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Contro la bisca universale

di Francesco Ciafaloni   

Le cose, materialmente, economicamente, non vanno bene; né in Italia, né in Europa, né nel mondo. La scarsità di risorse materiali e ambientali sta smettendo di essere una discussa previsione per trasformarsi in una tragica realtà, sotto gli occhi di tutti. Il nostro futuro economico sembra particolarmente precario, pericoloso. Ma prima della crisi economica, che alcuni aspettano da più di un decennio, altri cercano di non vedere, c’è la crisi, il degrado culturale, che precede il degrado materiale, in una qualche misura lo ha causato; che in ogni caso ci impedisce di guardare in faccia il presente e di immaginare un futuro.

È vero che gli italiani non capiscono bene cosa gli stia capitando e che anche quelli che si sforzano di capire perché le cose stiano così faticano molto. Ma non tutto è nebbia. Qualcosa si può dire sia sui mutamenti strutturali sia sulla neolingua che ci ha travolto; su ciò che diamo per scontato, che ripetiamo per abitudine e non è vero.

Demografia, migrazione, redditi e politica

Poco più di un terzo di secolo fa Giulio Maccacaro, come altri, denunciava in un articolo le enormi disuguaglianze di salute tra gli esseri umani e constatava, allarmato – allora si temeva la bomba demografica – che eravamo diventati più di 2 miliardi e 700 milioni al mondo e che ci saremmo moltiplicati ancora.

Oggi siamo parecchi di più di 6 miliardi; le disuguaglianze nella salute ci sono ancora, anzi sono cresciute. Ma si prevede che la crescita della popolazione stia rallentando; che in alcuni paesi molto importanti, come la Cina, si fermerà. Bene! – si può dire. Malgrado le allarmate previsioni, siamo ancora vivi!

Certo, ma nel corso della mia vita adulta siamo più che raddoppiati; siamo stati sommersi di giovani, anche in Italia. Questo, in futuro, non avverrà mai più. Saremo tutti più vecchi, con l’eccezione dell’Africa, che ha però già ora una crisi idrica imponente e che sta usando le proprie risorse energetiche e ambientali per risolvere le crisi energetiche e smaltire i rifiuti degli altri: di noi altri. Nulla può continuare sui vecchi binari. Inoltre abbiamo vissuto, dopo la seconda guerra mondiale, un imponente tentativo di diminuire le disuguaglianze; e questo, per un po’, ci ha fatto respirare. Ha fatto respirare chi sta peggio, chi lavora e produce i beni e i servizi del mondo. Qualcuno, qui o altrove, li deve ben produrre, per usarli e perché altri li usino e alcuni ci guadagnino su comprando e vendendo titoli. La bisca si regge, quando si regge, perché miliardi di persone lavorano. Ma, incredibilmente, i raffinatissimi matematici che hanno inventato i derivati, e le assicurazioni sui fallimenti, e le vendite automatiche basate su indicatori, che pare rappresentino il 90% degli scambi al New York Stock Exchange – lo sostiene un articolo recente del “Financial Times” – sembrano non aver capito quello che qualsiasi diplomato di istituto tecnico, per non parlare degli ingegneri, deve capire per forza, se no lo bocciano: che i sistemi elastici oscillano e che, se entrano in risonanza, spaccano tutto. E a farli entrare in risonanza ci pensano quelli che vogliono guadagnare sulla oscillazione. Inoltre il rimando universale dei pagamenti al futuro funziona se il valore mediano dei redditi sale; se la metà che guadagna di meno e si indebita per vivere, non per speculare, l’anno dopo guadagna di più. Ma se la disuguaglianza cresce, se il reddito mediano diminuisce, come è avvenuto per decenni negli Stati Uniti, se anche la presenza politica di chi lavora diminuisce, mettere in commercio i crediti diventa una frode.

Oggi ci avviamo a una situazione, anche in Italia, non in Arabia Saudita (dove non vota nessuno e comanda la famiglia del re), in cui quelli che votano non lavorano, perché sono vecchi o non attivi, e quelli che lavorano non votano, perché sono stranieri.

Questo è, paradossalmente, già vero per la massima organizzazione dei lavoratori, la Cgil, al cui ultimo congresso i pensionati, il cui voto valeva quanto quello degli attivi, a differenza dai congressi precedenti, sono stati il 60% degli aventi diritto. La minoranza denuncia clamorose irregolarità, con partecipazioni del 100% degli aventi diritto dove c’era una sola mozione e del 5 o 10% dove c’erano tutt’e due; roba degna della peggiore Democrazia cristiana. Ma, anche se avessero votato correttamente, resta il fatto che quelli che non lavorano più sono la netta maggioranza. Se i lavoratori stranieri non diventeranno cittadini, col diritto di voto politico, non solo sindacale, saremo fuori dalla democrazia.

Avremmo bisogno di ammortizzatori, di stabilizzatori automatici che non oscillino in sincronia con la bisca. Ne abbiamo uno importantissimo, l’Inps, che non fa parte della bisca in quanto paga le pensioni con i soldi versati dai lavoratori attivi, in tempo reale; può avere problemi se diminuiscono i lavoratori o calano i salari, perché entrano meno soldi, ma non li ha esattamente in sincronia con i crolli della bisca. La disoccupazione aumenta più tardi e finisce più tardi. Abbiamo cercato, ciecamente, di liberarcene, abbandonando, almeno in prospettiva, il sistema a ripartizione, anche per opera di governi di centrosinistra, per il degrado culturale di cui parlavo prima. Anche la sinistra si è convinta che i soldi, messi nella bisca, crescono automaticamente; che i fondi pensione possono, anche loro, funzionare con i soldi degli altri, come recita il titolo di un libro recente di Luciano Gallino. Non è andata così; le assicurazioni americane – Freddy Mac e Fannie Mae – sono fallite e sono state gran parte del crollo; ma per fortuna l’Inps c’è ancora ed è in attivo almeno per il fondo dei lavoratori dipendenti, che copre il passivo dei fondi speciali (dirigenti e altri). Bisogna solo stare attenti a non far usare le trattenute pensionistiche per tappare altri buchi: con particolare cura per il fondo speciale dei precari, che è in attivo e non dovrebbe essere saccheggiato. E mantenere i trasferimenti reali di beni e servizi ai vecchi e ai poveri.

Si parla di ripresa, di sviluppo, di sostegno ai consumi, come se davvero si potesse puntare a una crescita indefinita della produzione e dei consumi materiali dei paesi ricchi, i cui cittadini, ragionevolmente, potrebbero puntare a un mutamento di ciò che producono e consumano, ma, se tutto va bene, nell’ambito di uno stato stazionario. Perché altri rapidamente stanno crescendo e la Terra è piccola per tanti miliardi di consumatori. I consumi possono mutare, qualificarsi, non crescere. I progressi cui, forse, tutti aspiriamo, in cui crediamo ancora, sono quelli dello spirito umano; inclusi i suoi aspetti sociali.

Le scelte possibili

Penso che anche i più anticapitalisti tra noi non credano davvero che il crollo, il disfacimento della finanza internazionale sia una prospettiva desiderabile. Anche la sinistra comunista, credo, ha dato fin troppo per scontata la stabilità. Come se qualunque richiesta, qualunque nuovo diritto fosse ottenibile senza costi sociali, senza feroci resistenze di chi si trova ad avere vecchi privilegi.

Abbiamo tutti qualcosa da perdere oltre alle catene; e anche chi ha solo quelle, e le perderebbe volentieri, rischia di non sopravvivere alla bufera che potrebbe spezzarle. O rischia di trovarsene altre, equivalenti o peggiori. Un mondo in cui più di metà della popolazione vive in città, spesso in megalopoli non autosufficienti, non può chiudersi a difesa; ripiegarsi, nel suo complesso, sul consumo locale. Forse la bufera ci sarà, e chi la desidera sarà contento. Ma non sarà una scelta dei poveri. Sarà piuttosto il risultato della contrapposta e cieca avidità dei ricchi e dei potenti: finanzieri internazionali e stati. E il botto sarà molto più grosso della volta scorsa perché sono cresciuti il numero degli uomini e la potenza delle armi. L’altra volta Keynes scrisse uno dei libri più importanti del Novecento: Le conseguenze economiche della pace – quella di Versailles, non quella della marcia Perugia-Assisi. Questa volta qualcuno potrebbe scrivere Le conseguenze economiche dell’avidità (o del rigore, per mantenere la simmetria) e spiegare che cercare di togliere soldi a chi non li ha, quali che siano state le colpe loro o dei loro governanti, o dei banchieri, li fa solo arrabbiare moltissimo. Il libro non servirà a noi; ma potrebbe servire ai sopravvissuti.

Ma allora che scelte, che possibilità abbiamo? Le scelte reali sono all’interno di un consumo complessivo, energetico e ambientale, che dovrebbe diminuire, di una spesa pubblica che non può aumentare. Non c’è una ricetta tranquilla. Se tutti gli stati ricchi devono vendere buoni del tesoro, e se tutti, ricchi e poveri, vogliono esportare di più, qualcuno deve perdere. C’è però molto da fare politicamente; cioè, nell’immediato, culturalmente. La sparizione culturale della sinistra, l’adesione di fatto al pensiero unico, la corsa a salire sul carro del vincitore, cercando solo di cambiare la persona fisica dell’auriga, hanno prodotto un vuoto pauroso. Per diversi motivi, socialismo, comunismo, cooperazione, solidarietà, conflitto sono diventate parole impronunciabili. Libertà ha cambiato significato.

Non basta ricordare che i monopoli naturali – acqua, strade, ferrovie – devono essere pubblici, se si vuole che funzionino e non siano solo un modo per far soldi e alzare i prezzi. Che deve essere pubblica e gratuita l’istruzione. Che deve essere mantenuto il sistema sanitario pubblico, che resta tra i migliori del mondo, ma rischia di implodere in molte regioni per la corruzione e gli interessi privati nella gestione, di cui sono piene le cronache. Non è una questione di capitalismo sì / capitalismo no. Si tratta di stabilire, in dettaglio, politicamente, che non tutto si può affidare alla bisca universale, alla distruzione creatrice. Non la vita; non la pace; non l’istruzione.

Un corollario dell’uscita dalla bisca universale è che non si deve continuare con la follia dell’esternalizzazione del pubblico, che ha distrutto il terzo settore e sta distruggendo, di rimbalzo, le sedi istituzionali che lo finanziano. Le associazioni sono finanziate con soldi pubblici e passano buona parte del tempo di ideazione a rincorrerli, in concorrenza tra loro, con doppioni e sprechi. E poi, se riescono a afferrare un finanziamento, in genere deliberato in ritardo e pagato quando Dio vuole, si precipitano a reclutare precari, sottopagati, in un ambiente motivato ma che non riesce a specializzarsi proprio per la precarietà, per approdare alla presentazione, che giustifica l’esistenza di tutti. Se abbiamo idee, come le abbiamo, pedagogiche, economiche, stampiamole e vendiamole, o regaliamole, mettiamole in rete, facciamole girare. Soldi per comprare una rivista ce ne sono.

Per le attività pedagogiche, assistenziali, formative in cui molti di noi sono impegnati, non è un bel momento. Cooperativa, come dicevo, è diventata una parola sporca, un pericolo, un modo per violare i contratti, un ricatto. “Se non vuoi finire fuori, passa alla cooperativa”, a cui viene appaltato il servizio in cui lavori. Alla mancanza di possibilità di agire efficacemente dei giovani, oltre che al crescente numero dei vecchi, che in maggioranza non agiscono più, è legata anche la confusione, la dissonanza cognitiva che ci perseguita. Siamo esseri sociali e se viviamo in tanti in una specie di limbo, senza passato perché la storia non è la regina del discorso pubblico, senza futuro perché oggettivamente ce ne resta poco o perché non riusciamo a progettarlo, forse neppure a sognarlo, senza vincoli stringenti ma senza una vera libertà – non sappiamo chi siamo perché realmente non siamo nessuno.

Le cose che facciamo rischiano di sparire per una modesta stretta finanziaria o perché qualche banchiere o pubblico amministratore ha puntato troppo sui soliti soldi degli altri. Che fare?

Non dobbiamo dipendere dalla bisca, dal sistema che oscilla e rischia di rompersi. Cioè neanche dalle fondazioni. Chi lavora in un’istituzione, nella scuola pubblica, negli enti locali, o in una azienda di servizi, realizzi le proprie idee lì dove sta ufficialmente; non cerchi un altrove. Chi, oltre le ore di lavoro, insegna o assiste volontariamente, lo faccia del tutto senza soldi. Chi fa parte dell’inferno dei precari si organizzi, senza concedere troppo alle associazioni benevole che li assumono a tempo. Ricominci dalle leghe e dalla mutua assistenza. Il movimento operaio è nato così. Bisogna resistere alla tendenza universale a pensare che se si fa fare qualcosa a un’associazione, che costa meno del lavoro dipendente, non si stia gravando sulla spesa pubblica. Neanche la Fondazione Agnelli – la Fiat, l’automobile – è più in grado di finanziare autonomamente. I soldi sempre pubblici sono; ma vanno a lavoratori precari, pagati poco. Facciamo cooperazione, magari educativa, come si diceva una volta, davvero.

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