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palermograd

Violenti desideri

di Tommaso Baris

1977 p

Forse sono un po’ svanito/ma il domani non esiste
e quest’oggi io non voglio essere triste

Gianfranco Manfredi, Ma non è una malattia, 1976

Il volume di Alessio Gagliardi (Il 77 tra storia e memoria, Manifestolibri, Roma, 2017, p. 122, euro 12) torna a ragionare sul ’77, ponendosi alcuni obiettivi precisi. Il primo è fuoriuscire dalla memoria e dalla rievocazione individuale come chiave di lettura di quel periodo. È un approccio, nota l’autore, che oscillando tra silenzio e ostentata rivendicazione “ha steso sul ’77 una coltre di reticenze, omissioni, distorsioni, prese di distanza, o al contrario, strumentalizzazioni celebrative” (p. 10). Il secondo è ridiscutere l’interpretazione oggi diventata senso comune e riproposta con forza dai principali media che hanno ridotto un complesso ed articolato movimento sociale “all’aspetto della violenza, che pure fu uno degli elementi distintivi”, identificando con essa l’intera esperienza del ’77, mentre sono stati lasciati fuori da ogni attenzione “altri elementi non meno rilevanti” (p.11). Il terzo è ripensare l’immagine, trasversalmente diffusa, del ’77 come “sintomo, spia, epitome di un momento di transizione” (p. 12) dell’Italia, dal fordismo al post-fordismo, dalla fabbriche al terziario avanzato, dai grandi partiti di massa e movimenti collettivi ai partiti personali e alla politica della società liquida; insomma il ’77 letto come anticipazione della modernizzazione degli anni Ottanta caratterizzata infine dalla crisi della politica e dal ritorno al privato.

In questa prospettiva Gagliardi sceglie di rileggere la vasta produzione sul tema, dalla memorialistica a quella prodotta dalle diverse scienze sociali (ma anche canzoni, giornali, fanzine, ed altri materiali dell’epoca), ponendosi il problema di “storicizzare” il ’77, non solo nel senso di affrontare con gli strumenti e le categorie proprie del mestiere di storico quei fatti ma anche di ricollocarli nel loro specifico contesto temporale. Ribadisce a tal fine la necessità di abbandonare ogni tipo di lettura dicotomica: non si può analizzare quel movimento senza leggerlo nella sua interezza, accettando come sua caratteristica propria la dimensione ibrida che tenne insieme (almeno per lungo tratto) la cosiddetta ala creativa e i gruppi militanti più duri, i quali però non erano affatto i soli disponibili alle pratiche violente, le quali anzi, sia pure in misura diversa e con differenti gradazioni, furono considerate patrimonio comune, al pari del resto delle innovazioni stilistiche nei linguaggi e nelle forme culturali della parte più “creativa” del movimento.

Come ricorda con efficacia l’autore, a tenere insieme questo variegato fronte concorsero alcuni elementi fortemente innovativi, che rappresentarono un cambiamento radicale anche rispetto alla (cronologicamente) vicina stagione del ’68: gli anni Settanta furono gli anni della crisi economica, della stagflazione, della fine del patto sociale che aveva contraddistinto il “trentennio glorioso” della realizzazione del Welfare State e dell’allargamento dei diritti sociali. La crisi e la consapevolezza che le disuguaglianze sociali ed economiche erano destinate a crescere ed ampliarsi furono invece il quadro in cui si mosse, come già intuirono allora alcuni protagonisti, questo movimento di “strani studenti”, che abitavano ormai le grandi città della penisola e le loro università presagendo che la loro generazione avrebbe avuto meno possibilità di realizzare le proprie aspettative di benessere, materiale e non, rispetto a quella precedente. La nuova situazione spinse allora alla mobilitazione strati ampi del mondo giovanile dei grandi quartieri popolari, coinvolti, al pari degli studenti delle Università ormai di massa, in un mondo del lavoro fatto di saltuarietà, precarietà, bassi salari e lavori dequalificati, fattori che sarebbero stati poi alla base della crescita e dello sviluppo di quella che più avanti i sociologi avrebbero cominciato a chiamare la “Terza Italia”.

La relazione con il lavoro, sottolinea Gagliardi, fu un altro elemento di novità: il ’77 è infatti il primo movimento che pure richiamandosi ancora al comunismo teorizzò il rigetto del lavoro come elemento fondante della propria identità e quindi dell’azione politica. Il lavoro fu visto e denunciato esclusivamente come elemento di oppressione e sfruttamento, e il suo rifiuto investì anche spezzoni della giovane classe operaia che fece un suo “’77” operaio incentrato sul rifiuto dei miti dell’industrialismo e del produttivismo, propri anche della parte maggioritaria dell’allora movimento sindacale. Siamo di fronte ad una rottura radicale, come è facile intuire, con la tradizione del movimento operaio, sia nella sua anima riformista che rivoluzionaria, che si accompagnava ad una più generale messa in discussione degli strumenti stessi con cui il movimento comunista e socialista aveva costruito la sua ascesa politica.

Non si contestava infatti solo il partito comunista, considerato oramai per la sua adesione “alla linea dei sacrifici” e il lancio anzi della “politica dell’austerità e del rigore”, teorizzata proprio nel gennaio del 1977 al convegno degli intellettuali tenuto all’Eur, parte integrante del sistema da combattere. Quella radicale contrapposizione, che strappava la foto del “padre” da un album di famiglia per molti versi condiviso anche dai protagonisti della sinistra extraparlamentare, se da un lato nasceva dalla critica alla strategia del compromesso storico con la Dc, che aveva spinto il Pci ad avallarne anche le scelte repressive (di cui nel volume si evidenzia insieme il carattere talvolta estemporaneo ma non per questo sentito meno drammaticamente stringente per la “criminalizzazione assoluta” di tutto il movimento in quanto tale voluta da Cossiga), dall’altro si inseriva in una riflessione più ampia che rifiutava il modello stesso del partito come forma di organizzazione politica. La crisi delle formazioni dell’estrema sinistra italiana nate dopo il ’68 che, pur criticando anche aspramente il partito comunista, ne riprendevano, per certi versi estremizzandole fino alla caricatura, alcune caratteristiche organizzative e culturali, segnalava del resto il collasso di un modello di militanza politica incentrato sulla totale subordinazione delle aspirazione dei singoli al soggetto collettivo in nome della futura liberazione generale.

In questo quadro la dimensione verticistica, piramidale, sostanzialmente guidata dall’alto, tipica dei partiti della sinistra, anzi per certi versi loro caratteristica specifica, appariva al movimento di giovani/e studenti/esse, disoccupati/e, precari/e che animava il movimento a Roma, Milano, Torino, Bologna ed altri centri, la riproposizione in piccolo della struttura statuale e della sua dimensione oppressiva. Da qui l’irriducibilità a quella dimensione, statuale e partitica, che spinse ad una contrapposizione frontale con gli apparati dello Stato e con i partiti che se ne fecero difensori, chiudendo ogni spazio di confronto nel momento stesso in cui richieste e pratiche pubbliche del movimento venivano ridotte ad espressione di frange anarchicheggianti e nichiliste del mondo giovanile, quando non apertamente accusate di essere fasciste, come in occasione della cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, dove peraltro lo storico dirigente della CGIL si era recato senza porsi il problema di una interlocuzione con gli occupanti.

Il movimento del ’77, nella sua contraddittorietà, intuiva la fine di quel modo di fare politica, incentrato sui partiti di massa e sulla loro relazione con la statualità, che tanta parte aveva avuto nella storia del Novecento, teorizzando la fine di quei paradigmi e provando a riflettere in termini innovati sulla questione del Potere, non più considerato circoscrivibile agli apparati statali (e ai palazzi che li rappresentavano). Il Potere era sentito e percepito come diffuso molecolarmente nella società, e proprio per questo, per molti versi, più pericoloso in quanto in grado di pervadere ogni aspetto della vita quotidiana e conformare alle sue esigenze di messa a valore e in produzione anche le scelte più intime delle persone.

Siamo anche qui di fronte ad un rottura radicale con il passato che spiega la centralità occupata dal movimento femminista in quel periodo, capace di contaminare pratiche ed azioni di singoli e gruppi più ampi di quelli dei collettivi, separatisti e non, di donne che pure si presero un loro autonomo spazio pubblico. Il partire da sé per l’ora e subito pervade infatti tutto il movimento nelle sue anime e segna uno stravolgimento dell’idea stessa di rivoluzione: non più mito mobilitante per realizzare la giustizia nel futuro, non più o solo mutazione dei rapporti di produzione, ma al contrario “processo” in atto che riguarda l’attuazione dei nostri desideri, qui ed oggi, che ingenera non solo pratiche di riappropriazione delle merci per soddisfare i bisogni ma rivendica in primis una vita qualitativamente diversa, con un mutamento delle relazioni tra le persone, tra i sessi, delle dinamiche di genere, dei rapporti tra produzione ed ambiente, tra lavoro e salute, eccetera.

Era “la centralità del desiderio e del soggetto desiderante”, che finiva per scardinare qualsiasi precedente centralità pretesa come oggettiva, e tuttavia, nota, a nostro avviso giustamente, Gagliardi, sarebbe sbagliato negare al ’77 la sua dimensione di movimento sociale e soprattutto leggerlo come antesignano della (di lì a poco prossima) fuga nell’individualismo proprio per la sua capacità di porre pubblicamente ed in termini politici esplicitamente antagonistici con l’ordine sociale esistente tali temi, agendo anzi ancora in maniera collettiva con una costante pratica di occupazione dello spazio politico ed anche di scontro dentro quel palcoscenico, non rifuggendo in tali frange anche da una certa “estetizzazione” della violenza. È da inquadrare in questa cornice la stessa rivendicazione del consumo, riassunta nell’invocazione apparentemente bizzarra del “diritto al lusso”, che si poneva non solo l’obiettivo di garantire l’accesso ai simboli del benessere a quanti ne continuavano ad essere esclusi, ma aveva in qualche modo pretesa di ribaltarne le dinamiche e il senso simbolico dominante. Si tentò infatti di “mettere in discussione e ‘profanare’ le pratiche sociali del consumo e puntare”, come ha scritto Barbara Armani “consapevolmente allo svuotamento di senso delle regole del mercato” (p. 71). “Partire dai bisogni”, “mettere al centro il desiderio” erano considerati non la manifestazione di individualismo e materialismo consumista, ma espliciti e dirompenti atti politici”, ricorda Gagliardi (p. 69), sottolineando che in questo modo il movimento politicizzava (o almeno provava a farlo) le nuove tendenze di “liberazione” che stavano attraversando in profondità la società degli anni Settanta. Lo riconobbero, a modo loro, persino alcuni suoi oppositori, tanto da spingere un giovane Massimo D’Alema a polemizzare con un dirigente del peso di Amendola nel comitato centrale del Pci successivo alla cacciata di Lama, lamentando l’incapacità del suo partito di comprendere le nuove generazioni che non potevano essere pedissequamente delle portatrici “delle idee e dei valori che il movimento operaio ha prodotto nella sua storia e nella sua lotta” (p. 95).

Nonostante non mancasse qualche incrinatura nel fronte avversario, la protesta sul finire dell’anno, dopo l’appuntamento bolognese contro la repressione, iniziò a declinare. Su questo, sottolinea Gagliardi, incise sicuramente la scelta di alcuni gruppi, da sempre minoritari ma comunque interni alla protesta, di radicalizzare le proprie pratiche violente orientandosi verso la lotta armata ed in direzione dei gruppi terroristici già da tempo operanti.

Militarismo e chiusura ideologica finivano per essere per alcuni le risposte definitive a domande restate a lungo aperte e condivise con un fronte assai ampio di militanti e simpatizzanti, irremovibili invece nel considerare inaccettabile la riproposizione di quei paradigmi sentiti come del tutto consumati e conclusi. Si rompeva così un filo sottile che aveva tenuto insieme nei primi mesi le diverse anime del movimento, ma questo ultimo nel suo complesso non riuscì a relazionarsi con la popolazione pure duramente colpita dalla crisi economica ed occupazionale, neppure con quei settori “in via teorica, maggiormente sensibili alla protesta contro i ‘sacrifici’ e alle lotte dei ‘non garantiti’” (p. 102). Il movimento sembrò anzi non porsi in alcun modo il problema, facilitando quindi indirettamente il suo isolamento e la conseguente sconfitta. Del resto, come sottolineato dall’autore del volume, “i militanti del movimento – e tanto più nel caso di un movimento così poco formalizzato, privo di rigidità sul piano organizzativo, estremamente eterogeneo su quello culturale – non agivano solo sulla base dell’ideologia, degli obiettivi politici perseguiti, delle esigenze organizzative e strategiche, ma anche in funzione di percezioni, bisogni materiali, aspirazioni ideali proprie del momento storico” (p. 100), atteggiamento, attitudine potremmo dire, che costituì insieme la forza e la debolezza dei suoi protagonisti.

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