422fmv2È di recente uscito il volume Anni Ottanta. La grande mutazione, curato da Emiliano Laurenzi e Fabrizio Violante (manifestolibri). Fin dal titolo e nei saggi raccolti, presenta varie analogie con il nostro progetto di cartografia dei decenni smarriti, a conferma dell’importanza di un ripensamento genealogico di questo periodo per impostare l’analisi del presente. Nel suo contributo al volume Massimo Ilardi afferma che, alla domanda se gli anni Ottanta rappresentino una continuità o una grande trasformazione, risponde che sono stati entrambe le cose. Da un lato, è avvenuta una forte mutazione antropologica, con il formarsi di nuovi attori sociali e nuove soggettività; dall’altro lato, sostiene l’autore, questa mutazione è stata possibile proprio perché figlia della «famigerata» e «vituperata» stagione di conflitti, di innovazioni culturali e dell’emergere di inconsuete soggettività degli anni Settanta del Novecento. L’incontro/scontro tra libertà e politica resta il nodo irrisolto che ci è consegnato in eredità dal decennio Ottanta.

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Apriamo il romanzo di Arthur Koestler Buio a mezzogiorno, pubblicato nel 1940 (trad.it. Mondadori 1946), alle pagine, forse le più drammatiche del romanzo, del dialogo tra Rubasciov, esponente della vecchia guardia rivoluzionaria sovietica che stava per essere liquidata dalle epurazioni staliniane del 1937, e il suo accusatore Ivanov, funzionario del partito: «In quel tempo, proseguì Rubasciov, eravamo chiamati il Partito della Plebe. Che sapevano gli altri della storia? Lievi increspature, vibrazioni fuggevoli, ondine rompentisi. Si soffermavano a guardare le forme mutevoli della superficie e non sapevano spiegarle.

Ma noi eravamo discesi nel profondo, nelle informi masse anonime, che in ogni tempo hanno costituito la sostanza della storia; e fummo i primi a scoprire le sue leggi di moto. Avevamo scoperto le leggi della sua inerzia, del lento mutamento della sua struttura molecolare e delle sue improvvise eruzioni! Questa è stata la grandezza della nostra dottrina. I giacobini erano dei moralisti: noi siamo stati degli empirici. Abbiamo scavato nel limo primordiale della storia e vi abbiamo trovato le sue leggi. Abbiamo saputo più di quanto gli uomini abbiano mai saputo del genere umano; ecco perché la nostra rivoluzione trionfò. E ora avete riseppellito tutto quanto […] In altre parole […] in quei giorni abbiamo fatto la storia; ora voi fate della politica. La differenza è tutta qui». E a Ivanov che chiedeva maggior chiarezza su questo ultimo punto, Rubasciov rispose: «Un matematico ebbe a dire una volta che l’algebra è la scienza della gente pigra: non si sviluppa x, ma si opera come se lo si sapesse. Nel nostro caso x rappresenta la massa anonima, il popolo. La politica significa operare con questa x senza curarsi della sua vera natura. Fare la storia significa identificare la x con ciò che essa rappresenta nell’equazione».

Nel 1991, alla caduta dell’Unione Sovietica, la natura di quella x si rivelò improvvisamente. La massa anonima russa, dopo 70 anni di regime comunista e 40 anni di politica fondata sulla guerra fredda, non esitò ad abbracciare immediatamente quello che era considerato fino ad allora dal sistema politico il suo peggior nemico: il mercato con le sue regole e i suoi comportamenti.

Facciamo ora un salto in avanti di quarant’anni rispetto a Rubasciov per arrivare agli anni Ottanta del Novecento che segnano in Occidente la fine di un’epoca segnata da utopie rivoluzionarie, da una forte politicizzazione della società, da un terrorismo antisistema diffuso, da un proliferare di organizzazioni politiche antagoniste, da conflitti e da movimenti di varia natura, insomma da un ciclo di lotte che in Italia, a differenza degli altri paesi europei, ha investito e travolto vent’anni della nostra vita e della nostra storia (1960-80). Anche qui la cosa più sorprendente è stata la scoperta, alla fine di questo ciclo e all’inizio del nuovo decennio, di comportamenti, culture, mentalità che, a livello di massa, non erano per nulla ostili anzi favorevoli o, nel migliore dei casi, indifferenti ai quei valori e ai quegli atteggiamenti propri dei più selvaggi spiriti animali del sistema di mercato contro cui erano dirette o almeno sembravano dirette le lotte sociali del ventennio immediatamente precedente.

Un mutamento di fase, una trasformazione antropologica talmente rapidi e improvvisi che sembrano lasciare senza spiegazioni. Studiare gli anni Ottanta vuol dire allora cercare di capire soprattutto questo passaggio, questa «improvvisa eruzione» direbbe ancora Rubasciov. Va subito detto però che per chi ha vissuto quel transito, da una stagione di lotte a una che fu definita di riflusso, la sorpresa non fu grande, anzi si può affermare che non ci fu alcuna sorpresa, segno che quel passaggio, quel salto d’epoca, quella mutazione antropologica erano già all’opera negli anni precedenti. È vero che non per tutti fu così: una parte della generazione degli anni Settanta, quella più ostile alla inversione di tendenza e quella più legata all’antagonismo politico, finì in galera o travolta dalla eroina, ma la massa non reagì e non diede segnali di insofferenza al cambiamento.

Il segno del mutamento già si coglieva, ad esempio, nel 1977, proprio l’anno in cui la violenza politica e sociale raggiunse il suo culmine, quando usciva nei cinema italiani con un successo travolgente il film La febbre del sabato sera con John Travolta e la sua disco music. Ed è nello stesso anno che faceva il suo esordio l’estate romana di Renato Nicolini dove la cultura o, meglio, il consumo culturale di massa capovolgeva l’accezione negativa connaturata al concetto di consumo, si poneva come elemento di mediazione tra i diversi pubblici e, infine, diveniva strumento di governo della città. Erano l’effimero e il presente che iniziavano ora a dominare e non più la prefigurazione di un avvenire ipotetico con la formulazione di modelli di una società alternativa. E che qualcosa stava cambiando si poteva cogliere con evidenza anche sulla stampa dove già alla fine degli anni Settanta parole come riflusso, ritorno del privato, scomparsa della politica, crisi delle ideologie forti e delle grandi narrazioni, ritorno dell’individuo, riscoperta del corpo cominciavano a riempire articoli ed editoriali. Non solo. Nel 1980 a Torino, la marcia antisindacale dei quarantamila quadri della Fiat sembrò già allora mettere un suggello alle lotte operaie nelle grandi fabbriche.

E i partiti della sinistra che facevano? Facevano politica, avrebbe di nuovo affermato Rubasciov, secondo un progetto utopico che presupponeva la costruzione di quell’homo novus, non a caso di sovietica memoria, incardinato su alcune parole d’ordine assolute come quelle dell’austerità, del sacrificio e della rinuncia lanciate dal palco del Teatro Eliseo di Roma da Enrico Berlinguer che volevano imporre alla storia un modello di società virtuoso, ordinato e di alta moralità ma arbitrario, non giustificato dalle condizioni materiali e dal confronto con la realtà, costruito sulla sabbia e di conseguenza bocciato dal «tribunale della vita» che da quegli anni ha fatto piazza pulita di ogni assolutezza. Tra l’altro, un discorso pericoloso, quello del segretario comunista, non solo perché fuori del tempo e della storia e soprattutto fuori da una società che si stava trasformando in un fascio di forze disordinate, in un insieme caotico di conflitti che non garantivano più una forma politica e che andavano ben oltre la sfera del lavoro; ma pericoloso perché cercava di indurre attraverso un discorso moralistico una trasformazione della società che gli strumenti della politica non erano più in grado di ottenere. E proprio a opera di un partito che aveva sempre fatto del primato della politica la sua ragion d’essere. L’invasione del politico da parte di discorsi e logiche etiche e morali inizia proprio in quegli anni quando una moltitudine di ribelli e non più di partigiani cominciava a popolare i nostri territori. Ribelli a una ideologia e a una utopia che non riuscivano mai a proiettarsi nel presente e nella vita reale ma rimanevano piantati in un ipotetico futuro e nell’ambito delle stanze dei partiti e delle istituzioni.

Il buco di un’analisi antropologica da parte marxista, più volte evocato dallo stesso pensiero critico di sinistra, vede infatti proprio in questo periodo il suo formarsi, almeno in Italia. Va sottolineata però la schizofrenia di questo pensiero che sposa in astratto il realismo politico ma poi davanti a una realtà che si ostina a rifiutare non trova di meglio che rifugiarsi di nuovo nella ideologia o nella utopia per esorcizzare quello stesso buco antropologico perché impossibile da colmare volendo rimanere fedele alle sue tradizionali posizioni teoriche e politiche. Alla fine del decennio, l’abbattimento del muro di Berlino e soprattutto la fine dell’Unione Sovietica divennero la rappresentazione più efficace di questa frattura.

E allora, alla domanda se gli anni Ottanta rappresentano una continuità o una grande trasformazione, credo che si possa rispondere che siano stati entrambe le cose.

È infatti importante sottolineare che, da una parte, una forte mutazione antropologica c’è stata, come cercherà di dimostrare questo libro, anche se il mutamento non intaccherà quelli che sono i requisiti della immutabilità della natura umana, ma riguarderà il formarsi di nuovi attori sociali e nuove soggettività, di nuove necessità e delle pratiche per fronteggiarle. Non solo. Modificherà profondamente gli immaginari, le mentalità, le culture e investirà tutti i campi dell’attività umana, dall’arte al cinema, dall’architettura alla comunicazione, dalla moda alla musica. Ma, dall’altra, questa mutazione è stata possibile proprio perché figlia di quella «famigerata» e «vituperata», espressioni ancora oggi in voga nell’establishment politico e mediatico, stagione di conflitti, di violenza, di innovazioni culturali e dell’emergere di inconsuete soggettività che sono stati gli anni Settanta del Novecento che hanno proiettato sugli anni a venire la loro carica dirompente e dissacrante.

Un mutamento, di cui i nostri tempi sembrano essere gli eredi diretti, molto spesso sconosciuto o sottovalutato dalla ricerca sociale e dal pensiero critico e sul quale questo libro ha deciso invece di riflettere perché ritiene che la lettura del presente, di questo presente, passa attraverso questo «balzo di tigre nel passato». Ma non dobbiamo raccontare quei tempi lontani con tutta la coda dei fatti (lasciamo questo ingrato compito agli storici) dobbiamo invece, come afferma Walter Benjamin, riuscire a riempirli dell’adesso altrimenti produrrebbero immagini senza peso. Ma qualcuno potrebbe affermare che adesso vorrebbe dire però solo pandemia e guerra, o, peggio, quel pensiero unico e conformista che si allinea e si spalma senza dubbi o incertezze prima sul virologo di turno e ora, per quanto riguarda la guerra in Ucraina, sulle direttive dell’Europa o della Nato e che pretende che tutti siano allineati e coperti dietro le loro disposizioni che si trasformano così in veri e propri dogmi di fede (esemplare in questo caso è il comportamento del segretario del Pd Enrico Letta, detto anche «signorsì», perché mai dalla sua bocca esce un diniego o almeno un distinguo rispetto alla decisioni europee o atlantiche). Questo adesso non ci interessa e non per il fatto che il connubio tra pandemia e guerra non sia drammatico e coinvolgente ma perché vorremmo andare oltre lo spettacolo farsa che organizzano quotidianamente istituzioni e mezzi di comunicazione. Qui uno stato di emergenza e di eccitazione continuamente evocato diventa il contesto imprescindibile dove inserire leggi, regole, ordinanze e notizie ripetute in maniera maniacale e sempre uguale, senza cioè quel naturale distacco che esigerebbe un giudizio critico, che è esattamente il contrario di quella idiozia che si appella al «senza se e senza ma», per coinvolgere e controllare una società che, tra l’altro, ed è questo l’aspetto che invece ci interessa, è già di per sé continuamente immersa in ossessioni apocalittiche, in attese escatologiche, in pratiche edificanti, in emozioni angosciose e dentro una tirannia dei valori attraverso i quali pretende di interpretare il mondo e giudicare la realtà. Altro che società disincantata come qualcuno azzarda ancora ad affermare! A innescarle e a fomentarle queste ossessioni emotive ha contribuito proprio quel grande mutamento di cui si cerca di delinearne forme e contenuti.

Gli anni Ottanta, dunque, per riflettere sull’origine di alcuni nostri attuali comportamenti: è in quegli anni che assistiamo infatti all’ascesa del primato del mercato accompagnato da un dominio assoluto delle passioni e delle emozioni che oggi come allora ci irretiscono per la loro banalità e inconsistenza; alla crisi di una razionalità politica, fondata sul dubbio e sul disincanto, che metta in guardia sia dal semplicismo dei sentimenti rappresentato allora dalla esaltante scoperta del privato e in questi tempi da un legalismo e da un «politicamente corretto», per certi versi sorprendenti per il popolo italiano, alimentati dalla paura e dalla angoscia, e da un pacifismo generico e pericoloso perché basato ancora una volta sulla isteria delle emozioni impotenti però a contrastare le dure repliche della politica di potenza rispetto a cui agiscono gli Stati e della natura umana egoista e aggressiva rispetto a cui si muovono uomini e donne; all’emergere di un individualismo che non trova altri sbocchi se non in un narcisismo esasperato che si autoalimenta nell’assenza di un confronto/scontro con l’agire politico l’unico che, nella contrapposizione, gli potrebbe garantire la forza e la direzione di una scelta. Non ha alcun rilievo infatti una domanda di libertà individuale nel deserto della politica; e, infime, alla crisi del «pensiero della differenza» davanti alla questione della identità di genere motivata da ciò che si è o si afferma di essere e non da ciò che si fa attraverso una costruzione politica di pratiche condivise (I. Dominijanni).

Anni però non solo del «grande freddo», come si ostina a rinchiuderli frettolosamente un pensiero critico che definirei bipartisan, ma anche anni complessi e contradditori che hanno visto il tramonto della figura del cittadino produttore e militante insieme all’emergere di un individuo consumatore e distruttore di merci, identità, affettività, relazioni; il fallimento dell’idea di rivoluzione e della mancata nascita di un nuovo potere costituente insieme però all’esplodere nelle metropoli occidentali di numerosi e violenti conflitti che si trasformano in rivolte sociali, che affossano l’epoca dei movimenti e che non hanno nel loro mirino l’abbattimento del sistema, dal quale neanche disertano, ma, al contrario, ci nuotano dentro come pesci puntando non alla sua eliminazione ma al suo sfruttamento. Le rivolte, d’altra parte, destituiscono e si sottraggono all’ubbidienza del comando ma non riescano a dare un futuro, una forma e una organizzazione alla contingenza della lotta; l’esplodere della cultura del consumo che investe tutti i settori della vita di uomini e donne, da quello affettivo a quello del rapporto con gli oggetti, accompagnata da una domanda di libertà che non ha precedenti e che non vuole partecipazione, responsabilità e impedimenti nella soddisfazione dei desideri e che non nasce da una idea o da un comportamento dettati dal pensiero ma è una pratica dalla quale soltanto può emergere un individuo nella sua irripetibilità e contingenza. Figura centrale questa che trasforma l’homo oeconomicus e democraticus, succube del mercato, in homo consumens che fonda la sua esistenza sulla irregolarità delle appartenenze e sulla illegalità rispetto alle regole del mercato; il ridimensionamento dei partiti seguito alla erosione dell’istituto della rappresentanza che hanno fatto luce sul carattere neutralizzante a depoliticizzante delle democrazie contemporanee; le occupazioni illegali di spazi, non solo da parte delle culture antagoniste prodotte dai centri sociali e dai rave illegali ma anche dalla massiccia immigrazione clandestina che fa della libertà di movimento il presupposto della sua sopravvivenza; la fuoriuscita dalla società del lavoro e dalla sua etica accanto all’emergere della nuova produzione intellettuale che non richiede più al lavoro né onorabilità né dignità; la riconquista, infine, della centralità del territorio perché è qui che si proiettano e si materializzano i desideri di una società del consumo orfana del futuro e di conseguenza è qui che si definisce oggi il nemico, si riconosce la parte, si individuano le differenze, si separano le diversità, si innescano i conflitti non solo quelli all’interno degli Stati ma anche tra gli stessi Stati perché dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della «guerra fredda», combattuta soprattutto a livello economico e ideologico, il territorio torna essere centrale nello stabilire i rapporti di forza internazionali, e dunque torna a servire come bottino di guerra. E tutto questo insieme all’esplodere della realtà virtuale e digitale che rivoluziona gli strumenti e le modalità della comunicazione ma non intacca la centralità del territorio nella risoluzione dei conflitti.

In altre parole, quella che è stata sconfitta in quel decennio è la contesa sul tempo; quello che ci lascia in eredità sono lo spazio e il territorio come fondamenti del conflitto sociale, come pratica di libertà, come riferimento di ogni progetto politico di cambiamento.

Allora, libertà e politica. Libertà senza aggettivi, né comunista né borghese, ma libertà di scelta di agire o non agire, libertà concreta di attraversare e occupare territori, come le rivolte urbane degli anni Ottanta ci hanno mostrato, ma anche libertà di appropriarsi di redditi e di soddisfare desideri, dunque domanda di libertà come possibilità reale non di coesione sociale ma di innescare conflitti e attraverso questi comporre nuove aggregazioni sociali; e agire politico come strumento necessario affinché le stesse aggregazioni non sfocino, ad esempio, nel «girotondismo» imbelle di inizio millennio o nell’attivismo gioioso e inerme di una Greta Thunberg. È possibile che da questo incontro/scontro tra libertà e politica si possa invece e di nuovo assumere un punto di vista di parte che riformuli una nuova teoria del conflitto e ricostituisca una soggettività che trascenda la dimensione economica o il comportamento morale? Contro chi? Anche queste domande ci ha lasciato in eredità quel decennio, ma alle quali non siamo riusciti ancora a dare una risposta.


Massimo Ilardi, sociologo urbano, responsabile scientifico della collana «Territori» per le edizioni Manifestolibri. Ha insegnato alle facoltà di architettura di Pescara (Università G. D’Annunzio) e di Ascoli Piceno (Università di Camerino). Ha diretto le riviste «Gomorra» e «Outlet». Tra le sue pubblicazioni: L’individuo in rivolta (Costa & Nolan,1995); Negli spazi vuoti della metropoli (Bollati Boringhieri, 1999); In nome della strada. Libertà e violenza (Meltemi 2002); Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare (con C. Cellamare, R. De Angelis, E. Scandurra, Manifestolibri, 2014); Il tempo del disincanto (Manifestolibri 2016); Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi, 2022).

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