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Gli effetti perversi della privatizzazione del welfare

di Guglielmo Forges Davanzati

A dispetto di luoghi comuni molto in voga il settore pubblico italiano non è né sovradimensionato né improduttivo. Così come non è vero che le politiche di "privatizzazione del welfare" contribuiscono a generare crescita: ciò che riescono a fare davvero bene è redistribuire il reddito dal lavoro al capitale.

L’Italia è un Paese corporativo, con una incidenza eccessiva del settore pubblico: un Paese nel quale il “merito” non viene premiato e che, per questa ragione, non riesce a riprendere un percorso di crescita economica. Un settore pubblico sovradimensionato è la principale causa del declino dell’economia italiana. E’ questa l’opinione dominante, ed è sulla base di questa convinzione che si è attuato – e si sta attuando – il progressivo smantellamento delle residue reti di protezione sociale derivanti dal residuo di welfare rimasto in Italia. In parte l’obiettivo è stato raggiunto: nell’ultimo Rapporto Eurostat, si legge che il blocco del turnover nel pubblico impiego, combinato con una consistente ondata di pensionamenti, ha prodotto, nel solo 2012, una riduzione del numero di dipendenti pubblici nell’ordine del 4%. La riduzione della spesa corrente nel settore pubblico è un fenomeno che si accentua progressivamente a decorrere dall’inizio degli anni Duemila (v. Fig.1)[1].



Figura 1: Variazioni cumulate della spesa complessiva per retribuzioni (massa), delle retribuzioni medie pro-capite (media) e del personale in servizio (occupati). Base 100=2001 (Fonte: ARAN)

L’attacco al settore pubblico – giacché di attacco si tratta – è sostenuto da motivazioni di dubbia validità.

1) Il settore pubblico è considerato, per sua stessa natura, “improduttivo”. I dipendenti pubblici sono, quasi per definizione, fannulloni che godono di garanzie eccessive, tutelati da organizzazioni sindacali “corporative”, dove la connotazione “corporativo” è ipso facto associata a un giudizio di valore di segno negativo, essendo la negazione della “meritocrazia”. Il senatore Ichino si è espresso, a riguardo, a chiare lettere: “perché nessuno propone di liberare gli uffici dai fannulloni, che nel settore privato sarebbero già stati licenziati da un pezzo?” (http://www.pietroichino.it/?p=24).

In questa visione, il mercato del lavoro assume una configurazione duale: da un lato, i dipendenti pubblici con eccesso di protezioni; dall’altro i dipendenti del settore privato meno protetti e, per questa ragione, più produttivi. Giacché l’inamovibilità non incentiva l’impegno, che è, per contro, incentivato solo da credibili minacce di non rinnovo del contratto. Il conflitto viene, così, traslato in senso “orizzontale”, spostandosi dal conflitto capitale-lavoro (relegato nell’archeologia marxista) al conflitto fra lavoratori.

E tuttavia, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’ISTAT registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari[2]. In più, si registra che l’Italia, per quanto attiene all’incidenza degli occupati nel settore pubblico, sul totale degli occupati, è nella media dei Paesi OCSE e che, dunque, il nostro settore pubblico non può considerarsi sovradimensionato. (http://www.aranagenzia.it/araninforma/index.php/marzo-2013/164-focus/572-focus-3).

Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione (http://keynesblog.com/2013/06/21/ma-e-proprio-vero-che-gli-italiani-lavorano-poco-e-male/), e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene i) che la produttività del lavoro è misurabile; ii) che lo è anche nei servizi e che è bassa nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale.

2) Se il settore pubblico genera solo sprechi e inefficienze, e se si ritiene non derogabile il rispetto del vincolo del bilancio pubblico[3], è evidente che i risparmi dello Stato non possono che derivare innanzitutto dalla riduzione dei trasferimenti al settore pubblico. Le spending review sono lo strumento che si utilizza per raggiungere questo obiettivo, ovvero operazioni finalizzate a “razionalizzare” (si legga ridurre) la spesa pubblica. Lo sono apparentemente perché non si tratta di ridurre la spesa pubblica “improduttiva”, ma semmai di ridurre i trasferimenti ai segmenti della pubblica amministrazione con minore potere contrattuale nella sfera politica e, dunque, con minore possibilità di contrastare i tagli, indipendentemente dalla loro produttività.

Quali sono gli effetti di queste misure? Come certificato dall’INPS, il primo (ovvio) effetto prodotto è la riduzione delle entrate fiscali. Si tratta di un effetto ovvio e, dunque, ampiamente prevedibile, dal momento che dalla riduzione dell’occupazione nel settore pubblico (e dal blocco degli stipendi) non ci si poteva certamente aspettare di raccogliere un gettito in aumento. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.

A fronte dell’opinione dominante, si può sostenere che la cura dimagrante imposta al settore pubblico non risponde a criteri di efficienza, né all’obiettivo di generare avanzi primari. Lo scopo primario è fornire quote di mercato al capitale privato in settori protetti dalla concorrenza: tipicamente formazione e sanità. Non essendo competitive sui mercati internazionali, e scontando una continua restrizione dei mercati di sbocco interni, le nostre imprese hanno necessità di riposizionarsi in mercati “nuovi”, che la politica si occupa di aprire mediante misure di snellimento del settore pubblico. Occorre chiarire che la privatizzazione del welfare non solo non contribuisce a generare crescita (trattandosi della cessione di attività dal pubblico al privato, in condizioni monopolistiche) ma contribuisce semmai a peggiorare ulteriormente la distribuzione del reddito, a ragione del fatto che i prezzi e le tariffe praticate da imprese private in mercati monopolistici sono più alti rispetto a quelli che si otterrebbero se gli stessi servizi fossero erogati da imprese pubbliche[4].

Si è, così, in presenza di un’operazione di redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, che passa attraverso la privatizzazione del welfare e che si legittima con il luogo comune secondo il quale il settore pubblico italiano è sovradimensionato, improduttivo, paradiso dei nullafacenti.

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NOTE

[1]
Il blocco degli stipendi nel pubblico impiego, motivato con l’esigenza di attuare politiche di austerità, spiega la rilevante flessione della spesa complessiva per retribuzioni nel settore pubblico a partire dal 2008-2009.

[2] E sono licenziabili in forza della natura privatistica del contratto di lavoro (http://www.astrid-online.it/Riforma-de1/Valutazion/Studi--ric/MEF_n--2-2008---La-produttivit--nel-settore-pubblico.pdf). Si può osservare che l’aumento delle assunzioni con contratti precari nel settore pubblico dipende dai vincoli finanziari sempre più stringenti per gli Enti pubblici.

[3] Ci si riferisce ai vincoli posti in sede europea relativi al rapporto disavanzo pubblico/PIL e debito pubblico/PIL. E’ opportuno chiarire che si tratta di vincoli che non rispondono ad alcun criterio scientifico. Sul tema, si rinvia a L.L.Pasinetti (1998). “The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’”. Cambridge Journal of Economics, 22: 103-116.

[4] Sul tema si rinvia a E.S. Levrero e A.Stirati (2005), Distribuzione del reddito e prezzi relativi in Italia: 1970-2002, “Politica Economica”, 3: 401-434. E si può aggiungere che il peggioramento della distribuzione del reddito derivante dalla riduzione dei salari reali (diretti e indiretti) può semmai ulteriormente contribuire ad accentuare la recessione, tramite la riduzione della domanda interna in termini reali.
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