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illatocattivo 

Quando muoiono le insurrezioni

di Gilles Dauvé

dauve11«Per battere Franco, occorreva prima battere Companys et Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalistico e instaurare un potere operaio sorto dai comitati di base dei lavoratori […] L'unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia».

(Manifesto del gruppo Union Communiste, Barcellona, giugno 1937).

1. Brest-Litovsk 1917-1939*

«[…] e se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista»1.

La prospettiva delineata da Marx non si è realizzata: il proletariato industriale europeo non è riuscito a ricongiungersi a una comune rurale russa rivitalizzata.

Polonia, Brest-Litovsk, dicembre 1917: a una Germania ben decisa ad accaparrarsi una grossa fetta dell’ex impero zarista – dalla Finlandia al Caucaso – i bolscevichi propongono una pace senza annessioni. Tuttavia, nel febbraio 1918, i soldati tedeschi, benché «proletari in divisa», obbedendo agli ordini dei propri ufficiali riprendono l’offensiva contro la Russia sovietica. Non si verifica alcuna fraternizzazione e la guerra rivoluzionaria, propugnata dalla «sinistra» bolscevica, si rivela impraticabile. In marzo, Trotsky è costretto a firmare la pace, alle condizioni dettate dai generali del Kaiser.

«Spazio in cambio di tempo», aveva chiesto Lenin: in effetti, nel novembre 1918, con la disfatta della Germania, il trattato verrà considerato nullo. Nondimeno, alla prova dei fatti, l’unione internazionale degli sfruttati non si era realizzata.

Qualche mese più tardi, quegli stessi proletari, ritornati alla vita civile, si scontrarono con il movimento operaio ufficiale, alleatosi ai Freikorps2. Ne seguirono la sconfitta del proletariato rivoluzionario a Berlino, in Baviera e in Ungheria (1919), la sconfitta della «Armata Rossa della Ruhr» (1920) e il fallimento dell’Azione di Marzo (1921)3.

Settembre 1939: Hitler e Stalin si sono da poco spartiti la Polonia. Al posto di frontiera di BrestLitovsk, diverse centinaia di membri della KPD4, rifugiatisi in Russia e successivamente arrestati come «controrivoluzionari» o «fascisti», dopo essere stati prelevati dalle prigioni staliniane, vengono consegnati alla Gestapo. Anni dopo, una delle sopravvissute mostrerà le cicatrici sulla schiena («questa è la GPU»)5 e le unghie strappate («... e questa è la Gestapo»): buon compendio della prima metà del secolo.

1917-1937: vent’anni che hanno fatto tremare il mondo. Lo strascico degli orrori del fascismo, la Seconda guerra mondiale e gli sconvolgimenti che ne seguirono, furono l’effetto di una gigantesca crisi sociale, apertasi con le insurrezioni del 1917 e chiusa dalla Guerra di Spagna.

 

2. «Fascismo e grande capitale»

Se è corretto affermare, riprendendo la formula resa celebre da Daniel Guérin6, che il fascismo serve gli interessi del grande capitale, la stragrande maggioranza di coloro che riprendono questa tesi, si affrettano a specificare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista poteva essere evitata – se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione sufficiente ad impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia7 si fossero alleati ai repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida, l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei. Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa concezione ignora che il fascismo si inscrive nel quadro di un doppio fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare all’indomani della Prima guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – e ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che l'hanno caratterizzato e dai loro limiti. Del resto, non è un caso che Daniel Guérin si sia ingannato tanto sul Fronte Popolare – nel quale vide una «rivoluzione mancata» – quanto sul significato profondo del fascismo8.

Cosa c'è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, divenuta generale dopo il 1914? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei paesi (Italia e Germania) dove, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace di imporre il proprio ordine, persino in seno alla stessa borghesia. Mussolini non è un Thiers che, potendo contare su un potere stabile, ordina all’esercito il massacro dei comunardi. È essenziale, nel caso del fascismo, che esso sia nato nelle strade, che abbia suscitato il disordine per imporre l’ordine, mobilitando le vecchie classi medie rese aggressive dalla propria stessa rovina, per rigenerare dall’esterno uno Stato che si era mostrato incapace di fronteggiare la crisi del capitalismo9.

Il fascismo rappresentò il tentativo della borghesia di superare, obtorto collo, le proprie contraddizioni, volgendo i metodi operai incentrati sulla mobilitazione delle masse a proprio vantaggio, e dispiegando ogni risorsa dello Stato moderno contro il nemico interno e, in un secondo tempo, quello esterno.

Si tratta, come si vede, di una crisi dello Stato, coincidente col passaggio al dominio totale del capitale sulla società. Era stata necessaria l’azione delle organizzazioni operaie, per rispondere all’ondata rivoluzionaria. Il fascismo fu il mezzo per mettere fine al disordine che ne seguì: un disordine certo non rivoluzionario, ma pur tuttavia paralizzante, capace di impedire una soluzione che, di conseguenza, non poté che assumere forme violente. La crisi non fu superata: lo Stato fascista era efficace solo in apparenza, poiché integrava forzosamente i salariati (attraverso le corporazioni, in Italia, e il Fronte del Lavoro, in Germania) ed eludeva in modo artificiale i conflitti, proiettandoli in una fuga in avanti militarista. La crisi fu invece relativamente superata dallo Stato democratico tentacolare affermatosi dopo il 1945, che fa uso di tutti i mezzi del fascismo, e anzi va oltre, poiché neutralizza le organizzazioni operaie senza annientarle. Il Parlamento ha perduto ogni capacità di controllo sul potere esecutivo; grazie al Welfare (o al Workfare), alle tecniche moderne di controllo, così come a una previdenza sociale estesa a milioni di individui – insomma, in virtù di un sistema che rende ciascun membro della società sempre più dipendente, l’integrazione sociale va oggi ben oltre quella realizzata attraverso il terrore fascista. Oggi, il fascismo, in quanto movimento specifico, è scomparso. Esso corrispondeva al disciplinamento forzoso della borghesia sotto la pressione dello Stato, nel contesto particolare di Stati di recente formazione, che avevano enormi difficoltà a diventare nazioni nel senso proprio del termine.

La borghesia prese in prestito dalle organizzazioni operaie – che, in Italia, spesso si chiamavano «fasci» – persino il nome. È significativo che, inizialmente, il fascismo si definisca in quanto forma di organizzazione e non attraverso un programma. Il suo unico programma è quello di far convergere con la forza, e riunire in un solo fascio, tutti gli elementi che compongono la società. La dittatura è soltanto una delle armi a disposizione del capitale, che può essere sostituita da altre armi meno micidiali; essa non è che una delle sue tendenze, che si realizza ogni qual volta ciò sia necessario. Il «ritorno» alla democrazia parlamentare, quale si verificò ad esempio in Germania dopo il 1945, significa semplicemente che la dittatura è diventata inutile (almeno fino alla prossima occasione) in quanto strumento di integrazione delle masse allo Stato.

Il problema, dunque, non è se la democrazia assicuri una forma di dominio più soft rispetto alla dittatura: chiunque preferirebbe essere sfruttato à la svedese, piuttosto che essere irreggimentato dagli sbirri di un Pinochet. Ma si ha davvero scelta? Anche la rassicurante democrazia scandinava si trasformerebbe in una feroce dittatura, nel momento in cui un simile passaggio si rendesse necessario. Lo Stato non ha che una funzione, che può assolvere in forma democratica o dittatoriale. Il fatto che la prima modalità sia meno rude, non significa che sia possibile costringere lo Stato a privarsi della seconda. Le forme di cui si dota il capitalismo, non dipendono dalle preferenze dei salariati più di quanto dipendano dalle intenzioni della borghesia. La Repubblica di Weimar capitolò davanti a Hitler spalancandogli le braccia. Allo stesso modo, il Fronte Popolare di Blum «evitò il fascismo» solo perché la Francia, nel 1936, non aveva alcun bisogno di compattare con la forza il capitale nazionale, né di ridurre il peso delle classi medie.

Non esiste alcuna «scelta» politica alla quale i proletari siano chiamati o possano invitarsi a forza. La democrazia non è la dittatura, ma la prepara e vi si prepara.

L’essenza dell’antifascismo consiste nell’opporsi al fascismo attraverso la difesa della democrazia – cioè non più lottando contro il capitalismo, ma esercitando su di esso la giusta pressione affinché rinunci a farsi totalitario. Nella misura in cui si fanno coincidere il socialismo con una sorta di «democrazia totale» e il capitalismo con una «fascistizzazione crescente», l’antagonismo proletariato-capitale, comunismo-lavoro salariato, proletariato-Stato viene rigettato in favore dell’opposizione democrazia-fascismo, che è presentata come la quintessenza della prospettiva rivoluzionaria. Se si presta ascolto alla sinistra e ai gauchiste, il vero cambiamento consisterebbe infine nella realizzazione degli ideali del 1789, eternamente traditi dalla borghesia. Il mondo nuovo? È già qui, in qualche modo: un embrione da preservare, un germe da far crescere. Sono i diritti democratici acquisiti, che si tratterebbe di estendere sempre di più, nel quadro di una società indefinitamente perfettibile, con l’aggiunta di dosi sempre più massicce di democrazia, fino a realizzare la democrazia integrale: il socialismo.

Ridotta a resistenza antifascista, la critica sociale si vede spinta ad aderire a tutto quello che in precedenza aveva attaccato, e ad abbandonare il vecchiume rivoluzionario in favore di un gradualismo che non è che una variante di quel «passaggio pacifico al socialismo» propugnato a suo tempo dal Partito Comunista [Francese, NdT], e sbeffeggiato, prima del Sessantotto, da tutti coloro che ambivano a cambiare il mondo. Questo dà la misura della regressione progressivamente intervenuta.

Non cadremo nel ridicolo, rimproverando alla sinistra (e alle sue varianti estremiste) di gettare alle ortiche una prospettiva che non ha mai condiviso, ma soltanto combattuto. È evidente che l’antifascismo rappresenta la rinuncia a qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria. Tuttavia, esso fallisce proprio là dove pretende di essere efficace: prevenire un’involuzione dittatoriale della società.

La democrazia borghese è una tappa della conquista del potere da parte del capitale. La sua estensione nel XX secolo ne porta a compimento il dominio, accentuando l’isolamento degli individui. Intesa come rimedio alla separazione tra l’uomo e la comunità, tra l’attività umana e la società e tra le classi, la democrazia non potrà mai risolvere il problema della società più separata della storia; in quanto forma impotente a modificare il proprio contenuto, essa è soltanto parte del problema di cui vorrebbe essere la soluzione. Ogni qual volta pretende di rafforzare la «coesione sociale», ne accompagna in realtà la dissoluzione. Ogni volta che risolve provvisoriamente le contraddizioni della società mercantile, lo fa soltanto stringendo le maglie della rete statale che avvolgono i rapporti sociali. Persino nel contesto della disperata rassegnazione in cui si dibattono, gli antifascisti, per essere credibili, dovrebbero spiegare come una vita democratica su base locale sia conciliabile con la colonizzazione mercantile, che svuota i luoghi d’incontro e riempie i centri commerciali; o come uno Stato onnipresente, dal quale ci si aspetta tutto – protezione e assistenza –, autentica macchina preposta a produrre il «bene comune», potrà non fare «il male», il giorno in cui contraddizioni esplosive esigeranno un ritorno all’ordine. Se il fascismo è l'adorazione del moloch statale, l’antifascismo ne rappresenta la più sottile apologia. Combattere in favore di uno Stato democratico, equivale inevitabilmente a consolidare lo Stato in quanto tale. Lungi dal mettere la museruola al totalitarismo, si affilano gli artigli che esso protende sulla società.

 

3. Roma 1919-1922

I paesi in cui il fascismo «storico» trionfò, sono gli stessi dove, all’indomani della Prima guerra mondiale, l’assalto proletario sfociò in una serie di insurrezioni armate. In Italia, una parte del proletariato affrontò direttamente il fascismo sulla base di metodi e obiettivi propri. La sua lotta non ebbe nulla di specificamente antifascista: l’azione contro il capitale implicava sia l’azione contro le Camicie Nere, che quella contro gli sbirri della democrazia parlamentare10.

Il fascismo possiede la caratteristica peculiare di dare alla controrivoluzione una base sociale di massa, scimmiottando in tal modo la rivoluzione. Ribaltando contro il movimento operaio la parola d’ordine della «trasformazione della guerra imperialista in guerra civile», esso si configura come una reazione degli ex-combattenti, restituiti a una vita civile dove non contano nulla, senza altri legami se non quelli della violenza collettiva, e decisi a distruggere coloro che essi credono i responsabili del loro sradicamento: i fautori del caos, i sovversivi, gli antinazionali etc.

Così, inizialmente, il movimento fascista svolge funzioni ausiliarie di polizia nelle aree rurali, reprimendo a colpi di fucile il proletariato agricolo; ma sviluppa contemporaneamente una demagogia accanitamente anticapitalista. Nel 1919, quando era ancora un fenomeno trascurabile, esso esigeva l’abolizione della monarchia, del senato e dei titoli nobiliari, la concessione del voto alle donne, la confisca dei beni del clero, l’espropriazione dei grandi industriali e dei grandi proprietari terrieri. Opponendosi all’operaio in nome del «produttore», Mussolini esalta il ricordo della Settimana Rossa del 1914 (che vide un’ondata di rivolte, in particolare ad Ancona e in Romagna) e sottolinea l’opera positiva svolta dai sindacati, allorché questi integrano l’operaio alla nazione. Il suo obiettivo è quello di restaurare lo Stato in termini autoritari, al fine di creare una struttura statale nuova, capace – diversamente dalla democrazia, egli promette – di difendere gli interessi tanto dell’operaio quanto del borghese, di porre un freno al grande capitale, e di limitare il valore mercantile e la distruzione dei «valori», dei legami, del lavoro etc.

Tradizionalmente, la borghesia aveva sempre negato la realtà delle contraddizioni sociali. Viceversa, il fascismo le proclama a gran voce, negandole al livello delle classi per trasferirle sul piano dei rapporti internazionali, denunciando la sorte riservata all’Italia, «nazione proletaria».

La repressione fascista si scatenò dopo la sconfitta del proletariato, i cui principali artefici erano stati la democrazia e i suoi intermediari: partiti e sindacati – i soli che potessero vincere gli operai adottando un metodo al tempo stesso diretto e indiretto. È falso presentare l’ascesa del fascismo al potere come il punto culminante di combattimenti di strada, al termine dei quali esso avrebbe sconfitto gli operai. In Germania, i proletari erano stati schiacciati undici o dodici anni prima; in Italia, furono battuti tanto dalle armi quanto dalle urne.

Nel 1919, radunando quanto esisteva prima di lui e intorno a lui, Mussolini fonda i suoi Fasci Italiani di Combattimento. Contro i manganelli e le pistole – mentre l’Italia, come il resto d’Europa, esplode – la democrazia chiama... al voto. Dalle urne uscirà una maggioranza moderata e socialista.

«La vittoria, l’elezione di 150 deputati socialisti, fu conquistata al prezzo del riflusso del movimento insurrezionale, dello sciopero generale politico, nonché della messa in discussione delle stesse conquiste rivendicative», 

commenterà Bordiga, quarant’anni più tardi11.

Durante l’occupazione delle fabbriche, nel 1920, lo Stato, guardandosi bene dall’attaccare frontalmente, lasciò che il movimento si esaurisse da sé (forte in questo dell’appoggio della CGL, la centrale sindacale a maggioranza socialista che, quando non sabotava gli scioperi, li strumentalizzava).

Dopo l’apparizione dei Fasci mussoliniani, la polizia spesso chiudeva un occhio quando i fascisti saccheggiavano le Case del Popolo, mentre altrettanto spesso sequestrava i fucili degli operai. La magistratura diede prova della più generosa indulgenza nei confronti dei fascisti, mentre l’esercito tollerava, e talvolta coadiuvava, le loro azioni. Questo appoggio, aperto ma ufficioso, divenne quasi ufficiale con la «circolare Bonomi» del 20 ottobre 1921, con la quale il governo inviava ai gruppi d’assalto di Mussolini 60.000 ufficiali, affinché ne assicurassero le funzioni di comando.

Che cosa fecero i partiti? I liberali, alleati alla destra, non esitarono a costituire, in vista delle elezioni del maggio 1921, un «blocco nazionale» che includeva anche i fascisti. Nel giugno-luglio dello stesso anno, il PSI sottoscrisse un «patto di pacificazione» che, di fronte a un avversario ben determinato a non mantenere la parola data, risultò totalmente vano, ma contribuì a disorientare ulteriormente gli operai.

Quanto alla CGL, dinnanzi a una reazione palesemente politica, essa si dichiarò «a-politica». Sapendo che Mussolini era ormai prossimo alla conquista del potere, i dirigenti sindacali vagheggiavano un tacito accordo di reciproca tolleranza con il fascismo, e invitavano il proletariato a rimanere fuori dallo scontro tra il Partito Comunista e il Partito Nazionale Fascista.

Fino all’agosto del 1922, il fascismo non uscì sostanzialmente dalle aree rurali, nella fattispecie quelle dell’Italia settentrionale, dove riuscì a sradicare il sindacalismo autonomo del bracciantato agricolo. Se è vero che, nel 1919, i fascisti avevano bruciato la sede del quotidiano socialista l’«Avanti!» [il 15 aprile, a Milano, NdT], è altrettanto vero che, l’anno seguente, non osarono svolgere il ruolo di sabotatori degli scioperi, approvando persino verbalmente le rivendicazioni operaie. Nelle zone urbane, in questa fase, i Fasci prevalsero raramente. In occasione della loro «Marcia su Ravenna» (settembre 1921) furono messi in fuga. Nel novembre 1921, a Roma, uno sciopero generale impedì che si tenesse il congresso del Partito Nazionale Fascista; un secondo tentativo, nel maggio 1921, si risolse in un’ulteriore disfatta.

Lo scenario cambia poco: a ogni attacco fascista si ha una risposta operaia, che tuttavia si arresta – obbedendo agli inviti alla moderazione del movimento operaio riformista – non appena la pressione della reazione si allenta, poiché i proletari si affidano ai democratici per ricondurre le bande armate alla ragione. La minaccia si allontana, si concentra nuovamente, si sposta altrove... e finirà per rendersi credibile agli occhi di quello stesso Stato, da cui le masse attendevano una soluzione. I proletari riconoscono più facilmente il nemico dietro la camicia nera dello squadrista, piuttosto che sotto le «normali» sembianze dello sbirro e del militare, investiti d’una legittimità sancita dall’abitudine, dalla Legge e dal suffragio universale.

All’inizio di luglio del 1922, la CGL, con una maggioranza dei due terzi, e con l’opposizione della sola minoranza comunista, si pronuncia a favore di «qualunque governo sia in grado di garantire la restaurazione delle libertà elementari». Nel corso dello stesso mese, si moltiplicano i tentativi da parte dei fascisti di penetrare nelle città del Nord.

Il 1° agosto, l’Alleanza del Lavoro, che riunisce il sindacato dei ferrovieri, la CGL e l’anarcosindacalista USI, proclama lo sciopero generale. Malgrado il largo successo dello sciopero, l’Alleanza ne decreta la fine il giorno tre. In numerose città, però, l’agitazione continua, assumendo forme insurrezionali. Soltanto l’intervento della polizia e dell’esercito, appoggiati dai cannoni della marina, e certamente coadiuvati dai fascisti, riescono a venirne a capo.

Chi imbrigliò l'energia del proletariato? Certamente lo sciopero fu soffocato dallo Stato e dai fascisti. Ma venne anche strangolato dalla democrazia, e la sua sconfitta aprì la strada alla soluzione fascista della crisi.

Si può a malapena parlare di un «colpo si Stato»; si trattò piuttosto di un passaggio del potere, avvenuto con il consenso delle parti in causa. La «Marcia su Roma» del Duce (che si accontentò di raggiungere la capitale in treno) fu più una messa in scena che una prova di forza. I fascisti finsero di attaccare lo Stato, che a sua volta finse di dar battaglia. Così, Mussolini ricevette il potere. Il suo ultimatum del 24 ottobre («Noi vogliamo diventare lo Stato!») non fu una minaccia di guerra civile, ma un segnale lanciato alla classe dirigente: sottintendeva che il Partito Nazionale Fascista (PNF) era la sola forza capace di restaurare l’autorità dello Stato e di assicurare l’unità politica del Paese. A quel punto, l’esercito avrebbe potuto ancora ridurre i gruppi fascisti radunatisi a Roma – male equipaggiati ed evidentemente inferiori sul piano militare – a più miti consigli, e lo Stato avrebbe potuto non cedere alla pressione faziosa. Ma il gioco non si svolgeva sul terreno militare. Sotto l’influenza soprattutto di Badoglio (Capo di Stato Maggiore tra il 1919 e il 1921), l’autorità legittima cedette. Il Re rifiutò di proclamare lo Stato d’assedio e il 30 ottobre chiese a Mussolini di formare il nuovo governo.

Al primo ministero Mussolini, presero parte anche i liberali – gli stessi ai quali l’antifascismo avrebbe voluto appoggiarsi per sbarrare la strada all’avanzata del fascismo. Fatta eccezione per il Partito Socialista e il Partito Comunista, tutti i partiti si riavvicinarono al PNF e garantirono il loro sostegno a Mussolini: il parlamento, dove sedevano soltanto 35 deputati fascisti, gli accordò la «fiducia» con 306 voti favorevoli e 116 contrari. Lo stesso Giolitti – la più importante figura liberale dell’epoca, un riformatore autoritario che era stato più volte Presidente del Consiglio prima del 1914, e ancora nel 1920-21 – nel quale si suole vedere, retrospettivamente, il solo uomo politico italiano capace di opporsi a Mussolini, lo sostenne fino al 1924. Non solo il dittatore ricevette il potere dalla democrazia, ma quest’ultima lo ratificò. Si aggiunga che, nei mesi successivi, alcuni sindacati, ad esempio quello dei ferrovieri e quello dei marittimi, si dichiararono «nazionali», cioè non ostili alla patria, e di conseguenza al regime. La repressione non li risparmierà.

 

4. Torino 1943

Se la democrazia italiana si è arresa al fascismo quasi senza combattere, quest’ultimo ha restaurato la democrazia non appena il suo regime ha cessato di corrispondere allo stato delle forze politico-sociali.

Come mantenere il controllo sulla classe operaia? Questa era la questione fondamentale nel 1943 – così come lo era stata nel 1919. In Italia, ancor più che altrove, la fine della Seconda guerra mondiale attesta la dimensione di classe dei conflitti tra gli Stati, che la logica militare, da sola, non può spiegare. Nell’ottobre del 1942, alla FIAT viene proclamato lo sciopero generale. Nel marzo 1943, Torino e Milano sono investite da un’ondata di scioperi, accompagnata dal tentativo di formare dei Consigli operai12.

Nel biennio 1943-'45, sorgono gruppi operai, talvolta indipendenti dal PCI, alcuni dei quali si proclamano «bordighisti», ma che spesso sono al contempo antifascisti, «rossi» e armati. Il regime non è più in grado di assicurare l’equilibrio sociale, mentre l’alleanza con la Germania diventa insostenibile di fronte all’avanzata degli anglo-americani, i quali – è ormai evidente – sono destinati ad imporre il proprio dominio sull’Europa occidentale. Un cambiamento di campo sarebbe equivalso a schierarsi al fianco dei futuri vincitori, ma sarebbe anche servito a canalizzare le rivolte operaie e i gruppi partigiani verso un obiettivo patriottico, seppure dal contenuto «sociale». Il 10 luglio 1943, gli Alleati sbarcano in Sicilia. Il 24 luglio, messo in minoranza al Gran Consiglio del Fascismo (con 19 voti contro 17), Mussolini si dimette. Raramente un dittatore si è dovuto inchinare alla regola maggioritaria, come fece Mussolini.

Diventato un dignitario del fascismo, grazie al sostegno offerto alla «Marcia su Roma», il maresciallo Badoglio, preoccupato di evitare che «il crollo del regime portasse troppo a sinistra», formò un governo composto da soli fascisti – seppure orfani del loro Duce – e si appellò all’opposizione democratica. Quest’ultima respinse l’invito alla collaborazione, ponendo come condizione l’abdicazione del Re. Dopo un secondo governo di transizione, nell’aprile del 1944, Badoglio ne costituì un terzo, di cui entrò a far parte anche il segretario del PCI, Palmiro Togliatti. In seguito alle pressioni degli Alleati e del Partito Comunista, i democratici decisero di rinunciare all’allontanamento del Re (la Repubblica sarà proclamata, previo referendum, soltanto nel 1946). Cionondimeno, a Badoglio erano legati troppi brutti ricordi. In giugno, Bonomi, lo stesso che ventitré anni prima aveva inviato gli ufficiali in congedo a inquadrare i Fasci di Combattimento, costituisce un nuovo ministero, che questa volta lascia fuori i fascisti, orientandosi verso la formula del «tripartito» (PCI, PSI e Democrazia Cristiana) che caratterizzerà, in Italia come in Francia, i primi anni del Dopoguerra.

Un incrociarsi di figure politiche, spesso le stesse, una girandola di fantocci insanguinati: tale è la scenografia dietro la quale la democrazia si trasforma in dittatura, e viceversa, secondo le fasi e le rotture negli equilibri dei conflitti tra le classi e tra le nazioni, che determinano di volta in volta una nuova combinazione di forme politiche, volta alla salvaguardia dello Stato e del contenuto sociale di cui esso è garante. Nessuno è meglio qualificato a spiegarlo del segretario del Partito Comunista spagnolo che, alla metà degli anni Settanta, nel bel mezzo della transizione dal franchismo alla monarchia democratica, poté dichiarare (giudichi il lettore se con più cinismo o più ingenuità):

«La società spagnola si augura che tutto venga trasformato, affinché sia assicurato, senza contraccolpi né convulsioni sociali, il normale funzionamento dello Stato. La continuità dello Stato esige la non-continuità del regime»13.

5. Volksgemeinschaft contro Gemeinwesen

È inevitabilmente sul terreno della rivoluzione, che la controrivoluzione trionfa; è in nome della sua «comunità di popolo», che il nazionalsocialismo pretende di eliminare il parlamentarismo e la democrazia borghese, contro i quali il proletariato era insorto dopo il 1917. D'altronde, la «rivoluzione conservatrice» riprende anche alcune vecchie istanze anticapitaliste (fuga dalle città, ritorno alla natura etc.) che i partiti operai, inclusi quelli estremisti, avevano negato o sottovalutato, a causa della loro incapacità di integrare la dimensione a-classista e comunitaria del proletariato, di criticare l’economia e di pensare il mondo a venire come qualcosa di diverso da un semplice prolungamento della grande industria. Nella prima metà del XIX secolo, queste tematiche erano state al cuore del movimento socialista, prima di essere screditate dal «marxismo» in nome del Progresso e della Scienza, sopravvivendo soltanto nell’ambito del movimento anarchico o presso qualche setta14.

Volksgemeinschaft contro Gemeinwesen, «comunità di popolo» contro «comunità umana». Il 1933 non rappresenta la sconfitta del proletariato, ma solo il suo compimento. Il nazismo riassorbì, risolse e sancì la fine di una crisi sociale tanto ampia che si stenta a coglierne le dimensioni. La Germania, culla della più importante socialdemocrazia del mondo, vide sorgere nel suo seno il più vasto movimento radicale, antiparlamentare e antisindacale, portatore dell’aspirazione a un mondo «operaio», ma altrettanto capace di catalizzare altre forme di contestazione antiborghese e anticapitalista. La presenza di molti artisti d’avanguardia al fianco della Sinistra comunista tedesca non è casuale; tale presenza segnala la messa in discussione del capitale in quanto «civiltà», nel senso in cui l’aveva criticata Fourier. Perdita della comunità, individualismo e gregarismo, miseria sessuale, famiglia erosa ma valorizzata come rifugio, allontanamento dalla natura, alimentazione industriale, crescente artificializzazione della vita, «protesizzazione» dell’uomo, rincorsa del tempo, fine dell’arte, relazioni sempre più mediate dal denaro e dalla tecnica etc. – tutte queste forme di alienazione furono sottoposte al fuoco di una critica confusa e multiforme, della quale uno sguardo superficiale e a posteriori non vedrà che l’inevitabile recupero.

La controrivoluzione degli anni Venti poté trionfare, in Germania come negli Stati Uniti, dando vita alla società dei consumi di massa e al fordismo, trascinando milioni di tedeschi – operai inclusi – nel mondo della modernità industriale e mercantile. Dieci anni di un dominio assai fragile, come dimostra l'iperinflazione del 1923.

Dopo la terribile scossa del 1929, non è più il proletariato, ma è la stessa prassi capitalista a rinnegare la propria ideologia del Progresso, che aveva promesso un consumo crescente di oggetti e di segni per tutti.

L’estremismo nazista e la sua violenza danno la misura della profondità del movimento rivoluzionario, che il nazionalsocialismo riprende e nega, e della doppia rimessa in questione della modernità capitalista, prima da parte del proletariato, e poi, dopo un intervallo di dieci anni, da parte dello stesso capitale. Come i «radicali» del 1919-21, il nazismo propone una comunità salariale, ma autoritaria, chiusa, nazionale e razziale. Esso riuscirà, per dodici anni, a trasformare i proletari in salariati e soldati.

Il fascismo è figlio di un capitalismo che manda in rovina i vecchi rapporti senza poterli sostituire con quelli della comunità mercantile. Per quanto potesse attingere a epoche trascorse, Hitler resta un prodotto delle contraddizioni del mondo moderno.

 

6. Berlino 1919-1933

La dittatura si afferma sempre e soltanto all'indomani della disfatta dei movimenti sociali, cloroformizzati e massacrati dalla democrazia, dai partiti di sinistra e dai sindacati. In Italia, solo pochi mesi separano le ultime sconfitte subite dal proletariato e l’instaurazione del capo del fascismo alla testa dello Stato. In Germania, uno scarto di una dozzina d'anni spezza questa continuità, cosicché la presa del potere da parte di Hitler, il 30 gennaio 1933, appare come un fenomeno essenzialmente politico – o, se si preferisce, ideologico – piuttosto che come l’effetto di un sommovimento sociale anteriore. Ma la base popolare del nazionalsocialismo e lo sprigionamento delle sue energie mortifere restano un mistero, se si ignora la questione del lavoro, della sua sottomissione o della sua rivolta, del suo controllo e del posto da assegnarli in seno alla società.

La disfatta militare della Germania nel 1918 e il crollo dell’Impero, avevano dato il via a un assalto proletario abbastanza forte da scuotere la società, ma che si era rivelato impotente a rivoluzionarla, promuovendo in tal modo la socialdemocrazia e i sindacati a chiave di volta degli equilibri politici. I capi della SPD e dei sindacati, in quanto uomini d’ordine, fecero appello ai Freikorps – raggruppamenti di matrice fascista che contavano nei loro ranghi numerosi futuri nazisti – per reprimere la minoranza operaia radicale, in nome degli interessi della maggioranza riformista. Perdenti all’interno delle regole della democrazia borghese, i comunisti lo sono altrettanto nel quadro della democrazia operaia: i «consigli d’impresa» accordarono fiducia alle organizzazioni tradizionali piuttosto che ai rivoluzionari, che sarà poi facile denunciare come antidemocratici.

Democrazia e socialdemocrazia furono dunque indispensabili al capitalismo tedesco per inquadrare la classe operaia, uccidere lo spirito di rivolta nella cabina elettorale, ottenere dai padroni alcune riforme e disperdere infine i rivoluzionari15.

Dopo il 1929, il capitale è costretto a concentrarsi, a eliminare una parte delle classi medie, a disciplinare il proletariato e la stessa borghesia. Il movimento operaio, che difende il pluralismo politico e gli interessi immediati degli operai, blocca la situazione. Assicurando una mediazione tra capitale e lavoro, le organizzazioni operaie traggono la propria funzione tanto dall’uno quanto dall’altro, ma intendono rimanere autonome rispetto ai due termini, così come rispetto allo Stato. La socialdemocrazia ha senso soltanto se giustapposta al padronato e allo Stato, ma perde la propria ragion d’essere se viene da essi riassorbita. La sua vocazione era quella di gestire un’enorme rete politica, municipale, sociale, mutualistica, culturale, che includeva tutto ciò che oggi definiremmo «associativo». La KPD, d’altronde, costituì ben presto una sua rete, meno estesa di quella socialdemocratica, ma comunque vasta. Ora, un capitale sempre più organizzato, tende a riunire i diversi fili mettendo un po’ di «statale» nell’impresa, un po’ di «borghese» nella burocrazia sindacale e un po’ di «sociale» nell’amministrazione. Il peso del riformismo operaio – che si fa sentire fin dentro lo Stato – la sua esistenza in quanto «contro-società», ne fanno un fattore di conservazione sociale, di malthusianesimo, che il capitale in crisi deve eliminare. Espressione della difesa del lavoro salariato in quanto elemento del capitale, la SPD e i sindacati hanno assolto, nel 1918-'21, una funzione anticomunista indispensabile; tuttavia, per questa stessa ragione, vengono spinti in seguito a mettere in primo piano gli interessi dei salariati, a detrimento della riorganizzazione complessiva del capitale.

Uno Stato borghese stabile avrebbe tentato di rimediare a questa situazione attraverso una legislazione antisindacale e una riduzione delle «fortezze operaie», aizzando le classi medie contro i proletari in nome della modernità e contro l’arcaismo, come avrebbe fatto diversi decenni più tardi l’Inghilterra thatcheriana. Una simile offensiva avrebbe presupposto un capitale a sua volta relativamente unificato dietro a un blocco di frazioni dominanti. Ma la borghesia tedesca, nel 1930, era profondamente divisa, le classi medie disorientate e lo Stato-nazione dilaniato.

Che faccia leva sulla forza o sulla negoziazione, la democrazia moderna rappresenta e cerca di conciliare gli interessi antagonistici esistenti all’interno della società... nella misura in cui ciò risulta possibile. Le ripetute crisi parlamentari e i complotti, reali o inventati, di cui la Germania fu teatro a partire dalla caduta dell’ultimo cancelliere socialista nel 1930, sono, nel quadro di una democrazia, il sintomo di una disunione duratura delle classi dirigenti. All’inizio degli anni Trenta, posta di fronte alla crisi, la borghesia era combattuta tra strategie sociali e geopolitiche tra loro inconciliabili: maggiore integrazione o eliminazione del movimento operaio; commercio internazionale e pacifismo, o autarchia e conseguente politica di espansione militare. Nessuna di queste soluzioni implicava necessariamente che si facesse ricorso a un Hitler, ma presupponeva in ogni caso una concentrazione di forza e di violenza nelle mani del potere centrale. Venuto meno il compromesso tra centristi e riformisti, la sola opzione praticabile era quella statalista, protezionista e repressiva.

Un simile programma comportava la marginalizzazione violenta della socialdemocrazia, che addomesticando gli operai, aveva acquisito un peso eccessivo, senza tuttavia riuscire a unificare intorno a sé la nazione. Questo compito fu assolto dal nazionalsocialismo, che seppe fare appello a tutte le classi – dai disoccupati ai capitani d’industria – facendo leva su una demagogia che andava oltre quella degli stessi politici borghesi, e su un antisemitismo che escludeva allo scopo di unificare.

Come i partiti operai avrebbero potuto ostacolare una tale follia xenofoba e razzista, dopo essere stati così sovente complici del nazionalismo? Per quel che riguarda la SPD, questo risultava chiaro fin dall’inizio del secolo, evidente nel 1914 e sancito, nel 1919, dalla sanguinosa alleanza con i Freikorps, nati da una matrice guerriera non troppo dissimile da quella dei Fasci di Combattimento italiani, sorti nello stesso periodo. Quanto al razzismo, non era così raro che un giornalista della SPD, un dirigente sindacale o perfino la prestigiosa rivista teorica «Die Neue Zeit», se la prendessero con gli ebrei «stranieri» (polacchi o russi). Nel marzo del 1920, la polizia di Berlino, all'epoca controllata dai socialisti, attaccò un migliaio di persone nel quartiere ebraico e le rinchiuse in un campo di prigionia, per poi alla fine liberarle. In che modo la socialdemocrazia avrebbe potuto sfuggire alle ossessioni e alle fobie del Volk al quale si faceva un dovere di appartenere?

La KPD, dal canto suo, non aveva esitato a tendere la mano ai nazionalisti in occasione dell’occupazione francese del 1923. Per Radek, «solo la classe operaia può salvare la nazione». Thalhaimer, dirigente della KPD, sosteneva apertamente che il partito dovesse combattere al fianco della borghesia tedesca che – come diceva – giocava «un ruolo oggettivamente rivoluzionario in virtù della sua politica estera». Zinov'ev sostenne la stessa posizione alla sessione dell'Esecutivo allargato dell'Internazionale Comunista del giugno 1923:

«La questione nazionale è anche la questione vitale della politica tedesca. Il nostro partito può dire a pieno titolo che, per quanto noi non riconosciamo la patria borghese, in Germania siamo noi a difendere il futuro del paese e della nazione. I nostri compagni lo hanno riconosciuto, senza però aver osato condurre una campagna pratica».

E Radek, nel corso della medesima riunione:

«Porre la questione nazionale, significa far comprendere al proletariato che dovrà essere il Partito della Nazione. Solo in Inghilterra si può formulare una propaganda per l'obiettivo finale. In Germania non è lo stesso. È significativo che un giornale nazional-socialista si sia levato con forza contro i sospetti a carico dei comunisti: li descrive come un partito combattivo che diventa sempre più nazional-bolscevico. Il nazional-bolscevismo, nel 1920, era un tentativo in favore di certi generali; oggi traduce il sentimento unanime che la salvezza è nelle mani del Partito Comunista. Solo noi siamo capaci di trovare una via d'uscita nella situazione attuale della Germania. In Germania come nelle colonie, mettere la nazione in primo piano è fare opera rivoluzionaria».

Un decennio più tardi, la KPD chiamava a una «rivoluzione nazionale e sociale», denunciava il nazismo come «traditore della nazione», e faceva un uso così assiduo dello slogan della «rivoluzione nazionale» da ispirare a Trotsky la brochure Contro il nazional-comunismo (1931). Sfortunatamente per i militanti della KPD, in materia di demagogia nazionale i nazisti erano imbattibili.

Nel gennaio 1933, i giochi erano fatti. Nessuno può negare che la Repubblica di Weimar si sia gettata tra le braccia di Hitler. Sia la destra che il centro avevano finito per considerarlo una valida soluzione per fare uscire il paese dall’impasse, o in ogni caso un «male minore» temporaneo. Il «grande capitale», reticente di fronte a ogni cambiamento incontrollabile, fino a quel momento non si era mostrato particolarmente generoso nei confronti della NSDAP16 – non più di quanto lo fosse stato con le altre formazioni nazionaliste e di destra. Fu soltanto nel novembre del 1932 che Schacht, l’uomo di fiducia della borghesia tedesca, convinse il mondo degli affari ad appoggiare Hitler (che per altro aveva appena subìto un leggero arretramento elettorale), in quanto vi scorgeva una forza capace di unificare lo Stato e la società. Che la grande borghesia non avesse previsto, né sempre apprezzerà l’evoluzione ulteriore – la guerra, e a maggior ragione la sconfitta – è un altro paio di maniche; ad ogni modo, gli elementi borghesi saranno davvero poco numerosi nell’ambito della resistenza clandestina al regime.

Fu in modo perfettamente legale che Hitler, il 30 gennaio 1933, venne nominato cancelliere da Hindenburg, a sua volta eletto presidente della Repubblica l’anno precedente con l’appoggio dei socialdemocratici, che vi vedevano... un baluardo contro Hitler. Inoltre, i nazisti erano in minoranza all’interno del primo governo che il capo della NSDAP fu chiamato a formare.

Nelle settimane che seguirono, le maschere caddero: si scatenò la caccia ai militanti operai, le loro sedi furono devastate e si instaurò un clima di terrore. Le elezioni del marzo 1933, precedute dalle violenze congiunte delle SA e della polizia, dettero alla NSDAP 288 deputati (ma la KPD e la SPD ne conservarono rispettivamente 80 e 129).

Le anime belle si stupiscono del fatto che l’apparato repressivo si sia messo docilmente al servizio della dittatura. Ma come sempre, in casi simili, dall’ultimo sbirro fino al direttore di ministero, l’intera macchina statale obbedisce all’autorità vigente. Non avevano forse i nuovi dirigenti politici piena legittimità? Perché eminenti giuristi non avrebbero dovuto, allora, conformare i loro decreti alle superiori leggi del paese? Nell’ambito di uno «Stato democratico» – quale era la Repubblica di Weimar – laddove si determini un conflitto tra i due termini del binomio, non sarà certo la democrazia a prevalere. Se in uno «Stato di diritto», come pure era la Repubblica di Weimar, sussiste una contraddizione tra lo Stato e il diritto, sarà il secondo a doversi piegare per mettersi al servizio del primo, mai il contrario.

Durante i primi mesi del regime, cosa fecero i democratici? Quelli di destra se ne fecero una ragione. Il Zentrum cattolico, che insieme alla SPD era stato il perno delle maggioranze di governo durante la Repubblica di Weimar – e che aveva persino migliorato il proprio risultato alle elezioni del marzo 1933 – votò a favore della legge che attribuiva a Hitler pieni poteri per quattro anni, e che sarebbe diventata la base legale della futura dittatura. Il Zentrum sarà costretto a sciogliersi in luglio.

Quanto ai socialisti, essi cercarono di sfuggire alla sorte che era toccata alla KPD, messa al bando il 28 febbraio (all’indomani dell’incendio del Reichstag). Il 30 marzo 1933, la SPD uscì dalla Seconda Internazionale, per dare prova della propria fedeltà alla nazione tedesca. Il 17 maggio, il gruppo parlamentare socialdemocratico votò a favore della politica estera di Hitler. Ciononostante, la SPD sarà sciolta d’autorità, in quanto «nemica del popolo e dello Stato».

Quanto ai sindacati, nel 1932 – come già aveva fatto la CGL italiana, che per salvare il salvabile si era dichiarata «apolitica» – i loro dirigenti si erano proclamati indipendenti da ogni partito e indifferenti alla forma dello Stato; fatto che non aveva impedito loro di cercare un accordo con Schleicher, cancelliere tra il novembre 1932 e il gennaio 1933, allorché quest’ultimo aveva avuto bisogno di una base operaia, o semplicemente di fare un po’ di demagogia. Una volta che Hitler si fu installato al potere, i dirigenti sindacali si persuasero che, se avessero riconosciuto il nazionalsocialismo, il regime avrebbe lasciato loro un minimo di spazio. Si giunse così alla derisoria sfilata dei sindacalisti dietro le croci uncinate, il 1° Maggio 1933 (la ricorrenza era stata trasformata nella «Festa del Lavoro Tedesco»). Fatica sprecata: già l’indomani i nazisti liquidarono i sindacati e ne arrestarono i militanti.

Concepita per inquadrare le masse e negoziare per conto loro, ma anche per reprimerle, la burocrazia operaia scontava la percezione di una situazione ormai superata. Moltiplicare i segni di obbedienza non servì a nulla. Non le si rimproverava di fare ingiuria alla «Patria», ma alle casseforti delle classi possidenti. Non era la sua fraseologia internazionalista, ereditata dal periodo anteriore al 1914, a infastidire la borghesia, bensì l’esistenza stessa di un sindacalismo che, per quanto sottomesso, era pur sempre indipendente – in un’epoca in cui il capitale non poteva più tollerare altra comunità se non la propria, e dove persino un organo della collaborazione di classe diventava un ostacolo, se non era interamente sottoposto al controllo dello Stato.

 

7. Barcellona 1936

Tanto in Italia quanto in Germania, il fascismo conquistò il potere in modo legale. La democrazia capitolò davanti alla dittatura: peggio, le spalancò le braccia. Lungi dal costituire un’eccezione, la Guerra di Spagna rappresenta il caso estremo di uno scontro armato tra democrazia e fascismo, che non modifica in nulla la natura della lotta. Quest'ultima oppose due diverse modalità di sviluppo del capitale, due differenti forme politiche dello Stato capitalistico, due strutture statali impegnate a disputarsi la legittimità all’interno del medesimo paese.

Obiezione: «Allora, secondo voi, Franco e una milizia operaia sarebbero la stessa cosa? I proprietari fondiari e i contadini poveri che collettivizzavano le terre, rappresenterebbero due campi della medesima natura?!»

In primo luogo, se uno scontro vi fu, è soltanto perché gli operai si sollevarono contro il fascismo. Tutta la forza e la contraddittorietà del movimento, tutta la sua complessità, si condensano nelle sue prime settimane: una guerra di classe, il cui esplodere è innegabile, si trasforma in guerra civile capitalistica; i proletari dei due campi muoiono per difendere due strutture capitalistiche rivali (per quanto, certamente, in nessun momento vi siano stati un’intesa preliminare e una ripartizione dei ruoli, attraverso cui le due frazioni della borghesia avrebbero teleguidato le masse a proprio vantaggio)17.

La storia di una società divisa in classi ruota intorno alla necessità di tenere insieme queste ultime. Quando alla spinta popolare si aggiunge – come avvenne in Spagna – una spaccatura all’interno delle classi dirigenti, la crisi sociale assume le sembianze di una crisi dello Stato. Mussolini e Hitler trionfarono in paesi di unificazione recente, caratterizzati da una struttura nazionale debole e da forti tendenze regionaliste. In Spagna, dal Rinascimento fino ai tempi moderni, lo Stato trasse alimento da una società mercantile di cui costituiva la punta di diamante coloniale – ma che in seguito mandò in rovina, impedendo la realizzazione di una delle condizioni dello sviluppo industriale: la riforma agraria. L’industrializzazione dovette così aprirsi la strada attraverso il monopolio, la concussione, il parassitismo.

Non abbiamo qui lo spazio sufficiente per riassumere il groviglio delle innumerevoli riforme, dei vicoli ciechi liberali, delle contese dinastiche, delle «guerre carliste»; la successione grottesca e tragica dei regimi e dei partiti prima del 1914; l’alternarsi di insurrezioni e repressioni dopo l’avvento della Repubblica, nel 1931. Alla base di questi sussulti, vi era la debolezza di una borghesia in crescita, presa tra i due fuochi della rivalità con l’oligarchia terriera e della necessità assoluta di contenere le rivolte contadine e operaie. Nel 1936, la questione della terra non era ancora risolta: contrariamente a quanto si era verificato in Francia dopo il 1789, la vendita dei beni ecclesiastici imposta alla metà del XIX secolo, aveva rafforzato la borghesia latifondista. Anche dopo il 1931, l’Istituto per la Riforma Agraria non utilizzava che un terzo dei fondi annualmente destinati al riscatto dei grandi latifondi. La deflagrazione del 1936-'39 non avrebbe conosciuto la polarizzazione politica che culminò nella scissione dello Stato in due opposte frazioni e in una guerra civile durata tre anni, senza le scosse che per un secolo avevano fatto tremare le fondamenta della società spagnola.

Una tale disunione permanente rendeva impossibile tanto l'alternanza tra i due partiti della Conservazione e della Riforma (come in Gran Bretagna), quanto la forza stabilizzatrice di una formazione situata nel centro di gravità politico (come il partito radicale francese durante la Terza Repubblica). Prima del luglio 1936, in una Spagna in cui gli operai agricoli non esitavano a occupare le terre, e capitava che una folla liberasse con la forza 30.000 detenuti politici, la socialdemocrazia adottò inevitabilmente una facciata estremista. Come ebbe a dire un capo socialista: «Nel nostro paese, le possibilità di stabilizzare una repubblica democratica diminuiscono di giorno in giorno. Le elezioni non sono altro che una forma di guerra civile.» (...o piuttosto una forma del suo controllo).

Nell’estate del 1936, dopo aver lasciato che i militari ribelli mettessero a punto in piena libertà i preparativi per la sedizione, il Fronte Popolare, eletto in febbraio, si preparava a negoziare e – probabilmente – a cedere. I politicanti si sarebbero adeguati, così come avevano fatto durante la dittatura di Primo de Rivera (1923-31), che era stata sostenuta da alcuni eminenti socialisti (Caballero ne fu consigliere tecnico, prima di essere nominato Ministro del Lavoro nel 1931 e diventare Capo del Governo repubblicano tra il 1936 e il 1937). D’altra parte, il generale che due anni prima aveva obbedito agli ordini del governo repubblicano, schiacciando l’insurrezione delle Asturie18 – Francisco Franco – non poteva essere del tutto malvagio.

Tuttavia, i proletari si sollevarono, impedendo, in una buona metà del paese, che il putsch avesse successo. E restarono in armi. In tal modo, essi evidentemente combattevano contro il fascismo, ma non agivano da antifascisti, poiché la loro azione era diretta contemporaneamente contro Franco e contro uno Stato democratico messo in imbarazzo più dalla loro iniziativa che dalla sedizione dei militari. Nel giro di ventiquattr’ore, si avvicendarono tre Primi Ministri, prima che il governo accettasse il fatto compiuto: l’armamento del popolo.

Ancora una volta, lo sviluppo insurrezionale dimostra che la questione della violenza è solo secondariamente un problema tecnico. La vittoria non va a chi ha il vantaggio delle armi (l’esercito) o quello del numero («il popolo»), ma a chi prende l’iniziativa. Là dove gli operai si affidarono allo Stato, come ad esempio a Saragozza, quest’ultimo rimase passivo o tutt’al più offrì delle promesse; laddove invece la loro risposta fu energica, prevalsero, come accadde a Malaga; quando infine essa mancò di vigore, sfociò in una carneficina (20.000 morti a Siviglia).

Dunque, all’origine della Guerra di Spagna vi è un’autentica insurrezione; ma questo dato di fatto non è sufficiente a definirla fino in fondo. L'elemento insurrezionale caratterizza solo la prima fase della lotta: un effettivo sollevamento del proletariato. Dopo aver sconfitto la reazione in molte città, gli operai avevano il potere nelle proprie mani. Ma cosa fecero? Lo restituirono allo Stato repubblicano o lo utilizzarono per andare oltre, in direzione di una rivoluzione comunista?

Costituitosi all’indomani dell’insurrezione, il Comitato Centrale delle Milizie Antifasciste riuniva i delegati della CNT (Confederación Nacional del Trabajo Confederazione Nazionale del Lavoro), della FAI (Federación Anarquista Ibérica Federazione Anarchica Iberica), dell’UGT (Unión General de Trabajadores Unione Generale dei Lavoratori), del POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista Partito Operaio di Unificazione Marxista), del PSUC (Partit Socialista Unificat de Catalunya Partito Socialista Unificato di Catalogna, nato dalla recente fusione del Partito Comunista e del Partito Socialista in Catalogna), dei partiti moderati, e quattro rappresentanti della Generalitat, il governo regionale catalano. Autentico ponte tra il movimento operaio e lo Stato – per di più collegato, per non dire integrato, al Dipartimento della Difesa della Generalitat, in virtù della presenza al suo interno del Consigliere alla Difesa, del Commissario per l’Ordine Pubblico etc. – il Comitato Centrale delle Milizie non tarderà a sciogliersi.

Certo, rinunciando alla propria autonomia, la maggior parte dei proletari pensava di potere, malgrado tutto, conservare il potere reale e di abbandonare ai politicanti niente più che un’autorità di facciata, di cui diffidava, ma che avrebbe potuto controllare e orientare in senso favorevole alla propria causa. Non si trattava forse di proletari in armi?

Fu un errore fatale: la questione non è chi ha in mano il fucile, bensì come lo usa. Dieci o centomila proletari armati non sono nulla, se si affidano a qualcosa di diverso dalla propria capacità di trasformare il mondo. Perché, in quest'ultimo caso – domani, tra un mese o tra un anno, con le buone o con le cattive – il potere la cui autorità in precedenza avevano riconosciuto, toglierà loro quei fucili; a meno che essi non li abbiano prima rivolti contro quello stesso potere.

Gli insorti non attaccarono il governo legittimo, dunque lo Stato; viceversa tutta la loro azione si svolse sotto la sua direzione. «A revolution that had begun but never consolidated» [Una rivoluzione che ebbe inizio ma che non si consolidò mai, NdT], scrisse Orwell. E proprio qui sta il punto – ciò che determinò tanto le sorti della lotta armata, quanto l’esaurimento o la distruzione violenta delle collettivizzazioni e delle socializzazioni da parte dei due fronti. Dopo l’estate del 1936, il potere reale era esercitato dallo Stato, non già da organizzazioni, sindacati, collettività, comitati etc. Benché in Catalogna, Nin, il leader del POUM, fosse stato nominato Consigliere di Giustizia, «il POUM non arrivò mai, in nessun caso, ad esercitare alcuna influenza sulla polizia», come ammette persino un sostenitore di questo partito19. Le milizie operaie, nonostante costituissero uno dei gioielli dell’esercito repubblicano, e pagassero un pesante tributo di sangue nei combattimenti, non giunsero mai a esercitare un peso sulle decisioni dello Stato Maggiore, che perseguì senza tregua la loro integrazione nell’esercito regolare (obiettivo raggiunto all’inizio del 1937), preferendo ridurle piuttosto che tollerarne l’autonomia. Quanto alla potente CNT, essa si piegò di fronte a un Partito Comunista prima del luglio 1936 ancora numericamente debole (14 deputati eletti alla Camera del Fronte Popolare in febbraio, contro gli 85 dei socialisti) ma che seppe fondersi con una parte dell’apparato statale, traendone la forza che userà poi – sempre di più – contro i radicali, e in particolare contro i militanti della CNT. Chi comanda? Ecco la domanda. E la risposta è: lo Stato, che quando è necessario usa il proprio potere nel modo più brutale.

Se la borghesia repubblicana e gli stalinisti sprecarono tempo prezioso per smantellare le comuni contadine, disarmare le milizie del POUM, dare la caccia ai «sabotatori trotskisti» e agli altri «complici di Hitler» – nel momento stesso in cui si suppone che l’antifascismo avrebbe dovuto mettere in campo tutte le sue forze per abbattere Franco – non si trattò di un errore suicida. Per lo Stato e il Partito Comunista, che era diventato la sua ossatura militare e poliziesca, non fu un’inutile perdita di tempo. La loro priorità non fu mai quella di sconfiggere Franco, bensì quella di conservare il controllo sulle masse, perché è precisamente questa la funzione di uno Stato. Si attribuiva al capo del PSUC questa frase: «Prima di prendere Saragozza, occorre prendere Barcellona». Barcellona fu tolta ai proletari, Saragozza rimase nelle mani dei franchisti.

 

8. Barcellona, maggio 1937

A Barcellona, nel maggio 1937, la polizia tentò di occupare la centrale telefonica controllata dagli operai anarchici (e socialisti). Nella metropoli catalana, cuore e simbolo della rivoluzione, i fautori della legalità repubblicana erano pronti a tutto pur di disarmare ciò che restava di vivo, spontaneo e antiborghese. La polizia locale era d’altronde nelle mani del PSUC. Posti di fronte ad un potere che si comportava apertamente da nemico, i proletari compresero infine che quel potere non era il loro, che gli avevano regalato, dieci mesi prima, la loro insurrezione, e che ora esso glie la rovesciava contro. In risposta al colpo di mano, Barcellona fu paralizzata da uno sciopero generale. Ma era troppo tardi: la capacità di insorgere contro lo Stato (questa volta nella sua forma democratica) era ancora integra, ma non quella di condurre lo scontro fino al punto di rottura.

Come sempre, il «sociale» prevale sul «militare». L’autorità legale non si impose attraverso combattimenti di strada: nel giro di qualche ora si instaurò non già una situazione di guerriglia urbana, bensì una sorta di guerra di posizione, un faccia a faccia in cui nessuno prevaleva, poiché nessuno prendeva l’iniziativa. Fermata la sua offensiva, la polizia rinunciò ad attaccare gli edifici dove gli anarchici si erano asserragliati. Lo Stato e il Partito Comunista controllavano grosso modo il centro della città, la CNT e il POUM i quartieri popolari. Lo stallo poteva essere superato soltanto politicamente.

Le masse facevano affidamento sulle due organizzazioni aggredite, le quali, temendo di alienarsi lo Stato, ottennero non senza difficoltà la ripresa del lavoro, scalzando in tal modo l’unica forza che avrebbe potuto salvarle politicamente e... fisicamente. Nel momento stesso in cui lo sciopero cessò, sapendo di avere ormai la situazione in pugno, il governo fece affluire da Valencia 6.000 Guardie d’Assalto, l’élite della polizia. Avendo accettato la mediazione delle «organizzazioni rappresentative» e gli inviti alla moderazione del POUM e della CNT20, gli stessi proletari che avevano sconfitto i militari fascisti nel luglio 1936, si arresero senza colpo ferire davanti ai gendarmi repubblicani.

La repressione poté così scatenarsi. Poche settimane furono sufficienti per mettere fuori legge il POUM, arrestare i suoi dirigenti, assassinarli più o meno legalmente e fare sparire Nin. Una polizia parallela organizzata dal NKVD (Narodnyj Komissariat Vnutrennich – Commissariato del Popolo per gli Affari Interni russo, NdT) e dalla struttura clandestina del Komintern, che rendeva conto soltanto a Mosca, si installò in alcuni locali tenuti segreti. Da questo momento, chiunque criticasse, per quanto blandamente, lo Stato repubblicano e il suo principale alleato straniero – l'Unione Sovietica – venne bollato e braccato come «fascista». Attraverso i continenti, talvolta per ignoranza talaltra per interesse, un esercito di anime belle ripeteva la calunnia; ma tutte erano ugualmente convinte che non si debba «denunciare» quando il fascismo attacca.

L’accanimento contro il POUM non fu un’aberrazione. Opponendosi ai «processi di Mosca»21, il POUM si era condannato ad essere distrutto da uno stalinismo impegnato in una lotta senza quartiere contro i suoi rivali per il controllo delle masse. A quell’epoca, la maggior parte dei partiti, e la stessa Lega dei Diritti dell’Uomo, avallarono la tesi della colpevolezza degli accusati. Sessant’anni più tardi, la versione ufficiale consiste nel considerare questi processi come la manifestazione della folle volontà di potenza del Cremlino. Come se i crimini staliniani non avessero alcun rapporto con l’antifascismo! La logica antifascista è sempre quella dell’allineamento con le tendenze più moderate e della lotta contro quelle più radicali.

Da un punto di vista strettamente politico, il Maggio 1937 produsse un risultato che solo qualche mese prima sarebbe stato inimmaginabile: un socialista ancora più a destra di Caballero, Negrin, fu posto alla testa di un governo che si schierò apertamente dalla parte dell’ordine e della repressione antioperaia. In tutta evidenza, come constatò Orwell – che corse il rischio di perderci la vita – la guerra «per la democrazia» era morta. Restavano a fronteggiarsi due fascismi, l’uno solo un po’ meno disumano dell’altro22. Ciononostante, Orwell non rinunciò all’idea che fosse necessario evitare innanzitutto il fascismo «più scoperto e sviluppato di Franco e Hitler». Dunque, non si trattava più che di combattere per un fascismo che era meno peggio dell'altro...

9. La guerra divora la rivoluzione23

Il potere non nasce dalla canna del fucile più di quanto stia dentro un'urna elettorale. Nessuna rivoluzione può essere pacifica, ma i suoi aspetti militari non sono mai centrali. Il punto non è che i proletari decidano di saccheggiare le fabbriche d’armi, ma che realizzino la propria essenza: quella di esseri mercificati che non possono né vogliono più esistere in quanto merci, e la cui rivolta fa saltare la logica capitalistica. È da questa «arma» che scaturiscono le barricate e le mitragliatrici. Maggiore sarà la vitalità sociale, più circoscritto sarà l’uso dei fucili e il numero dei morti.

La rivoluzione comunista non sarà una carneficina: non perché debba far proprio il principio della non-violenza, ma perché sarà tale soltanto se riuscirà a sovvertire la funzione dei militari di professione, piuttosto che ucciderli. Immaginare un «fronte proletario» contrapposto a un «fronte borghese», significa pensare ancora il proletariato in termini borghesi: quelli di una rivoluzione politica o di una guerra (strappare il potere al nemico e occuparne il territorio). In questo passaggio, vengono reintrodotti tutti gli elementi che il movimento insurrezionale aveva spazzato via: il rispetto per la gerarchia, per gli specialisti, per la scienza che «sa», per la tecnica che «risolve», insomma, per tutto ciò che degrada l’uomo comune. Posto al servizio dello Stato, il «miliziano» operaio si trasforma inevitabilmente in un «soldato». In Spagna, a partire dall’autunno del 1936, la rivoluzione si dissolve nella guerra, e nella fattispecie in un tipo di scontro che è caratteristico degli Stati: la guerra per fronti.

Gli operai, organizzati in «colonne», lasciarono Barcellona per andare a combattere il fascismo altrove (in primis, a Saragozza). Ammesso che essi intendessero esportare la rivoluzione fuori dai territori controllati dalla Repubblica, sarebbe stato prima necessario fare la rivoluzione in quegli stessi territori. Lo stesso Durruti non tenne conto del fatto che lo Stato era ancora in piedi. Lungo il tragitto che seguì, la sua colonna – composta per il 70% da anarchici – diede impulso alle collettivizzazioni; i miliziani aiutarono i contadini e propagarono le idee rivoluzionarie. Tuttavia, fu lo stesso Durruti a dire: «Abbiamo un solo obiettivo: distruggere il fascismo». Per quanto egli affermasse che le sue milizie non avrebbero mai difeso la borghesia, è pur vero che nemmeno la attaccarono. Circa due settimane prima di morire (il 21 novembre 1936), egli dichiarò:

«Una sola preoccupazione, un solo obiettivo […]: schiacciare il fascismo […]. Che nessuno pensi più, adesso, agli aumenti salariali e alla riduzione dell’orario di lavoro […] occorre sacrificarsi, lavorare tanto quanto è necessario […] dobbiamo formare un blocco granitico. È giunto il momento di invitare le organizzazioni sindacali e politiche a farla finita una volta per tutte. Nelle retrovie, bisogna essere capaci di amministrare […]. Non dobbiamo provocare con la nostra incompetenza, dopo quella attuale, una nuova guerra civile tra di noi […]. Alla tirannia fascista, dobbiamo opporre una sola forza; non deve esistere che una sola organizzazione, con una sola disciplina»24.

Ascoltando un simile discorso si poteva legittimamente pensare che vi fosse stata una rivoluzione sociale, che per compiersi aspettava solo di essere confermata dal verdetto delle armi: da una vittoria al fronte, contro il campo fascista.

Durruti e i suoi compagni incarnavano un’energia che non aveva atteso il 1936 per lanciarsi all’assalto del vecchio mondo. Ma la volontà di lotta più ferrea non basta, se gli operai dirigono i propri attacchi anziché contro lo Stato, contro una sua forma particolare. Accettare la guerra per fronti, alla metà del 1936, significava partire in armi per andare a combattere Franco, lasciando nelle retrovie, nelle mani della borghesia, le armi politiche e sociali; significava, in definitiva, privare la stessa azione militare di quel vigore iniziale che era sorto su ben altro terreno – il solo ad essere favorevole al proletariato.

«Se gli operai vogliono veramente formare un fronte contro i Bianchi, ciò è possibile solo a condizione di prendere essi stessi il potere politico, invece di lasciarlo nelle mani del governo del fronte popolare. Che vuol dire: la difesa della rivoluzione è possibile solamente sulla base della dittatura del proletariato attraverso i consigli operai, e non sulla base della collaborazione di tutti i partiti antifascisti […] L'annientamento del vecchio apparato di Stato e l'esercizio delle funzioni centrali del potere da parte degli operai stessi, sono l'asse della rivoluzione proletaria.» (PIC Gruppo dei Comunisti Internazionalisti, Amsterdam, ottobre 1936).

Nell’estate del 1936, lungi dal possedere una superiorità militare schiacciante, i nazionalisti non controllavano nessuna delle principali città. La loro forza risiedeva principalmente nella Legione Straniera e nei «mori» reclutati in Marocco. Quest’ultimo era diventato protettorato spagnolo nel 1912, ma era da tempo recalcitrante rispetto alle aspirazioni coloniali tanto della Spagna che della Francia. L’armata reale aveva subito qui una pesante sconfitta nel 1921, dovuta soprattutto alla defezione dei soldati marocchini che ne facevano parte. Nonostante la collaborazione franco-spagnola (nel cui ambito si distinse un certo generale Franco), la guerra del Rif si era conclusa soltanto nel 1926, con la capitolazione di Abdel-Krim. Dieci anni più tardi, la proclamazione dell’indipendenza immediata e incondizionata del Marocco spagnolo, avrebbe come minimo seminato lo scompiglio fra le truppe d’assalto della reazione. La Repubblica respinse ovviamente questa soluzione, sotto la doppia pressione degli ambienti conservatori e delle democrazie inglese e francese, poco propense a vedere andare in pezzi i rispettivi imperi coloniali. D’altra parte, in quegli stessi anni, il Fronte Popolare francese, non solo non concesse ai propri sudditi coloniali alcuna riforma degna di questo nome, ma sciolse d’autorità l’Etoile Nord-Africaine, un movimento proletario sorto in Algeria25.

Il «non-intervento», com'è noto, fu una farsa. Una settimana dopo il putsch, Londra rese nota la propria contrarietà a qualsiasi invio di armi al legittimo governo spagnolo, nonché la propria neutralità nel caso in cui la Francia fosse stata trascinata nel conflitto. La democratica Inghilterra metteva così Repubblica e fascismo sullo stesso piano. Di conseguenza, la Francia di Blum26 e Thorez27 decise di inviare solo qualche aereo, mentre Germania e Italia impegnavano interi corpi d’armata con il relativo equipaggiamento. Quanto alle Brigate Internazionali, poste sotto il controllo dell’URSS e dei Partiti Comunisti, la loro efficacia militare fu pagata a caro prezzo, con l’eliminazione di qualsiasi opposizione allo stalinismo tra i ranghi della classe operaia. All’inizio del 1937, dopo i primi rifornimenti di armi provenienti dalla Russia, Nin fu rimosso dal suo posto di Consigliere di Giustizia nel governo catalano.

Raramente la «storia delle battaglie», con la sua contabilità dei cannoni e delle strategie, è risultata tanto inadeguata a spiegare il corso di una guerra, che fu in Spagna direttamente «sociale»; fu infatti la dinamica interna al campo antifascista a determinarne l’evoluzione. Lo slancio dei nazionalisti si infranse in un primo tempo contro quello rivoluzionario. In seguito, allorché gli operai accettarono la legalità repubblicana, il conflitto divenne endemico e si irrigidì. Sul finire del 1936, le forze repubblicane scalpitavano alle porte di Saragozza; ma lo Stato armò soltanto le unità ritenute politicamente affidabili, cioè quelle di cui era certo che non avrebbero attentato alla proprietà privata. All’inizio dell’anno seguente, tra i mal equipaggiati miliziani del POUM, che combattevano i franchisti con vecchi fucili, possedere un revolver era considerato un lusso. Attraversando le città, i miliziani si imbattevano invece in soldati regolari perfettamente equipaggiati. I fronti ristagnavano, mentre i proletari di Barcellona esitavano dinnanzi alla sbirraglia. L’ultimo sussulto fu la vittoria dei repubblicani alle porte di Madrid. Ben presto, il governo ordinò ai privati di riconsegnare le armi; il decreto sortì scarsi effetti, ma fu sintomatico di una volontà ostentata di disarmare il proletariato. Il sospetto e il disinganno erodevano il morale, la guerra divenne un affare riservato agli specialisti. Infine, l’arretramento delle forze repubblicane accelerò mano a mano che, all’interno del campo antifascista, il contenuto sociale e le apparenze rivoluzionarie andavano dissipandosi.

Concepire la rivoluzione come una guerra, semplifica e falsa la questione sociale. Se l’alternativa è semplicemente tra la vittoria e la sconfitta militare, per essere «più forti» del nemico è sufficiente disporre di soldati ben disciplinati, di un equipaggiamento superiore, di ufficiali competenti e dell’appoggio di alleati sulla natura dei quali non occorre farsi troppi scrupoli. Curiosamente, questo tipo di concezione equivale ad allontanare il conflitto dalla vita quotidiana. La guerra ha questo di peculiare: che persino tra coloro che vi aderiscono, nessuno la vuole perdere, ma tutti desiderano vederne la fine. A differenza della rivoluzione, se si esclude il caso di una disfatta, la guerra non varca mai la mia porta. Una volta trasformatasi in scontro militare, la lotta antifranchista perse la sua dimensione di impegno personale e la sua realtà immediata, per diventare mobilitazione economica (lavorare per il fronte), ideologica (manifesti sui muri, riunioni) e umana. A partire dal gennaio 1937, l'arruolamento dei volontari si interruppe e la guerra civile, in entrambi i campi, si basò sempre di più sulla leva obbligatoria. Paradossalmente, un miliziano arruolatosi volontariamente nell’estate del 1936, e allontanatosi un anno più tardi per disgusto della politica repubblicana, poteva essere arrestato e fucilato come «disertore»!

Seppure in condizioni storiche mutate, l’evoluzione militare dell’antifascismo – insurrezione, milizie e infine esercito regolare – ricorda la guerriglia antinapoleonica descritta da Marx:

«Se si confrontano questi tre periodi della guerriglia con la storia politica della Spagna, si scopre che essi corrispondono ad altrettante fasi in cui lo spirito controrivoluzionario del governo riuscì progressivamente a raffreddare l’ardore popolare. Iniziata con la sollevazione di intere popolazioni, la guerra partigiana fu poi condotta da bande di guerriglia che trovarono le loro riserve in interi distretti, per terminare in una serie di corps francs sempre sul punto di assottigliarsi in gruppi di banditi o di ridursi al livello di reggimenti permanenti»28.

Che ci si riferisca al 1936 o al 1808, l’evoluzione militare non può essere spiegata esclusivamente – e nemmeno in modo prevalente – attraverso l’arte della guerra; essa dipende dai rapporti tra le forze politiche e sociali, e dalla loro trasformazione in senso controrivoluzionario. Il compromesso evocato da Durruti, il richiamo all’unità a tutti i costi, non potevano che regalare la vittoria dapprima allo Stato repubblicano (che sconfisse il proletariato) e poi allo Stato franchista (che sconfisse la Repubblica).

In Spagna vi fu un abbozzo di rivoluzione, che si capovolse nel suo contrario nel momento stesso in cui i proletari, convinti di detenere il potere effettivo, si appoggiarono allo Stato per lottare contro Franco. Su questa base, le iniziative e le misure sovversive che si moltiplicarono sia nella produzione sia nella vita quotidiana, erano destinate a fallire, per la sola e terribile ragione che si dispiegavano all’ombra di un’organizzazione statale ancora intatta, la cui attività, inizialmente ridotta, venne successivamente rinvigorita dalle esigenze della guerra antifranchista (paradosso misconosciuto dalla maggior parte dei gruppi rivoluzionari dell’epoca). Per consolidarsi ed estendersi, le trasformazioni sociali senza le quali la rivoluzione non è che una vuota espressione verbale, si sarebbero dovute porre in termini antagonistici rispetto a uno Stato chiaramente individuato come il nemico. Ora, l’esistenza di un doppio potere, dopo il luglio 1936, non fu che apparente. Non solo gli organismi proletari sorti durante l’insurrezione, e quelli che in seguito attuarono le socializzazioni, tollerarono l'esistenza dello Stato, ma gli riconobbero la preminenza nella lotta antifascista – come se fosse necessario passare tatticamente attraverso il suo intervento, per sconfiggere Franco. Quanto al cosiddetto realismo, il ricorso a metodi militari di tipo tradizionale, accettato dall’estrema sinistra (ivi inclusi il POUM e la CNT) in nome dell’efficienza, si rivelerà quasi sempre inefficace. A sessant’anni di distanza, questa scelta viene ancora deplorata. Lo Stato democratico non ha come ragion d'essere la lotta armata contro il fascismo, né di impedire a quest’ultimo l’accesso pacifico al potere. È ovvio che uno Stato aborrisca la guerra sociale e che, lungi dall'incoraggiarla, tema la fraternizzazione tra i proletari. Quando a Guardasala, nel marzo 1937, gli antifascisti si rivolsero ai soldati inviati da Mussolini come lavoratori, un gruppo di italiani disertò. Ma rimase un caso isolato.

Nel periodo intercorso tra la battaglia per Madrid (marzo 1937) e la definitiva caduta della Catalogna (febbraio 1939), il cadavere della rivoluzione abortita si decompose sui campi di battaglia. In riferimento alla Spagna, si può ben parlare di guerra, non già di rivoluzione. E la guerra finì per assolvere a una funzione primaria del capitalismo: costituire in Spagna uno Stato legittimo capace di sviluppare – in un modo o nell’altro – il capitale nazionale, sottomettendo completamente le masse popolari. Nel febbraio del 1939, Benjamin Péret commentava così la sconfitta:

«La classe operaia […] avendo perduto di vista i propri obiettivi, non trova più alcun urgente motivo per lasciarsi uccidere per la difesa del clan borghese democratico contro quello fascista, vale a dire, in fin dei conti, per la difesa del capitale anglo-francese contro l’imperialismo italotedesco. La guerra civile si è trasformata vieppiù in guerra imperialista»29.

Lo stesso anno, Bruno Rizzi scrive:

«Per non svegliare i cani che dormono, le vecchie democrazie recitano una politica antifascista. Devono tenere tranquilli i proletari […] danno da mangiare alle masse operaie dell'antifascismo al mattino, a pranzo e a cena. Resta loro comodo, intanto, che la Spagna si trasformi in un macello proletario internazionale tanto per calmare le arie rivoluzionarie dei lavoratori e per smaltire i prodotti della loro industria pesante. […] Una volta di più i lavoratori sono gabbati, quando li si spinge a lottare contro il fascismo e in difesa dell'URSS. Era proprio il proletariato la sola classe che poteva tenere testa al fascismo, ma occorreva un proletariato dirigente e non al rimorchio della vecchia carcassa capitalista. A tale riguardo, le esperienze della Cina e della Spagna non sono soggette a equivoco, ed altre ancora più dure sono in gestazione». (Bruno Rizzi, La burocratizzazione del mondo, Colibrì, Milano 2002, pp. 33 e 79).

È incontestabile che i due campi fossero caratterizzati da una composizione e da un significato sociale molto differenti. Se la borghesia era presente su entrambi i fronti, l’immensa maggioranza degli operai e dei contadini poveri appoggiavano la Repubblica, mentre gli strati sociali più arcaici e reazionari (interessi fondiari, piccola proprietà, clero) erano schierati con Franco. Questa polarizzazione di classe conferiva allo Stato repubblicano un’aura progressista, ma non modificava di una sola virgola il significato storico del conflitto – non più di quanto, ad esempio, la percentuale di operai aderenti alla SPD, alla SFIO o al PCF, chiarisca la questione della natura di questi partiti. Essa è certamente un dato di fatto, ma tale dato è secondario rispetto alla funzione sociale della realtà che dobbiamo comprendere. Il partito a base operaia, che controlla o combatte qualsiasi «eccesso» proletario, ammortizza le contraddizioni di classe. Allo stesso modo, l’esercito repubblicano contava un gran numero di operai; ma per cosa, con chi e agli ordini di chi combattevano? Porre la domanda equivale a darsi una risposta; a meno di credere che sia possibile lottare contro la borghesia... al fianco della borghesia stessa.

«La guerra civile è l’espressione suprema della lotta di classe»30: l'affermazione di Trotsky è corretta; salvo specificare che – dalle guerre di religione fino alle convulsioni irlandesi o libanesi in tempi più recenti – la guerra civile è anche, e più spesso, la forma assunta da una lotta sociale quando questa abortisce o viene resa impossibile; quando cioè le contraddizioni di classe, incapaci di affermarsi in quanto tali, implodono, dando vita a blocchi ideologici o etnici, che allontanano ulteriormente la possibilità dell’emancipazione umana.

10. Degli anarchici al governo?

Nell’agosto del 1914, la socialdemocrazia non aveva «capitolato» come un lottatore che getta la spugna prima ancora di avere iniziato a combattere, ma aveva coronato il corso naturale di un possente movimento, internazionalista a parole, ma che nei fatti già da tempo era connotato in senso profondamente nazionale. È vero che la SPD rappresentava, in Germania, la prima forza elettorale, ma il suo potere era limitato a un riformismo tutto interno al capitalismo, e regolato dalle leggi di quest’ultimo. Tutto ciò la portava, ad esempio, ad accettare il colonialismo e la guerra, nel momento stesso in cui diventavano l’unica via d’uscita possibile dalle contraddizioni sociali e politiche.

Allo stesso modo, l’integrazione del movimento anarchico spagnolo allo Stato, nel 1936, può sorprendere soltanto chi ne dimentichi la natura. La CNT è un sindacato, e non esistono «sindacati antisindacali». La funzione trasforma l’organo: quali che siano le sue idee originarie, ogni organismo permanente deputato alla difesa salariale, si trasforma dapprima in mediatore, e poi in conciliatore. Anche se animata da elementi radicali, anche se repressa, l’istituzione è destinata a sottrarsi alla base e a trasformarsi in strumento di moderazione. La CNT, sindacato anarchico, è innanzitutto un sindacato, e solo in seconda istanza un’organizzazione anarchica. Certo, un abisso separa l'organizzazione di base da quella i cui dirigenti siedono alla tavola del padrone; ma la CNT, in quanto apparato, non si distingue dall’UGT: entrambe lavoravano per la modernizzazione e la gestione razionale dell’economia (in altri termini, per la socializzazione del capitalismo). Il medesimo filo lega il voto ai crediti di guerra da parte dei partiti socialisti nel 1914, alla partecipazione dei dirigenti anarchici al governo, dapprima in Catalogna (settembre 1936) e poi in tutta la Repubblica (novembre 1936). Dopo il 1914, Errico Malatesta aveva definito «anarchici di governo» quei suoi compagni (ad esempio Kropotkin) che avevano fatta propria la prospettiva della difesa nazionale31.

La CNT era ad un tempo un'istituzione e lo strumento della sovversione sociale. La contraddizione fu sciolta alle elezioni legislative del 1931, allorché l'anarchismo chiamò a votare i candidati repubblicani, rinunciando così al suo antiparlamentarismo. La CNT diventava così un «sindacato che aspira alla conquista del potere», ciò che «conduceva inevitabilmente a una dittatura sul proletariato». (Gruppo dei Comunisti Internazionalisti, 1931).

Di compromesso in arretramento, la CNT finì per rinnegare l'antistatalismo che ne aveva costituito la ragion d’essere, e questo persino dopo che la Repubblica e il suo alleato russo ebbero mostrato il loro vero volto accanendosi contro i radicali (maggio 1937). Per tacere di ciò che accadde in seguito, nelle prigioni e nelle segrete. Fu anzi proprio allora che la CNT, così come il POUM, contribuì in misura crescente al disarmo dei proletari, invitandoli a porre fine alla lotta contro la polizia ufficiale e quella staliniana, che erano invece ben decise a condurla fino in fondo. Nel maggio del 1937, «la CNT FU uno dei principali responsabili del soffocamento dell'insurrezione, poiché demoralizzò il proletariato nell'istante in cui si stava mobilitando contro la reazione democratica.» («Räte-Korrespondenz», organo del GIC olandese, giugno 1937).

Taluni radicali ebbero persino l’amara sorpresa di ritrovarsi a soggiornare in una prigione diretta da un coraggioso anarchico, sprovvisto del benché minimo controllo su quello che accadeva tra le sue mura. Nel 1938, una delegazione della CNT, recatasi in URSS per richiedere degli aiuti, evitò accuratamente di sollevare la benché minima protesta contro i «processi di Mosca».

Priorità alla lotta antifascista, priorità ai cannoni e ai fucili...32

Eppure, si dirà, gli anarchici sono di norma immuni dal virus statale. In apparenza...

I «marxisti» possono citare le pagine di Marx sulla distruzione della macchina dello Stato, o quelle di Stato e rivoluzione di Lenin, dove si annuncia che un giorno le cuoche gestiranno la società al posto dei politici, e nondimeno, per quanto poco essi vedano nello Stato l’agente del progresso o di una necessità storica, praticare la statolatria più servile. Concependo il futuro come una socializzazione capitalistica senza capitalisti, un mondo ancora salariale ma egualitario, democratizzato e pianificato, costoro sono pronti ad accettare l’esistenza di uno Stato – naturalmente «transitorio» – e persino a combattere sotto la direzione di uno Stato capitalista «malvagio», contro un altro giudicato «peggiore».

Quanto all’anarchismo, da un lato, identificando nell’autorità il nemico principale, esso sopravvaluta il potere statale; dall'altro, credendo che la sua distruzione si possa effettuare separatamente da ogni altra trasformazione, lo sottovaluta. Esso non coglie il ruolo effettivo dello Stato, che garantisce, ma non crea il rapporto salariale. Lo Stato non è il motore né il nucleo centrale del capitale, bensì il suo rappresentante e il suo unificatore.

Partendo dal fatto incontestabile che le masse erano in armi, gli anarchici giunsero alla conclusione che lo Stato avesse perso ogni sostanza. Ora, quest’ultima non risiede nelle sue forme istituzionali, ma nella sua funzione unificatrice. Lo Stato garantisce il legame che gli esseri umani non possono o non osano stabilire tra di loro, e tesse una rete di servizi al contempo parassitari e reali. Se è vero che, nella Spagna repubblicana del 1936, lo Stato appariva debole, esso sopravviveva in realtà come quadro capace di integrare i diversi elementi della società capitalistica. Lo Stato non era morto, si trovava soltanto in uno stato di ibernazione. Successivamente, esso si risvegliò, e si rafforzò a misura che i rapporti sociali abbozzati dalla sovversione si allentavano e sfilacciavano, rianimando gli organi che precedentemente aveva messo da parte e recuperando talvolta quelli che la sovversione stessa aveva creato. Quello che veniva visto come un guscio vuoto, si rivelò infine capace non solo di tornare alla vita, ma di svuotare del loro contenuto le forme di potere parallelo nelle quali la rivoluzione aveva creduto di condensare i suoi frutti migliori.

La giustificazione suprema addotta dalla CNT, si riassume nell’idea che il governo legale non detenesse più il potere reale, poiché il movimento operaio lo aveva conquistato di fatto:

«[...] il governo ha cessato di essere una forza d’oppressione contro la classe operaia, dal momento che lo Stato non è più l’organismo che divide la società in classi»33.

Al pari del «marxismo», l’anarchismo feticizza lo Stato, lo immagina incarnato in un luogo. Già Blanqui aveva mandato il suo piccolo gruppo all’assalto di un municipio o di una caserma; ma, almeno, egli non pretendeva di basare la propria azione sul movimento proletario, bensì su una minoranza che assumeva su di sé il compito di risvegliare «il popolo». Un secolo più tardi, la CNT decretò che a fronte della realtà concreta delle «organizzazioni sociali» (milizie, sindacati etc.), lo Stato spagnolo era niente più che un fantasma. Nondimeno l’esistenza dello Stato, la sua ragion d’essere, è connessa alla necessità di sopperire alle mancanze della «società civile»; ciò per mezzo di un sistema di relazioni, di snodi, di concentrazione della forza, una capillare struttura amministrativa, poliziesca, giudiziaria, militare (che durante le crisi si mette in stand by e si fa da parte, ma solo in attesa del momento in cui l’inchiesta poliziesca andrà ad attingere ai dossier dei servizi sociali). La rivoluzione non deve prendere alcuna Bastiglia, alcun commissariato o palazzo governativo: deve innanzitutto scalzare e distruggere ciò che ne costituisce il fondamento e la forza.

 

11. Il fallimento delle collettivizzazioni

L'ampiezza delle collettivizzazioni nell’industria e nell’agricoltura spagnole, dopo il luglio 1936, non fu una mera casualità storica. Già Marx aveva messo in rilievo la tradizione di autonomia popolare esistente in Spagna, e lo scarto tra lo Stato e la popolazione manifestatosi durante la guerra antinapoleonica, e successivamente nel corso delle rivoluzioni del XIX secolo, che rinnovavano la secolare resistenza dei Comuni al potere dinastico. La monarchia assoluta – osservava Marx – non aveva rimescolato i diversi strati sociali per forgiare una società moderna, ma aveva lasciato in vita le forze vive del paese. Napoleone aveva visto nella Spagna un «cadavere»: «lo Stato spagnolo era morto, ma la società spagnola era piena di vita»; «ciò che noi chiamiamo “lo Stato” nel senso moderno del termine, si materializza soltanto nell’esercito, in conseguenza della vita esclusivamente provinciale della popolazione»34.

Nella Spagna del 1936, la rivoluzione borghese era ormai un fatto compiuto ed era vano sognare scenari accostabili al 1917 russo – o, a maggior ragione, al 1848 o al 1789 francesi. Tuttavia, se la borghesia dominava sul piano politico, e il capitale su quello economico, essi erano ben lungi dall’avere creato un mercato interno unificato e un apparato statale moderno, capace di sottomettere l’intera società e di ridurne i localismi. Nel 1854 – secondo Marx – un governo «dispotico» conviveva con una fondamentale assenza di unità, che si spingeva fino all’esistenza di monete e regimi fiscali distinti. Queste considerazioni rimanevano valide, almeno in parte, ottant’anni più tardi. Lo Stato non riusciva a dare impulso all’industria, né a portare a compimento la riforma agraria; non era in grado di estrarre dall’agricoltura i profitti necessari all’accumulazione del capitale, né di unificare le diverse regioni; né, soprattutto, si era dimostrato capace di domare il proletariato urbano e rurale.

Dunque è quasi naturale che lo choc del luglio 1936 facesse sorgere, accanto al potere politico, un movimento sociale, le cui potenzialità comuniste saranno in un secondo tempo riassorbite proprio da quello Stato cui esse avevano consentito di continuare a esistere. I primi mesi della rivoluzione – che già rifluiva, ma la cui estensione era ancora tale da mascherare la sconfitta – offrono l’immagine di un’esplosione, dove ogni regione, comune e municipalità si sottrae all’autorità centrale, pur senza attaccarla direttamente, e decide di vivere altrimenti. L'anarchismo, e lo stesso regionalismo del POUM, esprimono questa peculiarità del movimento operaio spagnolo, che può essere sottovalutata solo da chi, nel «ritardo» del capitalismo iberico, vede unicamente un fattore negativo. Nemmeno il riflusso del 1937 arrestò lo slancio di centinaia di migliaia di operai e contadini, che si erano impadroniti di terre, fabbriche, quartieri e villaggi, attaccando la proprietà e socializzando la produzione – con un’autonomia, una solidarietà quotidiana e una fratellanza che impressionarono gli osservatori e gli stessi partecipanti35.

Se questi innumerevoli fatti e azioni, che talvolta si estesero lungo l’arco di anni, attestano – come fecero a modo loro l’esperienza russa e quella tedesca – l’esistenza di un movimento comunista che agita l'intera società, e le formidabili capacità sovversive che dimostra di possedere ogniqualvolta emerga su larga scala, resta nondimeno il fatto che esso si era votato alla sconfitta fin dall’estate del 1936. La Guerra di Spagna testimonia, allo stesso tempo, del vigore rivoluzionario dei legami e delle forme comunitarie, già penetrati ma non ancora riprodotti direttamente dal capitale, e della loro impotenza ad assicurare, da soli, un esito rivoluzionario. In assenza di un assalto contro lo Stato e dell’instaurazione di rapporti sociali di tipo nuovo in tutto il paese, ci si dedicava a un’autogestione parcellizzata, che conservava sia il contenuto che le forme del capitalismo: nella fattispecie, il denaro e l’impresa privata. Ogni persistenza del lavoro salariato perpetua la gerarchia delle funzioni e dei redditi36.

Una serie di misure comuniste avrebbe potuto intaccare le basi dei due Stati – repubblicano e nazionalista –, non foss’altro che iniziando a risolvere la questione agraria (negli anni Trenta, oltre la metà della popolazione era sottoalimentata). Una forza sovversiva era emersa e aveva reso visibili gli strati della popolazione più oppressi e tenuti ai margini della «vita politica» (le donne, ad esempio); ma non riuscì ad andare fino in fondo, a prendere le cose alla radice.

A quel tempo, il movimento operaio dei grandi paesi industrializzati corrispondeva alle aree socializzate da un capitale che dominava l'intera società, dove il comunismo appariva al contempo più vicino, in virtù di questa socializzazione, e più lontano, a causa della progressiva mercificazione di tutte le relazioni. Il mondo nuovo era per lo più immaginato come un mondo operaio, se non industriale.

I proletari spagnoli, viceversa, rimanevano condizionati da una penetrazione del capitale nella società più quantitativa che qualitativa, e traevano da questa situazione al contempo forza e fragilità, come testimoniano la tradizione e la rivendicazione di autonomia incarnate dal movimento anarchico.

«Nel corso degli ultimi cent’anni, non vi è stato in Andalusia un solo sollevamento che non abbia condotto alla creazione di comuni, alla condivisione delle terre, all’abolizione della moneta e a una dichiarazione d’indipendenza […] L’anarchismo degli operai non è molto diverso; anche costoro rivendicano in primo luogo la possibilità di gestire essi stessi la loro comunità industriale o il loro sindacato, e in secondo luogo la riduzione dell’orario e la diminuzione individuale del carichi di lavoro […]»37.

Uno dei principali elementi di debolezza del movimento, fu il suo atteggiamento nei confronti del denaro. La «scomparsa della moneta» ha senso solo se si risolve in qualcosa di più della mera sostituzione di uno strumento di calcolo del valore con un altro (i «buoni di lavoro», ad esempio). Ora, seguendo in questo la maggior parte dei gruppi radicali, marxisti o anarchici, i proletari spagnoli non vedevano nel denaro un’espressione o un’astrazione dei rapporti reali, bensì un semplice strumento di misura, un mezzo contabile; e riducevano in tal modo il socialismo a una diversa gestione delle medesime categorie e componenti fondamentali del capitalismo.

Il fallimento degli esperimenti antimercantili, non è imputabile al controllo esercitato sulle banche da un sindacato ostile alle collettivizzazioni come l'UGT – come se l’abolizione del denaro potesse essere decretata dal potere centrale! La chiusura delle banche private e della Banca Centrale non mettono fine ai rapporti mercantili, se non si organizzano nel frattempo una produzione e una vita non mediate dalla merce, capaci di estendersi poco a poco all’insieme dei rapporti sociali. Il denaro non è il «male», contrapposto al «bene» della produzione, bensì la manifestazione – oggi sempre più immateriale – del carattere mercantile di ogni aspetto della vita. Non lo si eliminerà limitandosi a sopprimere dei segni, ma soltanto facendo decadere il sistema dello scambio in quanto rapporto sociale.

Di fatto, solo alcune collettività rurali rinunciarono all’uso del denaro, spesso facendo però ricorso a monete locali; gli stessi buoni di lavoro venivano sovente utilizzati come «moneta interna». Incapaci di estendere la produzione non mercantile al di là di zone autonome generalmente giustapposte e prive di un’azione comune, soviet, collettivi e villaggi liberati si trasformarono in comunità precarie, che presto o tardi finirono per essere distrutte dall'interno o annientate dalle armi, tanto fasciste che repubblicane. In Aragona, la colonna dello stalinista Lister ne aveva fatta la propria specialità; entrando nel villaggio di Calanda, il suo primo atto fu quello di scrivere su un muro: «La collettivizzazione è un furto».

 

12. Collettivizzare o comunizzare?

Fin dai tempi dell’Alleanza Internazionale dei Lavoratori [AIT o Prima Internazionale Socialista dei Lavoratori, NdT], l’anarchismo contrappone alla statalizzazione socialdemocratica l’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione. Le due concezioni partono tuttavia dalla medesima esigenza: quella di un collettivo che si faccia carico della gestione. Ma gestione di che cosa? Certamente, quello che la socialdemocrazia ha attuato burocraticamente dall’alto, i proletari spagnoli lo hanno praticato alla base, armi in pugno, rendendo ogni singolo individuo responsabile di fronte agli altri, e sottraendo in tal modo la terra o la fabbrica a una minoranza organizzatrice e sfruttatrice del lavoro altrui; in breve, l’esatto contrario della cogestione delle miniere in cui erano implicati i sindacati socialisti e stalinisti. Nondimeno, il fatto che sia una collettività – e non lo Stato o un apparato burocratico – a prendere in mano la produzione della propria vita materiale, non ne sopprime di per sé il carattere capitalistico.

Il lavoro salariato è il passaggio di un’attività qualsiasi – che si tratti di arare un terreno o stampare un giornale – attraverso la forma-denaro la quale, nello stesso momento in cui rende possibile l'attività, per mezzo di essa si accresce. Eguagliare i salari, decidere di ogni cosa collettivamente, sostituire la cartamoneta con dei «buoni», non è sufficiente a far deperire il rapporto salariale. Quel che il denaro tiene insieme non può essere libero, e presto o tardi il denaro se ne renderà padrone.

Sostituire su base locale l’associazione alla concorrenza, equivale ad andare incontro alla rovina: se una collettività abolisce al proprio interno la proprietà privata, si costituisce essa stessa in unità separata, in elemento particolare che esiste accanto ad altri elementi nel quadro dell’economia globale; essa diventa un «collettivo privato», costretto a vendere e comprare, insomma a intrattenere rapporti commerciali con l’esterno, trasformandosi a sua volta in un’impresa che, volente o nolente, sarà costretta a svolgere il proprio ruolo nell’ambito della concorrenza regionale, nazionale e mondiale, pena la propria scomparsa.

Non possiamo che rallegrarci del fatto che una parte della Spagna sia implosa: ciò che il senso comune definisce «anarchia», è condizione necessaria della rivoluzione – Marx stesso lo scrisse, a suo tempo. Ma questi movimenti traevano la loro spinta sovversiva da una forza centrifuga che alimentava anche il localismo. I legami comunitari rivitalizzati rinchiudevano ciascuno nel proprio villaggio o quartiere, come se si trattasse di ritrovare un mondo perduto, un’umanità diminuita; come se fosse questione di opporre il quartiere operaio alla metropoli, la comune autogestita al vasto dominio capitalistico, la campagna popolare alla città mercantile – in breve: il povero al ricco, il piccolo al grande, il locale all’internazionale – dimenticando che la cooperativa è spesso solo sinonimo di una lunga marcia verso il capitalismo.

Nessuna rivoluzione senza distruzione dello Stato: è questa la «lezione» spagnola. Tuttavia la rivoluzione non è un rivolgimento politico, ma un movimento sociale in cui la distruzione dello Stato e l’elaborazione di nuove modalità di dibattito e decisione, vanno di pari passo con la comunizzazione. Noi non vogliamo «il potere», ma il potere di cambiare la vita intera; ma poiché si tratta di un processo storico che abbraccerà più generazioni, possiamo forse immaginare che si continuino a versare salari e pagare cibo e alloggi per tutto questo tempo? Se la rivoluzione fosse in prima battuta politica, e soltanto in seguito sociale, essa creerebbe un apparato la cui funzione sarebbe soltanto quella di lottare contro i difensori del vecchio mondo: una funzione negativa, repressiva, un sistema di controllo che non riposerebbe su altro contenuto che il proprio «programma», la propria volontà di attuare il comunismo il giorno in cui le condizioni della sua realizzazione saranno infine apparecchiate. È così che la rivoluzione si ideologizza e legittima la nascita di un ceto di specialisti, incaricato di gestire la maturazione e l’attesa del «sol dell’avvenire». L'essenza della politica è non potere e non volere cambiare alcunché: essa riunisce ciò che è separato senza andare oltre. Ecco il potere, che gestisce, amministra, sorveglia, rassicura, reprime. Il dominio politico – in cui tutta una scuola di pensiero vede la questione fondamentale – nasce dall’incapacità degli esseri umani di gestirsi da soli, di organizzare la propria vita e la propria attività. Esso esiste solo attraverso l’espropriazione radicale dei proletari. Quando ciascuno parteciperà alla produzione della propria esistenza, le capacità di pressione e oppressione di cui dispone oggi lo Stato diventeranno inoperanti.

È in quanto la società salariale ci priva dei mezzi per vivere, per produrre, per comunicare, giungendo fino a invadere lo spazio che un tempo costituiva «il privato» e a dettare le nostre stesse emozioni, che lo Stato è onnipotente. La migliore garanzia contro il ricostituirsi di una struttura di potere al di sopra delle nostre teste, è l’appropriazione radicale delle nostre condizioni di esistenza, a tutti i livelli. Per esempio, siccome escludiamo che ciascuno pedali nel proprio scantinato per produrre l’elettricità di cui ha bisogno, il dominio del Leviatano è anche la conseguenza del fatto che l’energia (vocabolo significativo, che in inglese si traduce con power) ci rende dipendenti dai grandi complessi industriali che – nucleare o meno – ci restano necessariamente estranei e sfuggono a ogni controllo.

Concepire la distruzione dello Stato come lotta armata contro la polizia e le forze militari, equivale a scambiare la parte per il tutto. Il comunismo è in primo luogo attività: un modo di vita in cui uomini e donne producono la propria esistenza sociale, e impediscono o riassorbono l’emergere di poteri separati.

 

13. Un bilancio

La sconfitta spagnola del 1936-37 è speculare a quella russa del 1917-21. Gli operai russi riuscirono a conquistare il potere, ma non a utilizzarlo per attuare una trasformazione comunista. L'arretratezza, lo sfacelo economico e l’isolamento internazionale, non spiegano interamente l’involuzione che ne seguì. La prospettiva tracciata da Marx – forse applicabile in modo differente dopo il 1917 – di una rinascita sotto forme nuove delle strutture rurali comunitarie [l’obscina, NdT], non era nemmeno pensabile a quell'epoca. Senza bisogno di ricordare l’elogio del taylorismo fatto da Lenin e la giustificazione del lavoro militarizzato di Trotsky, la quasi totalità dei bolscevichi e l’immensa maggioranza della Terza Internazionale – sinistra comunista inclusa – ritenevano che il socialismo equivalesse alla socializzazione capitalistica più i soviet, e l’agricoltura del futuro era immaginata come un insieme di grandi proprietà fondiarie gestite democraticamente. (La differenza – enorme! – tra la sinistra comunista tedescoolandese e il Komintern, a tal riguardo, risiede nel fatto che la prima prendeva sul serio i soviet e la democrazia, mentre i bolscevichi – la loro prassi lo dimostra – non vi vedevano che formule tattiche).

In ogni caso, i bolscevichi offrono l’esempio migliore di ciò che accade a un potere che è soltanto potere, e deve perpetuarsi senza modificare più di tanto le condizioni reali. In modo del tutto logico, e inizialmente in totale buona fede, lo Stato dei soviet cercò di perpetuarsi a ogni costo – dapprima nella prospettiva della rivoluzione mondiale, in seguito solo per se stesso –, e presto non ebbe altra soluzione che la coercizione, essendo la priorità assoluta quella di preservare una società che stava andando in pezzi. Si ebbero così, da un lato, le concessioni alla piccola proprietà contadina, seguite dalle requisizioni, che allontanavano ancor più, le prime come le seconde, da una produzione e da una vita comunitarie; e, dall'altro lato, la repressione anti-operaia e quella contro le opposizioni interne al partito. Un potere che giunge a massacrare gli ammutinati di Kronstadt (i quali avanzavano, dopotutto, delle rivendicazioni di tipo democratico), in nome di un socialismo che esso non realizza – e si giustifica per di più attraverso la menzogna e la calunnia – non fa che rimarcare la perdita di qualsiasi carattere comunista. Lenin morì nel 1924. Ma il Lenin rivoluzionario era morto capo di Stato nel 1921, se non addirittura prima... Ai dirigenti bolscevichi non restava che trasformarsi in amministratori del capitalismo.

Ipertrofia di una politica che si accaniva a voler eliminare ostacoli che non era in grado di sovvertire, la Rivoluzione d’Ottobre si dissolse anch’essa in una guerra civile auto-distruttiva. Il suo dramma è quello di un potere che, non riuscendo a trasformare la società, degenera in organismo controrivoluzionario. Nella tragedia spagnola, i proletari, abbandonando il loro terreno, si ritrovarono prigionieri di un conflitto in cui la borghesia e il suo Stato erano presenti su entrambi i fronti. Nel 1936-37, il proletariato spagnolo non si batté soltanto contro Franco, ma in generale contro i paesi fascisti, contro le democrazie e la farsa del «non-intervento», contro lo Stato repubblicano e contro l’URSS, che li armò solo per disarmare i rivoluzionari etc. Il 1936-'37 chiude la fase storica aperta dal 1917.

In una futura epoca rivoluzionaria, i più sottili e pericolosi difensori dell'esistente non saranno coloro che grideranno slogan a favore del capitalismo e dello Stato, ma coloro che avranno individuato il punto della possibile rottura. Lungi dall’esaltare la pubblicità o l’obbedienza, essi proporranno di cambiare la vita... previa la costruzione di un potere autenticamente democratico. Se costoro riuscissero a imporsi, l’instaurazione di questa nuova forma politica assorbirebbe le energie, utilizzerebbe le aspirazioni radicali e, trasformando il mezzo in fine, pervertirebbe ancora una volta la rivoluzione in ideologia. Contro questa tendenza, e ovviamente contro la reazione apertamente capitalistica, l’unica strada che potrà condurre i proletari alla vittoria, sarà il moltiplicarsi e l’estendersi coordinato di iniziative comuniste concrete, che saranno naturalmente denunciate come antidemocratiche, cioè… «fasciste». La lotta per imporre luoghi e momenti di deliberazione e decisione, unica garanzia per l'autonomia del movimento, non può essere separata da misure pratiche che tendano a cambiare la vita.

«[...] in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità etc. [...]»38.


* Titolo originale: GILLES DAUVÉ, Quand meurent les insurrections (1998). Versione riveduta e corretta della traduzione italiana già apparsa in appendice a AGUSTÍN GUILLAMÓN, I Comitati di Difesa della CNT a Barcellona (1933-1938), All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2013. Parte delle note sono redazionali; queste ultime, quando non siano opera dell'Autore, sono contrassegnate dalla sigla [NdT]. Nei riferimenti bibliografici abbiamo indicato, ove possibile, le opere pubblicate in Italia.

Note
1 KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Prefazione all’edizione russa del Manifesto del partito comunista, 1882.
2 Freikorps: organizzazioni paramilitari sorte in Germania alla fine della Prima Guerra mondiale. Erano costituite perlopiù da excombattenti emarginati dalla vita civile, spesso animati da sentimenti di rivalsa contro l’inaspettata e apparentemente inspiegabile sconfitta (la cosiddetta Dolchstoßlegende) che essi attribuivano ai comunisti, contro cui indirizzarono una lotta spietata. [NdT]
3 Cfr. DENIS AUTHIER, JEAN BARROT, La sinistra comunista in Germania, La Salamandra, Milano, 1981. [NdT]
4 Kommunistische Partei Deutschlands, Partito Comunista di Germania. [NdT]
5 GPU (Direttorato Politico dello Stato) fu il nome della polizia segreta sovietica, emanazione del NKVD (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni), tra il 1922 e il 1934.
6 Cfr. DANIEL GUÉRIN, Fascismo e gran capitale, traduzione di Giorgio Galli, Schwarz, Milano, 1957.
7 Il Partito Comunista d’Italia fu guidato dalla corrente di sinistra (Bordiga, Fortichiari, Repossi etc.) dalla fondazione, nel 1921, fino al 1924, quando, con un colpo di mano – favorito dall’arresto di Bordiga e di altri importanti dirigenti del partito, nonché dallo stato di semiclandestinità in cui era costretta ad agire l’organizzazione – la corrente «centrista», guidata dagli ex-ordinovisti Gramsci e Togliatti, e appoggiata dall’Internazionale Comunista, prese il controllo del partito. Una delle principali divergenze tra la sinistra e l’Internazionale Comunista, riguardava appunto la cosiddetta tattica del «fronte unico», ovvero l’indicazione data da quest’ultima ai partiti comunisti membri, di procedere alla riunificazione con le correnti di sinistra dei partiti socialisti (in Italia, i massimalisti di Serrati). Cfr. [AMADEO BORDIGA], Storia della Sinistra comunista, voll. I-IV, Edizioni il programma comunista, Milano, 1964-1997. [NdT]
8 Cfr. DANIEL GUÉRIN, Fronte popolare, rivoluzione mancata, Jaca Book, Milano, 1974.
9 Cfr. TOM THOMAS, Les racines du fascisme, Albatroz, Parigi, 1996; Crève la Peste!, opuscolo, s. l., estate 1997; Démocratie et fascisme, supplémento al n. 7 di «Mouvement Communiste», 1998. Per una panoramica storica sintetica, si veda PIERRE MILZA, Les Fascismes, Imprimerie Nationale, Parigi, 1985.
10 ANGELO TASCA, La nascita del fascismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
11 Cfr. [AMADEO BORDIGA], Storia della Sinistra comunista, cit. [NdT]
12 A dispetto della tesi della storiografia ufficiale – e di quella «togliattiana» in particolare – gli scioperi del periodo 1942-'45, in Italia, ebbero un contenuto segnatamente classista, cioè incentrato prevalentemente su rivendicazioni di tipo salariale e inerenti alle condizioni di lavoro, anziché, come si pretende, su parole d’ordine antifasciste quali la «riconquista della democrazia» e la «liberazione nazionale». Un altro mito che dev’essere sfatato, riguarda il ruolo centrale che il PCI clandestino avrebbe ricoperto nell’organizzazione di quelle lotte, con particolare riferimento al grande sciopero delle fabbriche torinesi del 5 marzo 1943. Cfr., a tal proposito, ROMOLO GOBBI, Operai e resistenza, Musolini Editore, Torino, 1973, ove, tra l'altro, si mette in rilievo la funzione repressiva e anti-operaia delle formazioni partigiane legate al CLN e al Partito Comunista. [NdT]
13 Espagne: le maître ordonne, le valet obéit, in «Le Prolétaire», n. 206, 22 settembre-5 ottobre 1979.
14 Sulla «rivoluzione conservatrice», molti elementi si possono trovare in Pensée, révolution, réaction et catastrophe, prefazione ai quattro episodi dell'antologia Textes du mouvement ouvrier révolutionnaire, supplemento a «Invariance», uscita tra maggio e ottobre 1996.
15 Sul periodo considerato, cfr. DENIS AUTHIER, JEAN BARROT, op. cit.. A proposito dell'antisemitismo all'interno della socialdemocrazia tedesca, si veda ABRAHAM JOSEPH BERLAU, The German Social-Democratic Party (1914-1921), New York, 1949.
16 Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei: Partito Nazional-Socialista Tedesco dei Lavoratori.
17 Cfr. JEAN BARROT (a cura di), Bilan. Contre-révolution en Espagne (1936-1939), U.G.E. 10/18, Parigi, 1979. [Una trad. it. dell’introduzione del curatore, seppure assai zoppicante, è disponibile sul web. NdT]. Numerosi articoli tratti da «Bilan» sono apparsi sulla rivista internazionale della Corrente Comunista Internazionale e su «Invariance», che ha anche pubblicato una raccolta di testi di Ottorino Perrone, uno dei principali animatori della Frazione della Sinistra Comunista. Sulla Spagna, si vedano inoltre GERALD BRENAN, Le labyrinthe espagnol. Origines sociales et politiques de la Guerre civile, Champ Libre, Parigi, 1984; VERNON RICHARDS, Insegnamenti della rivoluzione spagnola (1936-1939), Edizioni Vallera, Pistoia, 1974; PIERRE BROUÉ, Staline et la Révolution. Le cas espagnol (1936-1939), Fayard, Parigi, 1993; PIERRE BROUÉ, Histoire de l'Internationale Communiste (1919-1943), Fayard, Parigi, 1997 (per Broué, il torto dell’antifascismo è quello di essere stato pervertito dallo stalinismo); HENRI CHAZÉ, Chronique de la révolution espagnol. Union Communiste (1933-1939), Spartacus, Parigi, 1979 (raccolta di articoli dell’Union Communiste, gruppo che si trovava in disaccordo tanto con il trotskismo quanto con «Bilan»); MICHAEL SEIDMAN, Ouvriers contre le travail. Barcelone e Paris pendant les fronts populaires, Senonevero, Marsiglia, 2010.
18 L’insurrezione prese avvio il 5 ottobre 1934, nella città mineraria di Mieres, dove i lavoratori occuparono la Municipalità e proclamarono la Repubblica socialista. Tre giorni dopo, gran parte della provincia era sotto il controllo degli insorti. In ogni città fu costituito un Comitato rivoluzionario, che assicurava i rifornimenti ed organizzava le milizie armate. Nel giro di dieci giorni, le milizie arrivarono a contare tra i 30.000 e i 50.000 combattenti. Il governo repubblicano – che molti, «a sinistra», avevano considerato una «conquista degli operai» – assegnò il compito di riportare l’ordine nella provincia al generale Francisco Franco. A questo scopo, il futuro caudillo non esitò a servirsi dell’artiglieria pesante e dell’aviazione, dalla quale fece bombardare i principali centri minerari. La resistenza accanita degli operai e dei minatori asturiani si spense soltanto il 20 ottobre, allorché vennero meno le armi e le munizioni. La repressione fu terribile, selvaggia, segnata da torture, uccisioni e stupri. Tra gli insorti, si poterono contare circa 3.000 morti e 7.000 feriti; 40.000 persone furono incarcerate. Cfr. MANUEL GROSSI, L’insurrection des Asturies, EDI, Parigi, 1972 (la prima edizione spagnola è del 1935; una traduzione italiana fu pubblicata a puntate, fra il 3 gennaio e il 14 agosto 1936, dal giornale «Giustizia e Libertà»). Gli avvenimenti spagnoli del 1934 furono seguiti da vicino anche da «Bilan», che pubblicò, sul n. 12 della rivista (12 ottobre 1934), l’articolo L’annientamento del proletariato spagnolo. [NdT]
19 VÍCTOR ALBA, Histoire du POUM, Champ Libre, Parigi, 1975.
20 Cfr. PAUL MATTICK, The Barricades Must Be Torn Down. Moscow-Fascism in Spain, «International Communist Correspondence», Chicago, n. 7-8, agosto 1937; reperibile sul web. [NdT]
21 Le «grandi purghe» staliniane culminarono in una serie di processi sommari che si tennero a Mosca, tra il 1936 e il 1938, e che colpirono, tra l’altro, gran parte della vecchia guardia bolscevica e i massimi esponenti delle opposizioni interne al PCUS. [NdT]
22 GEORGE ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1993. Il libro fu pubblicato nel 1938; nel 1951, ne erano stati diffusi meno di 1.500 esemplari. La prima traduzione dovrà attendere il 1948, la pubblicazione negli Stati Uniti il 1952.
23 Titolo tratto da: HENRI PAECHTER, Espagne 1936-1937. La guerre dévore la révolution, Spartacus, Parigi, 1986 [Prima edizione: Parigi, 1938, con lo pseudonimo Henri Rabasseire e il titolo: Espagne, creuset politique].
24 La versione integrale del discorso di Durruti si può trovare in ABEL PAZ, Durruti e la rivoluzione spagnola, BFS Zero in Condotta - Edizioni La Fiaccola, Pisa-Milano-Ragusa, 2010, pp. 536-37. [NdT]
25 L’Étoile Nord-Africaine fu un’organizzazione fondata nel 1926 da alcuni membri del Partito Comunista Francese di origine algerina (o meglio cabila), tra cui Hadj Ali Abd el-Kader, allo scopo di organizzare e sostenere i lavoratori algerini emigrati in Francia. L’organizzazione sostenne anche la lotta per l’indipendenza di Algeria, Marocco e Tunisia. Fu perseguitata da tutti i governi francesi, compreso il Fronte Popolare, che appunto ne impose la definitiva dissoluzione nel gennaio 1937. [NdT]
26 LÉON BLUM (1872-1950) fu tra i massimi dirigenti della SFIO (il Partito Socialista francese) e Presidente del Consiglio tra il 1936 e il 1937, all’epoca dei governi del Fronte Popolare. [NdT]
27 MAURICE THOREZ (1900-1964) fu segretario del Partito Comunista Francese dal 1930 fino alla morte. [NdT]
28 KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Scritti febbraio 1854 febbraio 1855, Lotta Comunista, Milano, 2011, p. 371.
29 In «Clé», n. 2, 1939.
30 LEV TROCKIJ, La loro morale e la nostra, De Donato Editore, Bari, 1967.
31 Cfr. ERRICO MALATESTA, Gli anarchici hanno dimenticato i loro principi, «Freedom», Londra, 1914. [NdT]
32 HELMUT WAGNER, L’anarchisme et la révolution espagnole, ADEL, 1997 (prima edizione: 1937). [Una trad. it. è disponibile sul web,
NdT].
33 «Solidaridad Obrera», organo della CNT, settembre 1936.
34 KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Scritti febbraio 1854 febbraio 1855, cit., p. 353.
35 Cfr. il già citato Orwell, oppure, a titolo di esempio, MARY LOW, JUAN BREÁ, Carnets de la guerre d'Espagne, Verticales, Parigi, 1997.
36 Sulle collettivizzazioni, si veda FRANK MINTZ, L’autogestion dans l’Espagne révolutionnaire, La Découverte, Parigi, 1976.
37 GERALD BRENAN, op. cit., p.153 [trad. redaz.]. Cfr. anche il capitolo sull'anarchismo andaluso in YVES DELHOYSIE E GEORGES LAPIERRE, L'incendie millénariste, Os Cangaceiros, s. l. 1987.
38 KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 29.
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