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idiavoli

Come abbiamo bloccato il SOPA

Against "Stop Online Piracy Act"

Aaron Swartz

swartz1Una battaglia per difendere internet, ma soprattutto una lotta per bloccare lo Stop Online Piracy Act, la controversa proposta di legge Usa per fermare la pirateria online. La cronaca è di Aaron Swartz, il corsaro della Rete morto suicida nel suo appartamento di Crown Heights, Brooklyn l'11 gennaio del 2013. Oggi più che mai serve ricordare questo hacktivist, perché non dobbiamo "mai farci illusioni: i nemici della libertà di usare la Rete non sono scomparsi. L'ira negli occhi di quei politici non è stata cancellata. Ci sono un sacco di persone potenti che vogliono reprimere Internet. E a essere onesti, non ce ne sono tante che hanno interesse a proteggerla da tutto ciò".

Di seguito pubblichiamo l’intervento alla conferenza F2C2012 (Freedom to Connect), del 22 Maggio 2012. Traduzione di Mauro Pili (Da “AARON SWARTZ (1986 – 2013) una vita per la cultura libera e la giustizia sociale”, progetto e coordinamento a cura di Bernardo Parrella e Andrea Zanni).

* * * *

Per me, tutto è iniziato con una telefonata. Era settembre, non dell’anno scorso, ma quello prima, settembre 2010. Ho ricevuto una telefonata dal mio amico Peter: «Aaron, c’è un disegno di legge incredibile al quale devi dare un’occhiata». «Cos’è?», ho chiesto. «Si chiama COICA, Combating Online Infringement and Counterfeiting Act». «Peter, le leggi sul copyright non m’interessano. Forse hai ragione tu, forse ha ragione Hollywood. Ma in ogni caso, qual è il problema? Non ho intenzione di sprecare la mia vita a lottare per una questione ristretta come il diritto d’autore. Sanità, riforme finanziarie, questi sono i problemi di cui mi occupo, non qualcosa di oscuro come il copyright».

Video dell'intervento: https://youtu.be/Fgh2dFngFsg

Sentivo Peter brontolare: «Guarda, adesso non ho tempo di discutere, ma il punto è che questo non è un disegno di legge sul diritto d’autore». «Ah, no?», chiesi. «No, è una proposta di legge che riguarda la libertà di usare Internet». A quel punto sì che mi misi tutt’orecchi.

Peter mi spiegò quel che poi probabilmente tutti quanti abbiamo capito, cioè che questa legge avrebbe dato al governo la possibilità di stilare una lista di siti web che gli americani non sarebbero stati autorizzati a visitare.

Il giorno dopo, mi vennero in mente diversi metafore con cui poter chiarire quest’aspetto alla gente. Dissi che era il grande firewall d’America [richiamando l’idea della grande muraglia cinese]. Dissi che si preparava una ‘lista nera’ per Internet. E che stava arrivando la censura online.

Penso però che valga la pena fare un passo indietro, mettendo da parte tutta la retorica e pensare solo per un attimo all’estrema radicalità di questo disegno.

Certo, non mancano nel nostro Paese le norme che regolano la libertà d’espressione: se si calunnia un privato, se uno spot televisivo sostiene cose false, se si fa una festa che dura tutta la notte con la musica a tutto volume, in tutti questi casi il governo può intervenire e fermarti. Ma qui era in gioco qualcosa di radicalmente diverso.

Non si trattava delle autorità che imponevano la rimozione di qualche contenuto considerato illegale, bensì di chiudere interi siti web. In sostanza, impediva agli americani di comunicare del tutto con certi gruppi e ambiti. Non esiste niente di simile nel nostro corpo legislativo. Se spari la musica ad alto volume per tutta la notte, le autorità non ti schiaffa un’ordinanza che t’impone di restare muto per le due settimane successive. Non dicono: «nessuno potrà più fare rumore a casa vostra». Ci sarà una denuncia specifica, che ti chiede di porre rimedio al quel problema particolare, e poi la tua vita va avanti.

L’esempio più simile che ho trovato è stato un caso in cui il governo ha fatto la guerra a una libreria per adulti. In quel posto continuavano a vendere pornografia, e le autorità continuavano a sequestrare quel materiale considerato illegale. E poi, frustrati, decisero di imporre la chiusura della libreria. Ma anche quella richiesta alla fine venne dichiarata incostituzionale, una violazione del Primo Emendamento [alla Costituzione Usa, che sancisce la libertà di parola].

Potremmo dire insomma che sicuramente anche il COICA verrebbe dichiarato incostituzionale. Sapevo però che la Corte Suprema aveva un punto debole riguardo il Primo Emendamento, più di ogni altra cosa, più che sulla calunnia o sulla diffamazione, più che sulla pornografia, ancora più che sulla pedo- pornografia.

Il loro punto debole era il copyright.

Quando si trattava di diritto d’autore, era come se una parte del cervello del sistema giudiziario tendesse a spegnersi, dimenticandosi completamente del Primo Emendamento. Si ha la sensazione che, alla fine, non pensino neppure che il Primo Emendamento vada applicato anche quando c’è in gioco il diritto d’autore.

Ciò significa che, se si voleva censurare Internet, se si voleva trovare un qualche modo grazie al quale le autorità potessero bloccare l’accesso a determinati siti web, questo disegno di legge poteva essere l’unico modo per farlo. Se si trattava di pornografia, probabilmente sarebbe stata annullato dai tribunali, proprio come il caso della libreria per adulti. Dichiarando però che si trattava di copyright, la legge sarebbe potuta passare.

E questo era veramente preoccupante, perché, si sa, il copyright è dappertutto. Se si vuole chiudere WikiLeaks, sarebbe difficile giustificarlo dicendo che c’è troppa pornografia, ma non è affatto difficile sostenere che WikiLeaks sta violando il diritto d’autore, perché ormai tutto è protetto dal copyright. Questo discorso, ciò che sto dicendo in questo momento, queste parole sono protette dal mio diritto d’autore.

Ed è così facile copiare per sbaglio qualcosa, talmente facile, per esempio, che il maggior sostenitore del COICA, il repubblicano Orrin Hatch, aveva copiato illegalmente una parte del codice dal sito web del Senato per usarla nel suo sito.

Perciò, se perfino il sito web del Senatore Orrin Hatch è stato trovato in violazione del diritto d’autore, qual è la possibilità che non riescano a trovare qualcosa da usare contro ognuno di noi?

C’è una battaglia in corso in questo momento, una battaglia per definire tutto ciò che accade su Internet ricorrendo a concetti tradizionali, situazioni definibili in base all’attuale legislazione: la condivisione di un video su BitTorrent è pari al furto di DVD in un negozio? Oppure è analogo al prestito di una videocassetta a un amico? Caricare la pagina web di un sito più e più volte assomiglia a un sit-in pacifico virtuale o è un atto violento come spaccare le vetrine dei negozi? E la libertà di connettersi a Internet è simile alla libertà d’espressione o piuttosto alla libertà di uccidere?

Questo disegno di legge sarebbe un’enorme sconfitta, potenzialmente permanente. Se perdiamo la possibilità di comunicare tra di noi su Internet, in pratica sarebbe una modifica alla Carta dei Diritti Umani. Le libertà garantite dalla nostra Costituzione, le libertà sulle quali è stato costruito il nostro Paese verrebbero improvvisamente cancellate. Anziché portarci maggior libertà, le nuove tecnologie verrebbero depennate dai diritti fondamentali che abbiamo sempre dato per scontati.

E quel giorno ho capito, parlando con Peter, che non potevo permettere che ciò accadesse.

Eppure era proprio quanto stava succedendo. Quel disegno di legge, il COICA, è stato introdotto al Congresso il 20 settembre 2010, un lunedì, e nel comunicato stampa che ne annunciava la presentazione, solo alla fine si diceva che il voto era previsto per il 23 settembre, appena tre giorni dopo.

E pur se, naturalmente, avrebbe dovuto essere un voto – non si può approvare una legge senza prima votarla – il risultato di quel voto appariva già scontato, perché considerando la presentazione della proposta, questa non era firmata soltanto da un parlamentare eccentrico, bensì dal presidente della Commissione Giustizia, e co-sponsorizzato da quasi tutti gli altri parlamentari, repubblicani e democratici. Quindi, sì, ci sarebbe stato un voto, ma non sarebbe stato difficile prevederne il risultato, perché quasi tutti i votanti avevano apposto la loro firma in calce al testo prima della sua presentazione.

Non posso che evidenziare quanto ciò sia insolito. Non è affatto questo il modo in cui funziona il Congresso. Non sto parlando di come il Congresso “dovrebbe” lavorare, tipo Schoolhouse Rock. Voglio dire, non è così che opera di fatto. Mi spiego: penso che tutti sappiamo che l’aula parlamentare è un campo aperto di opposizioni e veti incrociati.

Ci sono mesi di dibattiti e rimpalli alle audizioni, e tattiche di stallo. Si sa, prima di tutto si annuncia che si svolgeranno delle audizioni su un certo tema, poi per giorni avremo esperti che ne parlano e quindi si propone una possibile soluzione, la si riporta agli esperti per ulteriori riflessioni sull’argomento, e poi qualche senatore propone soluzioni diverse, e altri ne propongono di nuove, e si trascorre un sacco di tempo a discutere, e ci sono delle trattativa, e si cerca di convincere i colleghi a favore della nostra causa. E alla fine si parla per ore una ad una con le diverse persone coinvolte nel dibattito, si cerca di arrivare ad una sorta di compromesso, risultante da interminabili riunioni dietro le quinte. E poi, una volta fatto tutto ciò, si prende riga per riga il testo della proposta e la si presenta pubblicamente per vedere se qualcuno ha obiezioni o vuole apportare modifiche. E poi si arriva al voto

Si tratta di un processo doloroso, faticoso. Non ci si limita a presentare un disegno di legge il lunedì e per poi approvarlo all’unanimità un paio di giorni più tardi. Non è così che funziona il Congresso degli Stati Uniti. Questa volta, però, era proprio quanto stava per succedere.

E non perché non ci fossero disaccordi sul tema. I disaccordi esistono sempre. Alcuni senatori pensavano che la legge fosse troppo debole e doveva mostrarsi più decisa: per come era stato presentato, il disegno di legge consentiva solo alle autorità di chiudere i siti web, e questi senatori volevano invece permettere di farlo a qualsiasi azienda al mondo capace di ottenerne il blocco. Per altri senatori era invece un po’ troppo forte. Ma, comunque, con una manovra mai vista a Washington, erano tutti riusciti a mettere da parte le differenze personali per arrivare a sostenere una proposta con cui erano convinti di dover convivere: un disegno di legge per censurare Internet.

E quando me ne sono accorto, ho capito: chiunque ci fosse dietro questa storia, era proprio bravo!

Ora, il tipico modo con cui portare a buon fine qualcosa a Washington è quello di trovare un gruppo di aziende danarose che sono d’accordo con te. La legge sulla Previdenza Sociale non è certo passata perché qualche politico coraggioso ha deciso, in buona coscienza, che non si poteva lasciar morire per strada degli anziani affamati. Chi volete prendere in giro? La Previdenza Sociale è stata approvata perché John D. Rockefeller era stufo di dover stornare soldi dai suoi profitti per pagare i fondi pensione dei lavoratori. Perché farlo, quando si può semplicemente fare in modo che sia il governo a prendere soldi dai lavoratori? Ora, non sto dicendo che la Previdenza Sociale sia negativa, penso anzi che sia una cosa fantastica. È soltanto che il modo di convincere il governo a fare cose fantastiche è trovare qualche mega azienda disposta a sostenerle. Il problema è, naturalmente, che le grandi imprese non sono affatto entusiaste delle libertà civili. Meglio, non è che vi si oppongono in sé, è solo che non se ne possono ricavare tanti soldi.

Se avete letto i giornali, probabilmente non avete sentito questa versione della storia. Per come Hollywood la stava presentando, il grande, buon disegno di legge sul diritto d’autore che stavano spingendo è stato bloccato dalle malvagie aziende Internet che intascano milioni di dollari proprio dalle violazioni del copyright. Ma per metterla semplicemente, le cose non stavano così.

Ero presente anch’io agli incontri con le aziende Internet, le stesse che probabilmente oggi sono tutte qui [alla conferenza]. E se tutti i loro profitti venissero veramente dalle violazioni del copyright, avrebbero investito di più nel modificare tale normativa.

La realtà è che per le grandi aziende Internet sarebbe andata bene anche con questa proposta. Magari non avrebbero dimostrato troppo entusiasmo, ma dubito che le loro azioni avrebbero subito un tonfo in borsa. Insomma, erano contrari, ma come tutti noi, soprattutto per motivi di principio. E i princìpi non hanno troppi soldi da spendere per i lobbisti. Così assunsero un atteggiamento pragmatico.

«Guarda, questo disegno di legge sta per passare. In realtà, è probabile che passi all’unanimità. Possiamo provarci, ma non è un treno che siamo capaci di fermare. Perciò non l’appoggeremo, non possiamo sostenerla. Ma pur opponendoci, cercheremo di farla migliorare». Era questa la loro strategia: fare lobby per poi emendare la proposta. Avevano preparato un elenco di modifiche per renderne il testo meno sgradevole o meno esoso per loro, o cose simili. Restava però il fatto che, alla fine, sarebbe stato un disegno di legge che avrebbe imposto la censura a Internet, e non c’era nulla che potessimo fare per impedirlo.

Così ho fatto quello che si fa quando sei un piccolo uomo di fronte a un futuro terribile, irto di difficoltà e con scarse speranze di successo: ho lanciato una petizione online. Ho chiamato tutti i miei amici, e siamo stati svegli tutta la notte creando il sito web per questo nuovo gruppo, Demand Progress, con una petizione online per opporsi a questa proposta di legge nociva, e l’ho fatta girare. Be’, avevo fatto cose simili prima. Ho lavorato con alcune delle più importanti organizzazioni che preparano petizioni online. Ho scritto per loro un sacco di cose e ne ho lette ancora di più. Ma non ho mai visto niente di simile.

Partendo letteralmente dal nulla, siamo arrivati a 10.000 firme, poi a 100.000, 200.000 e poi 300.000, in appena un paio di settimane. E non si è trattato solo di apporre il proprio nome e cognome a qualche petizione. Abbiamo chiesto alla gente di telefonare ai loro senatori, di chiamarli urgentemente. La votazione era prevista in settimana, dopo pochi giorni, e dovevamo bloccarla.

E al contempo ne abbiamo parlato alla stampa, annunciando come questa petizione online stesse crescendo in modo incredibile. E abbiamo discusso con lo staff di alcuni parlamentari,supplicandoli di ritirare il loro sostegno a questo disegno di legge. È statoqualcosa d’incredibile. È stata una storia enorme. Il potere di Internet si è sollevato con forza contro questa legge. Che però è stata approvata all’unanimità.

Ora, a essere onesti, diversi parlamentari hanno fatto dei bei discorsi prima di votare, spiegando che il loro ufficio era stato inondato da commenti negativi riguardo alla tutela del Primo Emendamento relativamente a questo progetto di legge, i commenti li avevano preoccupati a tal punto, in realtà, da non essere tanto sicuri di voler sostenere ancora quel testo. Comunque sia, l’avrebbero votato comunque, spiegavano, perché volevano tenere in movimento l’intero processo, ed erano certi che gli eventuali problemi sarebbero stati risolti più avanti. Così, vi chiedo, vi sembra davvero questo il modo in cui si lavora a Washington? Da quando in qua i membri del Congresso votano per leggi a cui si oppongono solo per “mantenere il processo in movimento”?

Diciamolo: chiunque ci fosse dietro questa storia, era proprio bravo!

E poi, improvvisamente, il processo si bloccò. Il Senatore Ron Wyden, democratico dell’Oregon, propose la sospensione del disegno di legge. Fece un discorso nel quale lo definì una bomba anti-rifugio atomico puntata contro Internet, annunciando che non ne avrebbe consentito il passaggio senza modifiche. E come forse sapete, da solo un senatore non può certo bloccare un disegno di legge, bensì soltanto rallentarne la procedura. Opponendovisi può far sì che il Congresso sprechi un sacco di tempo a discutere prima dell’approvazione. Ed è proprio quanto fece il senatore Wyden.

Riuscendo così a farci guadagnar tempo, un sacco di tempo, come si scoprì più tardi. Il suo intervento ne rallentò l’iter legislativo fino alla fine della sessione del Congresso, al punto che quando la proposta vi tornò, bisognava ricominciare tutto da capo. E visto che si stava ripartendo da zero, pensarono, perché non dargli un nuovo nome? Ed è allora che ha cominciato a essere chiamato PIPA, e alla fine SOPA.

Così c’è stato probabilmente un anno o due di ritardo. E col senno di poi, abbiamo usato quel periodo per gettare le basi per quanto avvenuto in seguito. Ma in quel momento non c’era questa sensazione. In quel momento, dopo aver descritto alla gente gli effetti terribili di queste proposte di legge, ci siamo sentiti rispondere che pensavano fossimo dei pazzi. Cioè, eravamo come dei ragazzini che vanno in giro agitando le braccia dicendo che il governo aveva intenzione di censurare Internet. Dovevamo sembrare un po’ folli. Potete chiederlo domani a Larry [Lessig]. Continuavo a raccontargli quanto stava accadendo, insistendo perché si coinvolgesse, e sono abbastanza sicuro che pensasse che stessi esagerando. Anch’io iniziai a dubitare di me stesso. È stato un periodo difficile.

Quando però la proposta è tornata in ballo e ha iniziato a muoversi di nuovo, di colpo tutto il lavoro che avevamo fatto iniziava a prender forma. Tutte le persone con cui avevamo parlato iniziarono improvvisamente a darsi da fare e a incitare gli altri. Si è trasformato tutto in una valanga. È successo così in fretta.

Ricordo una sera quando ero a cena con un amico di un’azienda high-tech, e alla domanda su cosa stessi lavorando, gli ho parlato di questo disegno di legge. E lui fece: «Wow! Allora devi dirlo a tutti!». E ho appena assentito. E poi, poche settimane dopo, ricordo che stavo chiacchierando con una ragazza carina in metropolitana, lei non aveva niente a che fare con l’industria high- tech, ma quando capì che invece era il mio ambito, fece molto seriamente: «Sai, dobbiamo proprio fermare il ‘SOAP’». Era già un bel miglioramento, no?

Penso però che questa storia spieghi bene quanto è accaduto in quelle due settimane, perché il motivo per cui abbiamo vinto non era dovuto al fatto che io mi stavo impegnando o perché si stavano dando da fare perfino Reddit o Google o Tumblr, o qualsiasi altra persona in particolare.

È stato per via di quest’enorme cambiamento mentale nel nostro settore. Ognuno aveva escogitato qualcosa di personale per dare una mano, spesso anche con modi assai intelligenti e ingegnosi. La gente iniziò a fare dei video, a preparare delle infografiche. Nacquero dei comitati di sostegno elettorale. Prepararono annunci e affittarono cartelloni pubblicitari. Scrissero degli articoli in giro. Organizzarono riunioni. Tutti sentivano la responsabilità di coinvolgersi.

Ricordo che a un certo punto, in quel periodo ho avuto un incontro con un gruppo di start-up a New York, cercando di incoraggiare tutti a mettersi in gioco, e mi sentivo un po’ come chi tiene una di queste riunioni della Clinton Global Initiative, andando in giro per la stanza a chiedere direttamente a ognuno dei fondatori di quelle start-up: «Tu cosa pensi di fare? E tu che cosa stai preparando?». Cercavano tutti di proporre qualcosa di concreto.

Se dovesse esserci un giorno che può cristallizzare il cambiamento, penso sia stato quelle delle audizioni sul SOPA alla Camera, il giorno in cui prese a girare quella battuta: «Non è più OK non capire come funziona Internet».

Era intrigante osservare quegli incapaci membri del Congresso discutere il progetto di legge, guardarli mentre insistevano a voler regolamentare Internet, dicendo che non sarebbe stato certamente un gruppetto di nerd a fermarli. Erano veramente riusciti a convincere la gente che era questo quanto stava accadendo, che il Congresso stava per distruggere Internet, e non era poi così importante.

Ricordo quando ne rimasi colpito per la prima volta. Stavo gironzolando a un evento pubblico, quando qualcuno mi presentò a un senatore, uno dei più convinti sostenitori del disegno di legge originale, il COICA. Gli chiesi perché mai, pur essendo un progressista, nonostante fosse a favore delle libertà civili, appoggiava un progetto di legge che avrebbe censurato Internet. E avete presente, aveva quel sorriso tipico dei politici, che improvvisamente gli svanì dal viso, e gli occhi iniziarono a bruciare di rosso fuoco.

Si mise a inveire contro di me, dicendo: «Quella gente su Internet, pensano di poter fare sempre quello che gli pare! Pensano di poterla usare per qualsiasi cosa, e che non possiamo far niente per fermarli! Hanno messo di tutto in Rete! Hanno messo su i piani dei nostri missili nucleari, e ci hanno riso in faccia! Beh, gliela faremo vedere! Devono esserci delle leggi per la Rete! Internet va tenuta sotto controllo!».

Ora, per quanto ne so, nessuno ha mai messo i missili nucleari degli Stati Uniti su Internet. Voglio dire, non l’ho mai sentito. Ma il punto è chiaro. Non era un’affermazione razionale, giusto? È stata questa paura irrazionale che le cose fossero fuori controllo. Qui c’era questo tipo, un senatore degli Stati Uniti, e quella gente su Internet non faceva che prenderlo in giro.

Andavano messi in riga. Bisognava tenere le cose sotto controllo. Penso fosse questo l’atteggiamento del Congresso. E nel vedere l’ira negli occhi di quel senatore mi sono spaventato, credo che quelle audizioni abbiano intimorito un sacco di gente. Hanno visto che questo non era l’atteggiamento di un governo premuroso che cerca di trovare dei compromessi, al fine di rappresentare al meglio i suoi cittadini. Ciò somigliava ben più all’atteggiamento di un tiranno. E così i cittadini decisero di reagire.

Dopo quell’audizione le ruote si staccarono dall’autobus abbastanza rapidamente. Prima si tirarono indietro i senatori repubblicani, e poi la Casa Bianca rilasciò una dichiarazione di opposizione al disegno di legge, e poi i democratici, lasciati là fuori tutti soli, annunciarono di voler parcheggiare la proposta, in modo da poter avere un paio di ulteriori discussioni prima del voto ufficiale. E fu quello il momento in cui conquistammo la vittoria, per quanto per me fosse difficile da credere. Ciò che tutti dicevano fosse impossibile, quel che anche alcune delle più grandi aziende del mondo avevano descritto come una specie di chimera, si era avverato. Ce l’avevamo fatta. Avevamo vinto.

E poi prendemmo a sfregarci le mani. Sapete tutti cos’è successo dopo. Wikipedia oscurò le sue pagine. Reddit oscurò il sito. Lo stesso fece Craigslist. I telefoni del Congresso impazzirono, i membri del Congresso si affrettarono a fare dichiarazioni, ritirando quel sostengo alla proposta garantito fino a pochi giorni prima. Era semplicemente ridicolo.

Mi spiego, c’è un grafico di allora che rende abbastanza bene l’idea. Dice qualcosa come “14 gennaio” su un lato e ha questa grande, lunga lista di nomi a sostegno della proposta di legge, e invece poche persone solitarie che si oppongono; e dall’altro lato, si legge “15 gennaio”, ed è esattamente il contrario, con tutti che si oppongono, e solo pochi nomi rimasti ancora a sostegno.

È stato davvero qualcosa senza precedenti. Non credete solo alle mie parole, ma chiedete all’ex senatore Chris Dodd, ovvero il maggior lobbista per Hollywood. Ha ammesso, dopo aver perso, di essere stato lui ad architettare quel piano malvagio. E ha detto al New York Times che non aveva mai visto niente di simile durante i tanti anni trascorsi al Congresso. E tutti quelli con cui ho parlato sono d’accordo. Il popolo si è ribellato e ha fatto cambiare rotte a Washington, non la stampa che si era rifiutata di raccontare la storia.

Guarda caso, i loro proprietari facevano tutti casualmente lobby a favore del disegno di legge, non i politici, che ne erano più o meno all’unanimità a favore, e non le aziende, che avevano quasi rinunciato a cercare di fermarla,sostenendone l’inevitabilità. stata veramente bloccata dal popolo, proprio dalla gente.

Hanno colpito a morte la legge, ed è così morta che quando i membri del Congresso adesso propongono qualcosa che ha a che fare anche solo parzialmente con Internet, devono fare un lungo discorso di introduzione su come non assomiglia affatto al SOPA. È talmente bell’e defunta che quando si chiede allo staff del Congresso, gemono e scuotono la testa come se fosse tutto un brutto sogno che stanno cercando di dimenticare con molta difficoltà.

È così finita che è un po’ difficile credere a questa storia, difficile ricordare quanto la norma fosse vicina all’approvazione, difficile ricordare come le cose potevano andare in ben altro modo. Ma non è stato un sogno o un incubo, era tutto molto reale.

E accadrà ancora. Certo, avrà un altro nome, e forse una scusa diversa, e probabilmente produrrà danni in modi diverso.

Ma non facciamoci illusioni: i nemici della libertà di usare la Rete non sono scomparsi. L’ira negli occhi di quei politici non è stata cancellata. Ci sono un sacco di persone potenti che vogliono reprimere Internet. E a essere onesti, non ce ne sono tante che hanno interesse a proteggerla da tutto ciò. Anche alcune delle più grandi aziende, alcune delle più grandi imprese attive su Internet, per dirla francamente, trarrebbero vantaggio da un mondo in cui i loro concorrenti piccoli potrebbero essere censurati. Non possiamo permettere che questo accada.

Vi ho raccontato questa storia come una vicenda personale, anche perché penso che vicende importanti come questa siano più interessanti se viste a misura d’uomo.

Secondo il regista JD Walsh le storie importanti dovrebbero essere come il poster del film Transformers. C’è un enorme robot cattivo sul lato sinistro, e sul destro un enorme grande esercito. E in basso, c’è una famigliola intrappolata lì in mezzo. Le grandi storie hanno bisogno di esseri umani che rischiano qualcosa. Ma soprattutto, è una storia personale, perché non ho avuto tempo di fare ricerche altrove. Ed è questo il punto.

Abbiamo vinto questa battaglia perché tutti si sono trasformati nell’eroe della propria storia. Tutti hanno deciso d’impegnarsi per salvare questa libertà fondamentale. Si sono coinvolti. Hanno fatto il meglio di quanto potevano. Non si sono fermati a chiedere il permesso a nessuno.

Ricordate il boicottaggio di GoDaddy, che avevano sostenuto il SOPA, organizzato spontaneamente dai lettori di Hacker News? Nessuno ha detto loro se potevano farlo o meno. Qualcuno lo ha perfino considerato una cattiva idea. Non importava nulla.

I senatori avevano ragione: Internet è davvero fuori controllo.

Ma se ce ne dimentichiamo, se lasciamo che Hollywood riscriva la storia in modo tale che a fermare la legge sembri sia stata una grande azienda come Google, se gli consentiamo di convincerci che in realtà non siamo stati noi a cambiare le cose, se cominciamo pensare che la responsabilità di quest’impegno spetti a qualcun altro e il nostro compito è solo quello di andare a casa per sdraiarci sul divano ingozzandoci di popcorn mentre guardiamo Transformers – beh, allora la prossima volta potrebbero anche vincere.

Non dobbiamo permettere che ciò accada.

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